SENZA CENSURA N.3 - APRILE 1997

PARLARE DI STATO E DI REPRESSIONE

Collettivo politico antagonista universitario (Roma)

Lo stato - come ha sottolineato Max Weber - detiene il monopolio dell'uso legittimo della forza, tanto rispetto all'esterno (con l'attività di "difesa" delle frontiere), tanto sul piano interno, laddove ciò si concretizza nel dispiegarsi dell'attività repressiva.
Materialmente parlando, ciò significa che lo stato detiene il "monopolio della violenza sui corpi".

Negli anni '70, in una fase in cui l'offensiva proletaria spinge verso il traguardo del superamento del modo di produzione capitalistico, l'esercizio dell'attività repressiva giunge al suo culmine.
Dove non si riesce ad arrestare il dispiegarsi dell'autonomia di classe con le riforme (che portano alla completa attuazione di molti aspetti della carta del '48), ci si affida a quelle leggi speciali che (a partire dalla legge Reale del '75) disegnano i contorni di uno stato di polizia.
Si assiste, quindi, alla divaricazione tra i diritti e le garanzie individuali (ferocemente negati) e diritti sociali (di cui si ha piena attuazione in un quadro che vede inalterati i presupposti di fondo su cui si fonda l'ordine capitalistico).

Se il P.C.I., in pieno compromesso storico, indica nelle potenzialità espresse dalla costituzione il limite massimo entro cui deve svolgersi l'azione del movimento operaio, il movimento rivoluzionario, nelle sue sfaccettature, spinge la lotta su un terreno più avanzato, ponendosi quindi il problema (variamente risolto al suo interno) dell'uso consapevole della forza contro lo Stato stesso, la cui risposta è nella legislazione d'emergenza.

Ma l'emergenza diviene una logica attraverso la quale, da quel momento in poi, lo Stato regola qualsiasi conflitto o questione sociale (si pensi, in questo senso, al decreto Dini anti-immigrati).
Nei confronti di chi ha optato per la lotta armata, si pratica l'annientamento ideologico e politico (e non solo) favorendo la creazione di spaccature e divisioni che attraverseranno le formazioni combattenti e l'intero movimento rivoluzionario (le prime leggi su pentitismo e dissociazione vedono la luce tra l'80 e l'82).

Il protrarsi della logica emergenziale disegna linee di continuità in un momento in cui si ridefiniscono forma e funzioni dello Stato.
In questa fase della mondializzazione capitalistica in cui si assiste alla transnazionalizzazione dei processi produttivi (la globalizzazione), lo Stato vede sottratto al suo ambito decisionale uno spazio economico dapprima coincidente con lo spazio dello Stato-Nazione.
In questo senso, viene meno la possibilità di definire una politica economica nazionale, i criteri di politica economica e le politiche del debito pubblico sono "suggerite" dal F.M.I.

I "governi dei tecnici" degli ultimi anni non significano altro che presa diretta delle ricette neoliberiste del F.M.I., al di là di ogni mediazione politica.
Al superamento tendenziale di un sistema produttivo (cosiddetto taylorista - fordista) corrisponde il venir meno di quel ruolo di mediazione sociale proprio dello Stato del capitalismo maturo, basato sulla leva fiscale come strumento principe della redistribuzione della ricchezza.

La nuova costituzione materiale, che si afferma come portato del processo di ristrutturazione che parte dalla metà degli anni '70, si fonda sulla centralità dell'impresa e sulla considerazione della forza lavoro come elemento mobile e flessibile del capitale.
Di un vero e proprio Stato-Impresa si può parlare, a partire dall'accentramento del potere nell'esecutivo che ne ridisegna la forma modellandola sull'organizzazione aziendale.

