PALESTINA: I PRIGIONIERI E LA "PACE"Comitato di solidarietà con i Prigionieri Politici Palestinesi - Bologna
Se consideriamo quanto si è parlato negli ultimi tempi della situazione in Palestina e quante considerazioni sono state fatte sui nodi irrisolti degli accordi di Oslo, la capacita dei media di ignorare totalmente uno dei punti di questo negoziato più significativi per il popolo palestinese, e, a dir poco stupefacente. Il grande assente, o uno dei grandi assenti, dal panorama dell'informazione, è il problema del rilascio dei prigionieri politici palestinesi, a cui Oslo ha dato risposte assolutamente insoddisfacenti, e rispetto a cui si e registrata la consueta indisponibilità israeliana a tener fede anche ai limitatissimi impegni assunti. La cessazione delle ostilità tra O.L.P. e Israele avrebbe dovuto portare automaticamente, almeno considerando vari precedenti, ad un riconoscimento dello status di prigionieri di guerra ai palestinesi detenuti, ed alla loro liberazione in tempi rapidi. Ma non è stato così. Le sporadiche liberazioni che hanno avuto luogo a partire dal Settembre del 93 e che Israele ha fatto passare per grandi concessioni, sono state accolte dai palestinesi con rabbia e manifestazioni di protesta, sia per l'esiguità del numero che per le modalità del rilascio, i cui criteri sono stati appoggio agli accordi di Oslo, l'aver quasi completamente (se non completamente) scontato la pena e soprattutto il non essere accusati di attacchi diretti agli israeliani. A partire dal Maggio del 94 il rilascio fu addirittura subordinato alla firma di una dichiarazione il cui testo originale recitava: "Io sottoscritto mi impegno ad astenermi da ogni atto di violenza e terrore. Dichiaro di essere completamente consapevole che la firma di questo documento e condizione e prerequisito per il mio rilascio, e sono anche consapevole che questo rilascio avviene nel quadro dei negoziati di pace e della "Dichiarazione dei Principi" firmata il 13 Settembre 93, che io appoggio". L'obbligo a firmare questa dichiarazione che, oltre a violare l'art. 27 della IV Convenzione di Ginevra, gli art. 2 e 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e l'art. 91 della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici, metteva anche una seria ipoteca sulle prospettive di democrazia nella società palestinese criminalizzando l'opposizione politica, scatenò un vero e proprio putiferio sia dentro che fuori dalle carceri. E alle varie iniziative di protesta parteciparono anche gli attivisti di Fatah, l'organizzazione di Arafat, quelli cioè che avrebbero dovuto avere meno difficoltà rispetto a questo documento. La protesta fu cosi incisiva che la parte riguardante appoggio ai negoziati venne eliminata e fu mantenuta solo quella che si riferiva all'impegno a rinunciare alle azioni armate che pero continuarono ad essere definite "attività terroristica". L'opposizione all'obbligo a firmare questa dichiarazione, che si è manifestata con scioperi nelle carceri, lettere di protesta e numerose campagne pubbliche, ha preso di mira anche la leadership dell'O.L.P., oltre che il governo israeliano, condannando la sua supina accettazione di questa situazione così umiliante. Ma oltre alla dimensione politica dell'umiliazione della lotta di liberazione palestinese nel suo complesso, c'è la tragedia della dimensione umana di questa situazione, ancora più profonda e coinvolgente, e proprio per questo ancora più definitivamente politica: dentro le carceri i prigionieri sono sottoposti ad una vera e propria guerra dei nervi dalle continue ed illusorie promesse di rilascio. Inoltre le condizioni di vita nelle carceri sono persino peggiorate per quanto riguarda il cibo, la situazione sanitaria, le cure mediche, la possibilità di vedere i familiari e di essere assistiti dai propri legali. Principale obiettivo degli israeliani sono i prigionieri dell'opposizione a cui, secondo i rapporti di numerose associazioni per i diritti umani, non vengono risparmiate punizioni corporali e torture. I prigionieri malati, quelli detenuti da molto tempo, gli anziani, i minorenni e altre categorie che secondo praticamente tutti i palestinesi dovrebbero essere immediatamente liberate, sono invece stati assolutamente trascurati nella scelta dei prigionieri da scarcerare, probabilmente perché, nella maggior parte dei casi, si tratta di figure estranee alla struttura dirigente dell'O.L.P. [torna all'inizio della pagina]
