LAVORO E LOTTE SOCIALI NEL MERIDIONECentro studi Raniero Panzieri di PalermoPER LA COSTRUZIONE DI UN OSSERVATORIO SU LAVORO E LOTTE SOCIALI NEL MERIDIONE Cari compagni, nella prospettiva della costruzione di un osservatorio su lavoro e lotte sociali nel meridione, vi mandiamo questa nostra riflessione da intendersi non come progetto politico dell'osservatorio ma come elemento di discussione per avviarne l'attività. A nostro avviso la questione del lavoro, nella sua accezione generale, va analizzata in funzione dell'andamento generale del ciclo produttivo, cioè come sua diretta conseguenza. In particolare, nel momento attuale, la questione del lavoro va collegata alla crisi economica in corso che, dal punto di vista del lavoro è stata caratterizzata dall'aumento della forza produttiva conseguente ai salti tecnologici a cui è andato incontro l'intero apparato produttivo nazionale. Questa variazione della forza produttiva del lavoro significa (nella lettura marxiana) che la stessa grandezza di valore viene distribuita su una maggiore quantità di merce. In altre parole, come conseguenza della crisi ogni singolo operaio produce una quantità maggiore di merce nella stessa unità di tempo. Contemporaneamente e conseguentemente, diminuisce il valore del suo lavoro; infatti, essendo la forza-lavoro venduta dall'operaio per un tempo determinato, la graduale variazione della forza produttiva fa pesare sulla merce un valore sempre più basso. Se si considera il valore del lavoro come equivalente al valore necessario all'operaio per acquisire i mezzi di sussistenza si comprende come l'abbassamento del valore del lavoro conseguente allo sviluppo delle tecnologie si traduca nella riduzione dei mezzi a disposizione dell'operaio per soddisfare i bisogni primari. L'abbassamento del valore del lavoro riduce la possibilità per l'operaio di procurarsi il necessario per assicurare la riproduzione della propria forza lavoro; cioè di pagarsi una casa, il nutrimento, il vestiario, l'educazione, la salute. Tutto ciò si aggrava ancora di più quando, a causa della contrazione della produzione e del consumo, all'operaio viene richiesta una minor quantità di prodotto a un prezzo (per unità di prodotto) sempre più basso. Dal punto di vista del capitalista (almeno di quelli che sopravvivono alla crisi) la situazione è esattamente inversa. Egli infatti può ottenere un maggiore volume di merci con la stessa quantità di lavoro; ovvero, ma è la stessa cosa, può ottenere la stessa quantità di merce pagando di meno la forza-lavoro necessaria per produrla. In entrambi i casi aumenterà la massa del plusvalore e con questo aumenteranno i profitti dei capitalisti. Il capitalista come un vampiro succhia pluslavoro, approfittando del crescente divario tra tempo di lavoro necessario e tempo di pluslavoro. Per questo noi non crediamo, come fanno invece i riformisti vecchi e nuovi, che l'aumento della produttività sia in contrasto congiunturale con la perdita di valore dei salari; questo rapporto è un aspetto strutturale della contraddizione capitale/lavoro nella fase della crisi economica. Come è loro consuetudine, i riformisti camuffano la realtà pur di tenere accesa l'illusione che i tempi "umani" del capitale possono, prima o poi, arrivare. A questo scenario generale vanno aggiunti momenti specifici (alcuni caratteristici dell'attuale fase imperialistica) come la de-industrializzazione dei paesi del "centro" a fronte della nuova industrializzazione delle aree periferiche, la "questione meridionale" che assomma le problematiche delle aree a cavallo tra sviluppo e sottosviluppo, i processi di concentrazione (di cui Maastricht è solo l'ultimo esempio), il crollo del Welfare State cioè di una condizione di vantaggio costruita dentro il rapporto imperialistico nella fase di sviluppo del ciclo produttivo (dal dopoguerra alla metà degli anni '70). Di questi la "questione meridionale" è quella che si vuole assumere come campo di analisi e di intervento pratico, non solo perché siamo geograficamente interni al meridione ma perché è in