Queste scarne e schematiche annotazioni fanno capire come l'armamentario tradizionale con il quale si analizza lo Stato sia superato, come ne siano mutate le funzioni (soprattutto sul piano economico), come sia da ridefinire il concetto stesso di sovranità.
Soprattutto ci aiutano a cogliere la funzione dell'apparato repressivo statale in una fase in cui si ha l'erosione delle garanzie sociali proprie della fase precedente.
Ma tanti sono gli interrogativi che rimangono senza risposta.
Nel ridefinire una ipotesi di contropotere (è un esempio, volutamente estremo) qual è - schematizzando - la controparte: lo Stato stesso ? Il F.M.I.?
Su questi temi ed in concomitanza del dibattito in atto nel paese sulle riforme istituzionali, intendiamo lanciare un convegno che analizzi il processo di modificazione dello Stato dagli anni '70 ad oggi.

Per ricostruire una memoria di classe

C'è forse un solo modo per rompere con quelle letture che collocano lo scontro in atto negli anni '70 in una dimensione esistenziale e consiste nel ricostruire una memoria di classe.
Non è un compito molto facile, in una fase in cui (è il portato più significativo della ristrutturazione) quella che indichiamo come classe non si percepisce come tale.
Ma è un compito necessario, anche per superare i nostri limiti, per riprendere una memoria rivoluzionaria che non sia solo memoria delle diverse formazioni del movimento.

C'è una tradizione che risale ad esperienze come i Quaderni Rossi e Classe Operaia negli anni '60 che, di contro alla tradizione idealista-stalinista della storiografia P.C.I., ha spinto per la creazione di una autonomia storiografica delle classi subalterne.

In autori come Spriano (per fare solo un esempio) la storia è storia di partito, ricostruzione di uno scontro interno ad un vertice senza prendere in considerazione la base (stalinismo), né tanto meno indagare sul rapporto tra le opzioni politiche in campo ed una determinata composizione di classe (idealismo).

La storia di cui stiamo parlando è storia dei comportamenti proletari, dell'irrompere della soggettività di classe, è registrazione del livello di coscienza di antagonismo espresso nelle diverse fasi storiche, colti nel loro inscindibile nesso dialettico con il livello raggiunto dallo sviluppo capitalistico, il carattere assunto dall'organizzazione del processo produttivo.

In questo senso, il nodo della memoria si pone ogni qual volta sia in atto un processo di trasformazione ed una memoria di classe non può che essere legata a strumenti particolari legati alla cosiddetta storia orale.
Attraverso l'inchiesta operaia (che - in una certa misura, anche se il discorso è complesso - può essere considerata una forma di storia orale), i compagni dei Q. R. arrivarono a definire per primi l'operaio-massa, la nuova figura sociale creata dal modello fordista, antagonista nel suo non identificarsi con i destini del ciclo produttivo aziendale.

E di strumenti come l'inchiesta operaia o la conricerca si torna a parlare oggi, non come fini in sé, ma come mezzi atti a rilevare le caratteristiche della nuova composizione di classe, i livelli di coscienza raggiunti, ed anche a favorire la crescita di consapevolezza da parte dei soggetti cui si rivolge.

A partire da questi elementi, la questione della memoria delle formazioni rivoluzionarie si pone in altro modo.
Già in Lenin, la costituzione della classe in soggetto si presenta come scissione in seno alla stessa tra passività e attività, subalternità ed autonomia interne al doppio carattere della forza lavoro e quindi del proletariato.
Già in Lenin, quindi, a prescindere dalla soluzione adottata, la questione dell'organizzazione si pone nei termini che ci interessano.

Se si parte da questa impostazione si può indagare sul rapporto tra la classe, nei suoi diversi segmenti, ed il momento organizzativo, per come esso si è tradotto nelle formazioni rivoluzionarie (incluse le formazioni combattenti, quasi mai sottoposte a questo tipo di studio).
Siffatta ricerca si pone, a nostro avviso, come meno auto-referenziale del discorso classico sugli anni '70, più legata all'oggi, alle necessità della ricomposizione che ci si presentano in questa fase.
Si tratta di cogliere allo stesso tempo continuità e discontinuità dell'esperienza proletaria sino ad oggi, fratture e continuità di un sistema produttivo.
Su questi temi abbiamo in cantiere una attività seminariale anche a partire dalla ricorrenza del '77.