Per una di queste categorie, le donne, si deve fare un discorso specifico. La liberazione di tutte le prigioniere palestinesi era infatti uno dei punti degli accordi di Taba, o Oslo II, firmati tra la fine di Settembre e i primi di Ottobre dell'anno scorso, oltre che da Arafat, da Yitzhak Rabin e da Shimon Peres. A differenza della maggior parte delle enunciazioni riguardanti i prigionieri palestinesi in tutti gli accordi tra Arafat e gli israeliani, questo punto era estremamente chiaro e non lasciava spazio a diverse interpretazioni. Ma gli israeliani non si limitano a pretendere dai palestinesi concessioni a dir poco umilianti senza dare quasi nulla in cambio, non si sentono nemmeno vincolati dagli impegni sottoscritti. Il presidente israeliano, Ezer Weizman, ha infatti rifiutato di firmare la grazia per 2 donne di Gerusalemme, May Al-Ghasin e Etaf Alyan. Il governo laburista di Rabin e Peres avrebbe potuto contrastare questa decisione, visto che gli accordi firmati superavano l'usuale autorità di Weizman su Gerusalemme, ma non ha fatto nulla. Ilan Biran, allora comandante generale per la regione, ha colto l'occasione al volo e ha rifiutato la scarcerazione di altre 3 prigioniere della West Bank, AAber Al-Waheadi, Rula Abu Dahu e Lamia Màaruf. L'ipocrita motivazione di questi 5 rifiuti è stata: "le loro mani sono sporche di sangue israeliano". Le altre 23 prigioniere hanno rifiutato il rilascio senza le loro compagne. Si trovano ancora tutte nella prigione di Hasharon, inamovibili nella loro decisione di essere rilasciale "tutte o nessuna". Nel Gennaio di quest'anno, dopo una minaccia della direzione del carcere di spostarle con la forza, la protesta delle prigioniere e divenuta ancora più incisiva: si sono barricate in 2 piccole celle, hanno iniziato uno sciopero della fame e hanno rifiutato ogni tipo di contatto sia con gli israeliani che con l'Autorità Palestinese (a cui rimproveravano il più assoluto disinteresse per la situazione dei prigionieri politici, in generale, e in particolare per la loro situazione) per quasi un mese. Dopo aver ottenuto l'impegno degli israeliani a non spostarle con la forza e l'assicurazione dell'Autorità palestinese che il loro caso sarebbe divenuto la priorità nei rapporti con Israele, hanno accettato di tornare alle loro celle e di interrompere lo sciopero della fame. Dopo 6 mesi è arrivata la grazia firmata da Weizman per le prigioniere di Gerusalemme, ma è subito stata bloccata da un gruppo della destra israeliana chiamato "vittime del terrore arabo" che è ricorso alla Corte Suprema; nel frattempo il nuovo comandante generale per la regione centrale, Uzi Dayan, ha di nuovo congelato la grazia per le 3 prigioniere della West Bank. La protesta delle prigioniere sta andando avanti da oltre un anno ed è davvero incredibile il silenzio dei media sia israeliani che palestinesi che internazionali su questa campagna, a dir poco, eroica. Ci sono 23 donne che da più di un anno subiscono il carcere, mentre avrebbero potuto andarsene quando volevano, e anzi hanno subito continue pressioni in questo senso, praticando una solidarietà militante, tutt'altro che usuale, che, come minimo, dovrebbe fare notizia, ma l'atteggiamento dei media occidentali nei confronto Israele è sempre stato a dir poco compiacente, mentre la stampa palestinese, sempre più controllata da Arafat, ha i suoi buoni motivi per non dare troppo risalto a questa lotta. Anche tante organizzazioni per i diritti umani e gruppi hanno evidentemente risentito dell'atmosfera "drogata" dalla retorica sul processo di pace dimenticando una campagna che se si fosse sviluppata in un altro momento, ma soprattutto in un altro luogo, avrebbe avuto una ben diversa risonanza. [torna all'inizio della pagina]