quest'area geopolitica che le conseguenze della crisi si estendono pesantemente sul sociale, devastandolo. Ciò è dimostrato dal sempre più frequente coinvolgimento nelle vertenze industriali della popolazione di interi paesi che consapevolmente svolge un ruolo di appoggio attivo alla protesta operaia. Il valore di scambio del lavoro meridionale è il più basso di tutto il territorio nazionale. Ciò è dovuto a ragioni storiche: le aree industriali del sud sono di più recente costituzione di quelle del nord e ciò ha significato una maggiore debolezza "sindacale" del movimento operaio meridionale. Ed a ragioni di mercato: nel meridione è presente il più grosso esercito industriale di riserva fatto di centinaia di migliaia di disoccupati, sottoccupati e precari. La crisi economica accresce il divario tra le diverse aree industriali del paese. La riduzione dei mezzi necessari alla riproduzione, fenomeno generalizzato al territorio nazionale, è più sensibile nella classe operaia del meridione. Adesso, col beneplacito dei sindacati confederali, si inventano contratti d'area, gabbie salariali, e porcherie del genere, il cui effetto principale è quello della sistematica riduzione del valore della forza-lavoro; il territorio meridionale diventa lo spazio nazionale di più alto sfruttamento del lavoro. Questo significa anche che il meridione, essendo l'area a più alto tasso di pluslavoro, è anche un'area di sicuro vantaggio per i detentori del capitale, non per niente culla del capitale finanziario. Dal meridione partono gli intrecci leciti e illeciti che consentono all'enorme massa di capitale che qui viene prodotta, di spostarsi nei forzieri del centro o nei "paradisi" finanziari. Il contrasto tra il valore del lavoro e il plusvalore sociale assume, al meridione, dimensioni disumane ed è responsabile principale dello squilibrio tra una base sempre più ampia di miseria e un piccolo vertice di affaristi e traffichini straricchi. Una conflittualità sociale che assume sempre di più l'aspetto di guerra civile strisciante, a cui non sono estranei numerosi episodi delle cosiddette "guerre di mafia". La lotta delle masse meridionali si è sempre configurata come lotta per l'esistenza; più vicina alle "lotte per il pane" che a quelle per questioni politiche complessive. Un modello di lotta che va molto bene ai sindacati confederali dal momento che mantiene distinte e separate le categorie ed i soggetti socialmente antagonisti; un modello che quegli stessi sindacati tentano da un po' di tempo di esportare nei paesi industrializzati del centro-nord, per contrastare l'acquisizione di autonomia progettuale di quella classe operaia. Nel meridione la classe è dispersa dentro una miriade di sindacati, sottosindacati e aggregazioni di varia natura che ostacolano oggettivamente la ricomposizione. Ogni lavoro nella direzione della ricomposizione delle spinte attraverso una loro specificazione e rilettura politica mira al superamento di quegli ostacoli. Il terreno della ricomposizione ingloba l'economico nel politico; si tratta dell'unico terreno nel quale si riducono le spinte contrapposte tra diversi settori proletari (per esempio, quelle tra occupati e disoccupati, tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi, tra lavoratori e pensionati, tra italiani e immigrati e così via). Ora, se è vero che il sorgere di una molteplicità di soggetti rappresenta di per sé fonte di ricchezza progettuale, va anche detto però che se ogni frammento non ricerca il confronto e la ricomposizione con l' "altro", la tendenza alla ghettizzazione finirà con l'indebolire la necessità della ricomposizione e con lo sclerotizzare l'agire stesso nel proprio specifico. E non solo. Ogni altro momento possibile dell'insorgenza spontanea, non trovando alcun referente soggettivo, inevitabilmente è portato all'autoesaurimento, perdendo così - dal punto di vista della trasformazione sociale - quelle potenzialità di crescita generale di cui si avverte l'estrema urgenza. Quanto detto è ancor più marcato se ci riferiamo alla realtà