Per la liberazione incondizionata delle compagne e dei compagni prigionieri

La collocazione in ultimo di questo punto non è legata ad una sua relativizzazione, ma all'adozione di un preciso criterio logico.

Si ha la chiara cognizione di un dato: rilanciare una battaglia per la liberazione di chi ha militato nelle formazioni combattenti significa attestarsi sul livello politico più alto, le cui implicazioni sfuggono anche alla gran parte dei militanti.
Non c'è da stupirsi, visto il deficit di discussione su certi temi: il fatto che la questione dei detenuti politici richiami direttamente al problema dello stato (dagli anni '70 ad oggi) è avvertibile anche ad un livello intuitivo.

Senza entrare di nuovo nel merito (rispetto alle modificazioni della forma Stato e a come di fronte ad esse dobbiamo porci) va sottolineato un problema tutt'altro che marginale.

Nel portare avanti una istanza di liberazione si assume una precisa controparte (per alcuni un nemico, per altri un referente), che non si può non conoscere, pena l'incomprensione del suo atteggiamento rispetto alla battaglia che si sta portando avanti.
Quali implicazioni ha, per esempio, il dibattito interno alla sinistra istituzionale sulla proposta di indulto?
Cosa vuol dire per lo Stato - in questa fase storica - rispondere a certe istanze ed adottare una soluzione, una forma invece di un'altra?
L'amnistia invece dell'indulto e viceversa?

Sono cose che bisogna saper valutare e la cui comprensione, lungi dall'essere legata ad una semplice lettura degli equilibri politici (che rimane comunque utile) può essere favorita da uno sforzo analitico di più ampia portata.

Nello stesso tempo, per demolire il castello di fantasticherie complottarde stile P.C.I., l'insostenibile prosa esistenzialeggiante dei rotocalchi, occorre mettere in evidenza le radici materiali del conflitto, "fare storia" dal nostro punto di vista.
Cosa si vuol dire con queste osservazioni?
Forse che alla battaglia in questione vanno anteposte altre battaglie, forse che prima si debba ricreare una coscienza su certi temi, per poi lottare su terreni altrimenti impraticabili?
Se, come abbiamo detto, l'ordine seguito è logico e non cronologico, i tre punti (ma ve ne sono anche altri) vanno sviluppati in sincronia.
Nell'economia di questa battaglia, si può anzi usare proprio la centralità della questione della detenzione politica per sviscerare tutti i nessi cui rimanda.

In un quadro più generale, vanno fatte delle precisazioni.
Anzitutto che solo configurandola in tal modo, la battaglia di cui stiamo parlando può rientrare a pieno titolo nello sforzo di ridefinizione di una identità e di un programma di lotta antagonisti.

In secondo luogo: è chiaro che non spetta a noi pronunciarci sul dettaglio delle soluzioni tecniche; ancora più chiaro deve essere che senza costruzione di rapporti di forza a noi meno sfavorevoli non ci si può attendere molto da questo Stato (a meno che non si confidi in un provvedimento più o meno grazioso, ma in questo caso non si può parlare di libertà incondizionata!).

Va scongiurato il rischio di un movimento d'opinione a tema, rischio che si corre se non si colloca la battaglia in un contesto più ampio e se le parole d'ordine non vengono rilanciate nel quadro di una lotta su tutti i fronti (sul reddito e sull'occupazione, contro ogni forma di repressione, contro i disegni neoautoritari, per rilanciare forme di democrazia diretta), contro quello che non esitiamo a chiamare - ancora - il nemico.

Collettivo politico antagonista universitario (Roma)

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