Ma se la situazione delle donne è la dimostrazione più palese dell'impresentabilità degli accordi israelo-palestinesi, gli sviluppi della situazione di tutti i prigionieri dopo accordi di Taba, sono una mostruosità che passa sotto il più completo silenzio. Yfat Susskind, un'attivista dell'A.I.C. che ha realizzato un dossier molto accurato su questo tema, sottolinea la più totale inadempienza dello stato di Israele rispetto al quadro, già minimale, individuato dagli accordi: "Dall'inizio degli accordi sono stati rilasciati circa 1000 prigionieri, una cifra assoluta molto bassa, e inoltre categorie di prigionieri che avrebbero dovuto essere rilasciate sono ancora in carcere (oltre alle donne, che sono sicuramente il caso più clamoroso). Ad esempio i prigionieri che sono stati catturati in operazioni militari e che hanno già finito di scontare la loro condanna vengono tenuti in carcere come ostaggi, per essere utilizzati dagli israeliani come merce di scambio (scambi con la resistenza nel sud del Libano ecc.): ci sono prigionieri che hanno finito di scontare la loro pena da molti anni, ma che nonostante quanto stabilito dagli accordi restano in carcere. Inoltre, tra i prigionieri liberati circa 250 sono detenuti comuni, e questa è un'altra palese contraddizione degli accordi. Gli israeliani trattano la liberazione dei prigionieri come un privilegio, che possono estendere o ritirare a seconda delle situazioni, o delle concessioni che l'Autorità Palestinese è disposta a fare". La già tragica situazione nelle carceri israeliane si è ulteriormente aggravata dopo le operazioni militari di Hamas dello scorso marzo, quando ci sono stati arresti di massa sia da parte di Israele che dell'Autorità Palestinese, in stretto coordinamento tra loro, oltre al congelamento delle già esigue liberazioni di vecchi prigionieri. [torna all'inizio della pagina]
Anche su questo aspetto sono interessanti le considerazioni di Yfat Susskind: "Gli israeliani hanno arrestato 1000 persone, l'Autorità Palestinese circa 900. La maggior parte di quelli arrestati dagli israeliani sono stati rilasciati dopo pochi giorni, in carcere sono rimaste la leadership di Hamas e dell'Islamic Jihad, mentre nelle carceri palestinesi la situazione è molto diversa: la maggior parte degli arrestati è ancora detenuta e nessuno di loro è stato incriminato o processato. Alcuni hanno potuto rivolgersi agli avvocati e altri no, e comunque anche gli avvocati possono fare veramente poco per questi prigionieri che, in assenza di una normativa sulla questione, si trovano in una specie di buco nero. Questa situazione è collegata all'enorme pressione a cui è stata sottoposta l'Autorità palestinese, sia da parte degli israeliani che dell'amministrazione statunitense. Parlando con le guardie carcerarie di Rammallah un attivista si è sentito rispondere che la maggior parte degli 85 detenuti di quella prigione si trovano lì senza alcun tipo di incriminazione, solo perché l'Autorità Palestinese deve dimostrare ad Israele di tenere in carcere un certo numero di persone, e, ancora più sconcertante, alcuni dei funzionari del carcere hanno spiegato ai prigionieri che devono considerare la loro situazione come qualcosa di simile ad un servizio alla nazione. Questo non significa che l'Autorità Palestinese non abbia una propria strategia specifica e che ogni sua violazione dei diritti umani sia legata alla pressione di Israele ma certamente questo gioca un ruolo centrale." Anche Khalida Rautrout, avvocato dell'Addameer Institution, un'associazione palestinese di sostegno ai prigionieri politici, intervistata sulla situazione nelle carceri palestinesi spiega: "Il problema principale è che gli arresti e la detenzione avvengono nella più totale assenza di procedure legali. Finora nessun prigioniero ha la più vaga idea di quanto a lungo resterà in carcere. Ci sono 9 diversi servizi di sicurezza palestinesi, quindi è gia molto complicato capire chi è responsabile dell'arresto. Dopo averlo scoperto, gli avvocati devono fare richiesta a questo servizio per vedere il prigioniero e