PARLARE DI STATO E DI REPRESSIONECollettivo politico antagonista universitario (Roma)Lo stato - come ha sottolineato Max Weber
- detiene il monopolio dell'uso legittimo della forza, tanto rispetto
all'esterno (con l'attività di "difesa" delle frontiere),
tanto sul piano interno, laddove ciò si concretizza nel dispiegarsi
dell'attività repressiva. Negli anni '70, in una fase in cui l'offensiva
proletaria spinge verso il traguardo del superamento del modo di produzione
capitalistico, l'esercizio dell'attività repressiva giunge al suo
culmine. Se il P.C.I., in pieno compromesso storico, indica nelle potenzialità espresse dalla costituzione il limite massimo entro cui deve svolgersi l'azione del movimento operaio, il movimento rivoluzionario, nelle sue sfaccettature, spinge la lotta su un terreno più avanzato, ponendosi quindi il problema (variamente risolto al suo interno) dell'uso consapevole della forza contro lo Stato stesso, la cui risposta è nella legislazione d'emergenza. Ma l'emergenza diviene una logica attraverso
la quale, da quel momento in poi, lo Stato regola qualsiasi conflitto
o questione sociale (si pensi, in questo senso, al decreto Dini anti-immigrati). Il protrarsi della logica emergenziale
disegna linee di continuità in un momento in cui si ridefiniscono
forma e funzioni dello Stato. I "governi dei tecnici" degli
ultimi anni non significano altro che presa diretta delle ricette neoliberiste
del F.M.I., al di là di ogni mediazione politica. La nuova costituzione materiale, che si
afferma come portato del processo di ristrutturazione che parte dalla
metà degli anni '70, si fonda sulla centralità dell'impresa
e sulla considerazione della forza lavoro come elemento mobile e flessibile
del capitale. Queste scarne e schematiche annotazioni
fanno capire come l'armamentario tradizionale con il quale si analizza
lo Stato sia superato, come ne siano mutate le funzioni (soprattutto sul
piano economico), come sia da ridefinire il concetto stesso di sovranità. Per ricostruire una memoria di classe C'è forse un solo modo per rompere
con quelle letture che collocano lo scontro in atto negli anni '70 in
una dimensione esistenziale e consiste nel ricostruire una memoria di
classe. C'è una tradizione che risale ad esperienze come i Quaderni Rossi e Classe Operaia negli anni '60 che, di contro alla tradizione idealista-stalinista della storiografia P.C.I., ha spinto per la creazione di una autonomia storiografica delle classi subalterne. In autori come Spriano (per fare solo un esempio) la storia è storia di partito, ricostruzione di uno scontro interno ad un vertice senza prendere in considerazione la base (stalinismo), né tanto meno indagare sul rapporto tra le opzioni politiche in campo ed una determinata composizione di classe (idealismo). La storia di cui stiamo parlando è storia dei comportamenti proletari, dell'irrompere della soggettività di classe, è registrazione del livello di coscienza di antagonismo espresso nelle diverse fasi storiche, colti nel loro inscindibile nesso dialettico con il livello raggiunto dallo sviluppo capitalistico, il carattere assunto dall'organizzazione del processo produttivo. In questo senso, il nodo della memoria
si pone ogni qual volta sia in atto un processo di trasformazione ed una
memoria di classe non può che essere legata a strumenti particolari
legati alla cosiddetta storia orale. E di strumenti come l'inchiesta operaia o la conricerca si torna a parlare oggi, non come fini in sé, ma come mezzi atti a rilevare le caratteristiche della nuova composizione di classe, i livelli di coscienza raggiunti, ed anche a favorire la crescita di consapevolezza da parte dei soggetti cui si rivolge. A partire da questi elementi, la questione
della memoria delle formazioni rivoluzionarie si pone in altro modo. Se si parte da questa impostazione si può
indagare sul rapporto tra la classe, nei suoi diversi segmenti, ed il
momento organizzativo, per come esso si è tradotto nelle formazioni
rivoluzionarie (incluse le formazioni combattenti, quasi mai sottoposte
a questo tipo di studio). Per la liberazione incondizionata delle compagne e dei compagni prigionieri La collocazione in ultimo di questo punto non è legata ad una sua relativizzazione, ma all'adozione di un preciso criterio logico. Si ha la chiara cognizione di un dato:
rilanciare una battaglia per la liberazione di chi ha militato nelle formazioni
combattenti significa attestarsi sul livello politico più alto,
le cui implicazioni sfuggono anche alla gran parte dei militanti. Senza entrare di nuovo nel merito (rispetto alle modificazioni della forma Stato e a come di fronte ad esse dobbiamo porci) va sottolineato un problema tutt'altro che marginale. Nel portare avanti una istanza di liberazione
si assume una precisa controparte (per alcuni un nemico, per altri un
referente), che non si può non conoscere, pena l'incomprensione
del suo atteggiamento rispetto alla battaglia che si sta portando avanti. Sono cose che bisogna saper valutare e la cui comprensione, lungi dall'essere legata ad una semplice lettura degli equilibri politici (che rimane comunque utile) può essere favorita da uno sforzo analitico di più ampia portata. Nello stesso tempo, per demolire il castello
di fantasticherie complottarde stile P.C.I., l'insostenibile prosa esistenzialeggiante
dei rotocalchi, occorre mettere in evidenza le radici materiali del conflitto,
"fare storia" dal nostro punto di vista. In un quadro più generale, vanno
fatte delle precisazioni. In secondo luogo: è chiaro che non spetta a noi pronunciarci sul dettaglio delle soluzioni tecniche; ancora più chiaro deve essere che senza costruzione di rapporti di forza a noi meno sfavorevoli non ci si può attendere molto da questo Stato (a meno che non si confidi in un provvedimento più o meno grazioso, ma in questo caso non si può parlare di libertà incondizionata!). Va scongiurato il rischio di un movimento d'opinione a tema, rischio che si corre se non si colloca la battaglia in un contesto più ampio e se le parole d'ordine non vengono rilanciate nel quadro di una lotta su tutti i fronti (sul reddito e sull'occupazione, contro ogni forma di repressione, contro i disegni neoautoritari, per rilanciare forme di democrazia diretta), contro quello che non esitiamo a chiamare - ancora - il nemico. Collettivo politico antagonista universitario (Roma) [torna all'inizio della pagina] |