meridionale, dove l'oggettiva conflittualità, dettata dalle condizioni di arretratezza dello sviluppo economico, offre possibilità enormi di crescita dell'antagonismo. Però se i soggetti, in atto disseminati nel territorio, non si assumono l'onere di riprogettare le proprie prospettive in chiave più generale, offrendo non solo l'organizzazione strumentale delle lotte, bensì, e soprattutto, le ragioni politiche della critica antagonistica alla razionalità dominante, l'orizzonte della trasformazione si allontanerà sempre di più e tutti gli sforzi della lotta sociale diventeranno terreno di legittimazione di un ceto politico che gioca la sua partita sul versante della conquista degli spazi istituzionali nel momento della competizione elettorale. Nelle more di una più convinta e decisa presa di iniziativa comune verso l'indirizzo politico unificante, bisogna creare spazi entro cui il reticolo soggettivo possa trovare il tempo di misurarsi. Se diciamo che il terreno delle lotte è lo spazio naturale del processo ricompositivo, dobbiamo riconoscere che l'altro punto cardine di siffatto processo è quello dell'elaborazione teorico-critica, sia nella sua "pars destruens" che in quella "construens". Pertanto, un osservatorio delle lotte nel meridione non può limitarsi a prendere atto della realtà; esso deve diventare parte di quella realtà e muoversi, teoricamente e praticamente, sul terreno della ricomposizione. Può apparire ormai superfluo sostenere che il proletariato non ha bisogno di essere guidato da una "coscienza esterna"; ma al di là delle parole bisogna partire dalla premessa che i processi di maturazione nascono, crescono e si concludono all'interno dello scontro sociale. In considerazione del fatto che il processo di ricomposizione politica della soggettività non potrà essere calato dall'alto, avendo questa dinamica percorsi e tempi propri, è tuttavia necessario fare in modo che tale momento sia posto all'ordine del giorno. In questo senso ogni realtà "avanzata" contribuirà allo sviluppo ed alla accelerazione di questo processo ricompositivo. Ciascuna, mettendo a frutto la propria esperienza, penserà in chiave progettuale alle alternative al modello sociale dominante. In questo snodo sta il percorso politico dell'osservatorio, rivolto prevalentemente alla promozione di percorsi di maturazione che entrino in dialettica col sociale. Lungo tale percorso, dunque, l'osservatorio si può configurare come laboratorio che sintetizza politicamente le tensioni sociali operanti nel territorio. La proposta "in positivo" dell'osservatorio non può sovrapporsi a quelle che maturano nello scontro di classe; essa deve affiancarsi e sostenere le tensioni ricompositive, tutte le volte che queste si rappresentano nel conflitto in atto, attraverso una serie di azioni del tipo: informazione e socializzazione delle proposte "avanzate" della classe, attività seminariale e dibattito sulla natura e le forme del conflitto nel meridione, coordinamento. L'osservatorio/laboratorio è condannato al disastro politico se non riuscirà a costruire internità sociale e soggettività. Alla luce di quanto pur frettolosamente affermato, proponiamo alle realtà dell'antagonismo meridionale la costituzione di un osservatorio che promuova e sviluppi attività teorico-pratica; un osservatorio che sia luogo di socializzazione e ri-elaborazione delle varie esperienze e che si ponga il compito di far evolvere il processo conflittuale nella direzione dell'alternativa al vigente ordine economico-politico. Concludendo, pensiamo che l'attività dell'osservatorio possa fin d'ora configurarsi come attività di raccolta di conoscenze (banche-dati, inchieste, reti telematiche, ecc), di elaborazione ed analisi delle conoscenze acquisite (seminari, dibattiti, ecc), di socializzazione dei risultati (informazione, propaganda, ecc) e, al tempo stesso, di rappresentazione e valorizzazione della soggettività. Centro Studi Raniero Panzieri Le realtà ed i soggetti interessati
al progetto possono mettersi in contatto con il [torna all'inizio della pagina] |