questo, di solito. avviene dopo molto tempo. Inoltre non ci sono tribunali veri e propri, nelle aree dell'Autonomia Palestinese, ma corti di massima sicurezza, i cui procedimenti sommari si svolgono durante la notte e senza la possibilità per l'imputato di avere un proprio avvocato difensore. Non c'è una strada legale per difendere i prigionieri politici, e non c è nemmeno una legge: l'Autorità Palestinese usa la legge egiziana, quella giordana, quella dell'O.L.P. e alcuni ordini militari israeliani. Noi chiediamo che ci sia una sola legge e che sia collegata alle leggi internazionali per quanto riguarda l'uso della tortura, il diritto alla difesa, a vedere i familiari, ecc." Tutti sono concordi nell'attribuire alle pressioni israeliane un peso notevole nei livelli elevatissimi di repressione messi in campo dall'Autorità Palestinese, ma è quasi unanime, almeno da parte delle associazioni per la difesa dei diritti umani, la convinzione che la creazione di un vero e proprio stato di polizia risponda anche ad un'esigenza precisa della leadership di Arafat. E' molto chiara, su questo aspetto, un'elaborazione della "Società Palestinese per la Protezione dei Diritti Umani e dell'Ambiente" (ex LAWE), che individua una continuità tra la gestione autocratica dell'O.L.P. e la strategia di intimidazione sistematica dell'opposizione che caratterizza il governo delle aree autonome. Questa strategia non trascura alcun aspetto della vita sociale e politica palestinese, ma naturalmente trova il suo punto di forza nella pervasività dei più classici strumenti della repressione: carceri e forze di sicurezza. Nella sola striscia di Gaza ci sono 24 diversi centri di detenzione di cui, prima di una ricerca dello scorso Aprile del "Gaza Center for Right and Law" non si conosceva nemmeno la dislocazione. Inoltre, con i suoi 9 servizi di sicurezza, costituiti da oltre 40.000 unità, le Aree Autonome Palestinesi hanno il più alto rapporto polizia-popolazione del mondo. La più totale mancanza di un regolamento per questi corpi di polizia ha creato una situazione di caos e corruzione che incoraggia ulteriormente le violazioni dei diritti umani e civili. Oltre alle difficoltà che i familiari e gli avvocati incontrano anche solo per sapere se la persona che cercano sia stata arrestata e alla totale assenza di una normativa sulla questione, a cui abbiamo già accennato, sono da considerare anche le condizioni di vita nelle carceri palestinesi ed sistemi usati durante gli interrogatori, che spesso non hanno nulla da invidiare a quelli israeliani. [torna all'inizio della pagina]
In realtà, i rapporti di abusi e torture sono iniziati subito dopo l'insediamento dell'Autorità Palestinese a Gaza, ma all'inizio riguardavano esclusivamente detenuti sospettati di essere stati collaboratori di Israele. Oggi questa pratica è divenuta la norma e varie associazioni per i diritti umani hanno iniziato a denunciarla. Il "Gaza Center for Right and Law" documenta, tra le pratiche più comuni, percosse con pugni, bastoni, calci di fucili ed altri oggetti, strangolamenti, bruciature e la segregazione in celle piccole e senza aria. Questi metodi vengono usati contro i membri di tutte le organizzazioni politiche, inclusi i dissidenti di Fatah. Finora 7 persone, ufficialmente, sono morte a causa delle torture, ma c'è chi sostiene che il numero sia ben maggiore, come è alto il numero di prigionieri arrivati in gravi condizioni all'ospedale in seguito alle torture: varie associazioni per i diritti umani, oltre a quelle già citate, ritengono che attualmente il 70% dei prigionieri sia sottoposto a torture. Il caso di Mahmoud Jamal J'mail, morto il 26 Luglio di quest'anno a causa delle torture subite, ha fatto emergere con una certa forza questa situazione. É opportuno ricordare che questo prigioniero, che era un militante di Fatah, è stato arrestato dalla polizia palestinese subito dopo il ritiro dell'esercito israeliano da Nablus, in un operazione che ha visto lo smantellamento della leadership locale di quest'organizzazione, per far posto a figure più vicine alle posizioni di Arafat. La morte di Mahmoud Jamal ha dato il via a una serie di proteste contro l'Autorità Palestinese, proteste che hanno visto come momento centrale il tema della carcerazione nel suo complesso e che hanno espresso la più completa solidarietà alle iniziative di lotta dei prigionieri. Infatti, ignorati e rimossi dai media locali, oltre che da quelli occidentali, a partire da Aprile ci sono stati 5 scioperi della fame nelle carceri palestinesi. Una delle proteste più significative si è svolta i primi di Agosto a Tulkarem, dove la polizia ha sparato sui dimostranti, uccidendone uno, e la folla inferocita ha liberato con la forza i prigionieri, quasi tutti di Hamas, che avevano iniziato uno sciopero della fame. L'Autorità Palestinese è però riuscita a riprendere subito il controllo della situazione e alla fine la maggior parte dei prigionieri si è riconsegnata spontaneamente: le Aree Autonome Palestinesi sono troppo piccole e la polizia palestinese è "troppa" per permettere una situazione di latitanza di massa, tanto più in assenza di una forte opposizione politica organizzata, in grado di coordinare le frequenti, a volte violente, ma sempre frammentarie sollevazioni contro l'Autorità Palestinese. La situazione di violazione dei diritti umani e l'utilizzo del carcere come deterrente per ogni tipo di dissenso sono la rappresentazione più evidente della frattura tra i palestinesi, che dopo 29 anni di occupazione israeliana esigevano rispetto per la loro dignità e un sistema di governo democratico, e la nuova leadership nelle Aree Autonome. Quest'ultima, almeno per quanto riguarda le forze di sicurezza, è costituita soprattutto da membri dell'O.L.P. ritornati dall'esilio e designati da Arafat a controllare posti chiave per il funzionamento della giustizia. Senza nemmeno considerare i molti casi in cui alti funzionari si sono distinti per la loro corruttibilità e la loro inclinazione ai crimini comuni, va detto che anche i più valorosi combattenti dell'O.L.P. in esilio non hanno fatto parte della leadership dell'Intifada nei Territori Occupati e soprattutto non hanno partecipato a quell'esperienza di sviluppo di strutture democratiche. Per quanto riguarda la leadership dell'Intifada, non solo non è stata, in genere, gratificata da riconoscimenti non formali del suo ruolo, ma spesso è stata l'obiettivo della repressione. [torna all'inizio della pagina]
Non si deve comunque pensare che Israele si sia accontentato di passare il testimone ad Arafat e alla polizia palestinese per la repressione degli elementi che costituiscono un problema per il perdurare del controllo israeliano sulla Palestina, anche dove formalmente l'esercito sionista si è ritirato. Anche escludendo l'ondata di arresti israeliani del Marzo scorso, il numero dei prigionieri, soprattutto amministrativi, è aumentato, dopo gli accordi di Taba e, come abbiamo sottolineato. la maggior parte di essi sono militanti dall'opposizione, arrestati in quanto tali. La detenzione amministrativa è probabilmente una delle più feroci politiche israeliane, se mai fosse possibile fare una graduatoria, di controllo dei palestinesi attraverso il carcere: consiste nell'arresto e la detenzione, sulla base di un ordinanza militare, senza un'incriminazione sostenuta da prove e la prospettiva di un processo. Può durare 6 mesi o un anno, in ogni caso la durata è marginale visto che può essere rinnovata, negli stessi termini, senza alcun limite. Per le detenzioni amministrative è possibile presentare il caso davanti alla Corte Suprema, ma la motivazione del procedimento è segreta e non è a disposizione della difesa. Agli avvocati difensori viene permesso di prendere visione del caso da 5 a 30 minuti prima di presentarlo! Queste misure sono state mantenute nell'ordinamento militare israeliano dalla "British Emergency Regulation" del 1945 (che, quando veniva utilizzata anche contro gli ebrei, tante critiche aveva sollevato negli ambienti sionisti). Questo utilizzo della detenzione amministrativa infrange gravemente il diritto individuale alla protezione dagli arresti arbitrari ed è in palese contrasto con le leggi internazionali, secondo cui questa misura non può essere intesa come una forma di punizione, ma come misura eccezionale per gravi ragioni di sicurezza; tutti i rapporti delle associazioni per i diritti umani sull'alto numero di arresti, l'arbitrarietà e le pessime condizioni di detenzione, l'uso quasi sistematico della tortura, suggeriscono che questa pratica di arresto è riservata prevalentemente ai reati di opinione. Allegra Pacheco, avvocato israeliano del Comitato di Solidarietà di Hebron, in un suo contributo al dossier sui prigionieri realizzato da Yfat Susskind e pubblicato nel numero di Agosto di "News from Within", scrive: "Nel 1994, quando gli israeliani si sono ritirati dalle aree di Gaza abitate dai palestinesi, (visto che l'esercito è rimasto a presidiare il 40% del territorio di Gaza dove si trovano gli insediamenti israeliani e le risorse idriche - n.d.r.) tutti i detenuti amministrativi di Gaza sono stati rilasciati. Ai palestinesi della West Bank è toccata una sorte molto diversa: nessun rilascio e un'ondata di nuovi arresti. Più di 2/3 degli attuali prigionieri sono stati arresati dopo la firma degli accordi di Oslo II, nel Settembre del 1995. Almeno 1/3 degli attuali detenuti amministrativi sono residenti nelle aree A, non più sotto la giurisdizione israeliana. In queste città i partiti di opposizione che una volta erano illegali ora operano apertamente. Nessuno nell'area A potrebbe essere arrestato solo per la sua identificazione con il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina o l'Islamic Jihad. Nonostante ciò Israele continua a tenere in carcere residenti palestinesi delle aree A solo per la loro appartenenza a queste organizzazioni". [torna all'inizio della pagina]
Sulla questione della detenzione amministrativa sono impegnati vari comitati ed associazioni, ma sicuramente quello che segue più da vicino la situazione dei detenuti è il "Committee to end the Administrative Detention", costituito in prevalenza da familiari dei prigionieri. Suha Barguti, presidente del Comitato, è la moglie di Ahmad Suleiman Qatamesh, un detenuto divenuto un simbolo. Ahmad, uno scrittore di 45 anni, è stato arrestato nella sua casa di Ramallah il 1 Settembre del 92, mentre la moglie e la figlia erano state chiuse a chiave nell'altra stanza. Secondo l'esercito sarebbe stato ricercato da 16 anni per la sua attività nel F.P.L.P. In prigione Qatamesh subì 120 giorni di interrogatorio durissimo, chi conduceva gli interrogatori lo ha minacciato ripetutamente di morte e le visite del suo legale sono state impedite per 23 giorni. I militari israeliani presentarono una lista delle accuse il 22 Novembre, circa 3 mesi dopo l'arresto: riguardavano del materiale di propaganda del F.P.L.P., una carta d'identità falsa e il fatto che aveva rifiutato di far schedare le sue impronte digitali. Durante il procedimento del ricorso in appello, presentato dal suo avvocato, i militari fecero sapere che se la Corte avesse ordinato il suo rilascio sarebbe subito partito un altro ordine di detenzione amministrativa. Il 13 Dicembre il giudice, Issac Stern, ordinò il rilascio di Qatamesh e gli arresti domiciliari, in attesa che fossero presentate prove più consistenti. I militari fecero ricorso e riuscirono a far annullare questa sentenza nel Gennaio del 93. Nei 10 mesi successivi i militari ritardarono in ogni modo il procedimento giudiziario e cercarono, inutilmente, di far confessare Qatamesh in cambio di una condanna a 20 mesi. Un altro rilascio fu ordinato dal giudice militare il 14 Ottobre del 93 e questa volta i suoi accusatori non riuscirono a presentare il ricorso entro i tempi previsti, ma quando la moglie e la madre andarono alla prigione di Ramallah, dove era detenuto, per portarlo a casa, venne loro detto che era appena stato emesso un altro ordine di detenzione amministrativa nei suoi confronti ed era stato trasferito alla prigione di Ansar III. A questa notizia la madre di Qatamesh svenne, le sue condizioni di salute, già precarie, dopo questa vicenda peggiorarono ulteriormente e dopo 2 mesi morì. Il tribunale militare negò ad Ahmed anche il permesso di partecipare ai funerali. L'avvocato cercò di presentare il terzo ricorso ma la sua domanda fu respinta in via preliminare dal giudice militare di Ansar III con la motivazione che Qatamesh continuava la sua militanza politica anche in carcere. Il giudice era giunto a questa conclusione ponendogli un'unica domanda: "Ti opponi ai negoziati?" L'ordine di detenzione amministrativa è stato rinnovato regolarmente fino ad oggi, e fino ad oggi non sono state presentate prove e non si è parlato di processo. [torna all'inizio della pagina]
A Suha Barguti abbiamo chiesto come si sta sviluppando l'attività del Comitato e qual'è in questo momento il livello della solidarietà internazionale ai prigionieri palestinesi e in particolare ai detenuti amministrativi. Prima di rispondere su questo Suha ha inserito il tema della detenzione amministrativa nel quadro degli accordi di Oslo: "Israele sta continuando questa politica della detenzione amministrativa senza che nessuno vi si opponga, anche gli accordi di Oslo non dicono nulla su questo punto, forse perché la maggior parte dei detenuti appartiene all'opposizione: al Fronte Popolare, al Fronte Democratico e ai partiti islamici. L'Autorità Palestinese non sembra particolarmente interessata a far pressione sui loro casi, e così Israele continua imperterrita la sua politica. Molti dei detenuti amministrativi sono delle aree A, quelle cioè che in teoria dovrebbero essere sotto l'Autorità Palestinese: il governo israeliano non dovrebbe avere giurisdizione su queste zone, ma, in realtà, gli accordi di Oslo I e II permettono agli israeliani di fare qualsiasi cosa per motivi di sicurezza, anche entrare nelle aree A, se lo ritengono necessario. Per quanto riguarda i detenuti amministrativi le loro condizioni di vita in carcere stanno peggiorando, come quelle di tutti gli altri prigionieri e inoltre si sta delineando la tendenza ad aumentare la durata della detenzione: a circa la metà dei 380 detenuti amministrativi l'ordine di detenzione è stato rinnovato per più di 4 volte. I prigionieri a partire dallo scorso 1 Agosto hanno deciso di boicottare gli appelli alla Corte Suprema israeliana perché hanno, e abbiamo, già ampiamente sperimentato che la Corte è solo una copertura, queste detenzioni sono politiche e non hanno nulla a che fare con l'amministrazione della giustizia. I prigionieri sono davvero esausti a causa di questa situazione e hanno deciso di iniziare uno sciopero della fame ad oltranza per cercare di far emergere questa ingiustizia. La richiesta è molto semplice, questi prigionieri devono essere incriminati o rilasciati. Come familiari e come associazioni per i diritti umani siamo molto spaventati dalla prospettiva di questo sciopero della fame perché conosciamo gli israeliani e sappiamo che per fare anche qualche piccola concessione aspetterebbero di veder morire molti prigionieri. Per ora siamo riusciti a convincerli a posticipare l'inizio di questo sciopero in attesa che parta una campagna che stiamo lanciando a livello locale e internazionale insieme ad altri gruppi: Al-Haq, Mandela, Addameer, B'tselhem. Per quanto riguarda la dimensione locale cerchiamo di creare un collegamento continuo con alcuni membri della Knesset, un canale attraverso cui continuare a fare pressione sulle istituzioni israeliane. Stiamo anche cercando di creare, o intensificare, i rapporti con il maggior numero possibile di figure istituzionali e O.n.G. in Europa e negli Stati Uniti, perché anche da parte loro provengano pressioni nei confronti di Israele. Stiamo chiedendo a tutti gli stati di farsi portatori di questa istanza nelle assemblee e nei tribunali internazionali, affinché ci sia una condanna esplicita di questa politica di Israele, ma finora non ci sono stati paesi che si sono presi questo impegno. Ci rendiamo conto che la strada istituzionale è difficile visto che Israele è molto potente. Ma abbiamo intenzione di andare avanti ugualmente. Molti di quelli che abbiamo contattato ci hanno risposto che ora è in atto un processo di pace e che abbiamo un'Autorità Palestinese a cui rivolgerci. Questo è forse il nostro più grave problema: la gente fuori è convinta che qui ora ci sia la pace. Non è così, questa è una parvenza di pace e il potere non è nelle mani di Arafat, che si è anche visto negare dagli israeliani il permesso di spostarsi nella West Bank lo scorso Agosto, l'Autorità Palestinese non è altro che uno strumento nelle mani di Israele". Suha Barguti ha concluso comunque le sue considerazioni con un appello rivolto a tutti i movimenti di liberazione, i comitati e le organizzazioni che nel mondo lottano contro l'oppressione perché non dimentichino non solo i detenuti amministrativi ma tutti i prigionieri politici palestinesi, vittime sacrificali sull'altare della normalizzazione in Medio Oriente. [torna all'inizio della pagina]
Ma oltre i circa 5000 prigionieri palestinesi che stanno marcendo nelle carceri israeliane (molti dei quali spostati dai Territori Occupati oltre la green-line durante il ridispiegamento dell'esercito nel Dicembre del 95, nel consueto disprezzo israeliano di tutte le convenzioni internazionali) ci sono altri prigionieri rispetto a cui la rimozione è stata ancora più profonda, quelli che Yfat Susskind nel suo dossier chiama "i combattenti dimenticati", le "centinaia di militanti palestinesi e una volta rappresentavano la lotta per i diritti nazionali palestinesi e contro l'egemonia statunitense e israeliana nel Medio Oriente. Nella nuova era "era della pace" questi combattenti, come lo stesso popolo palestinese, sono visti come i residui di una lotta obsoleta e ora stanno languendo nelle carceri israeliane, europee e arabe". Ci sono 184 prigionieri arabi in Israele, completamente dimenticati dai propri governi che spesso hanno firmato dei trattati di pace con Israele. Di essi 69 sono libanesi (8 arrestati nel 96), 43 siriani, 21 giordani, 12 egiziani, 3 iracheni, 2 libici, 1 sudanese e 33 arabi "non identificati". Come avevamo già osservato, molti di essi vengono tenuti in carcere anche dopo che hanno finito di scontare la loro pena, per essere utilizzati in possibili scambi di prigionieri. [torna all'inizio della pagina]
Per quanto riguarda i prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri europee e dei paesi arabi ci sono poche notizie. In Italia, Germania e Grecia ci sono circa 40 prigionieri palestinesi ma si sa molto poco sulle loro condizioni, e i 9 o più prigionieri detenuti in Inghilterra (di cui neanche Amnesty International, che ha il suo quartier generale a Londra, è riuscita a determinare il numero esatto) non si vedono neppure riconosciuto lo status di prigionieri politici. Tutti questi prigionieri, così come i prigionieri del 48 che Israele considera detenuti comuni poiché hanno la cittadinanza israeliana, ma ai quali non riconosce nemmeno gli stessi diritti degli ebrei detenuti), sono stati catturati mentre eseguivano gli ordini di Arafat e si sarebbero aspettati che l'O.L.P. prima e l'Autorità Palestinese poi si fossero preoccupati della loro situazione. Ma la retorica della "rinuncia al terrorismo", caratterizzato i negoziati dalla Conferenza di Madrid in poi, ha reso questi combattenti molto scomodi nel momento in cui la leadership di Arafat ha accettato di entrare, se pur da perdente e dalla porta di servizio, nel salotto del nuovo ordine mediorientale. E oltre agli accordi di Oslo c'è uno specifico interesse dell'Autorità Palestinese, questo ragionamento riguarda tutti prigionieri, ad estromettere dalla vita sociale gli elementi potenzialmente destabilizzanti rispetti al percorso di costruzione di un semi-stato autoritario e verticistico. L'esperienza di lotta di questi prigionieri e l'esperienza di democrazia diretta, oltre che di lotta, degli attivisti dell'Intifada, li rende, al di là della retorica sempre d'obbligo, indesiderati e indesiderabili per un potere che sempre più si fonda sul terrore e sulla subalternità ad Israele. Comitato di solidarietà con i Prigionieri Politici Palestinesi - Bologna Per contatti: Patrizia, tel. 051/340208 - 346458 [torna all'inizio della pagina] |