QUADERNI
DI SENZA CENSURA - N.1 - NOVEMBRE 1997 |
PER LA LIBERAZIONE!
Intervento di Joelle Aubron, Nathalie
Menigon e Jean Marc Rouillan all'assemblea del 19 giugno 1997 a Bruxelles
in occasione della Giornata Internazionale del Rivoluzionario Prigioniero
Prendiamo la parola oggi, in occasione
di questa giornata internazionale del prigioniero rivoluzionario, al fine
di portare il nostro sostegno alla campagna per la liberazione dei compagni
delle CCC.
Questi compagni hanno scontato più
di 10 anni della loro condanna e il loro rimanere in stato di detenzione
ora è solo competenza del potere politico. Il governo belga usa
questo potere arbitrario già da molti mesi.
E' molto chiaro che questa campagna non
ha niente a che vedere con le numerose messe in scena "soluzioniste"
che abbiamo visto spesso attorno alla questione della detenzione politica.
Qui si tratta invece di una lotta per la
liberazione senza compromessi, senza rinnegare, senza niente che possa
intaccare il senso della lotta rivoluzionaria passata e presente di questi
compagni.
Noi abbiamo combattuto al loro fianco spesso
impugnando le armi e di conseguenza conosciamo bene tutto il loro valore.
Sicuramente abbiamo avuto e abbiamo ancora
delle divergenze politiche, ma mai queste divergenze potranno servire
da pretesto per un passo indietro nell'espressione di tutta la nostra
solidarietà proletaria combattente.
Per questo oggi noi siamo ancora al loro
fianco in questa nuova lotta.
Bisogna strappare la libertà
di Pascal, Pierre e Bertrand! Subito!
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1.
UN PATRIMONIO DI LOTTA RIVOLUZIONARIA |
La lotta per la liberazione dei prigionieri
rivoluzionari è una lotta per la memoria collettiva di tutto il
movimento rivoluzionario, un momento della lotta di emancipazione di tutti
i proletari.
In Europa, dopo il maggio '68, migliaia
di militanti hanno fatto la scelta della lotta armata per il Comunismo.
Dopo la lotta extraparlamentare degli studenti
di Berlino e dopo la grande rottura nei confronti del revisionismo dei
partiti e dei sindacati della sinistra istituzionale, che si è
data con i comitati di occupazione della Primavera francese e l'Autunno
Caldo italiano... le guerriglie hanno sperimentato, accumulato e diffuso
tutto un sapere combattente.
Oggi questo sapere è uno dei principali
patrimoni della classe.
E malgrado tutto la sua memoria resta innegabilmente
viva.
Malgrado le campagne di disinformazione orchestrate dalla propoaganda
dei media, malgrado la permanente riscrittura storica di questa epoca,
malgrado i processi-spettacolo, malgrado le calunnie e le deformazioni
a oltranza, malgrado i braccetti di isolamento, la tortura e l'omicidio...
Numerosi esempi evidenziano questa verità.
Qualche mese fa in Italia quando un giornalista
pose la domanda a degli operai per sapere chi difenderà meglio
i loro interessi, hanno risposto "sicuramente non un nuovo patto
sindacati-padroni-governo, quello che ci manca sono le Brigate Rosse".
A Vilvaorde, gli operai manifestando la
loro rabbia hanno pubblicato e largamente diffuso un manifesto sul quale
si legge: "Besse è stato il primo, chi sarà il successivo?".
Questa rivendicazione dell'azione del commando
Pierre Overnay della nostra organizzazione, da parte della classe, come
sua propria azione, come parte della sua memoria di lotta, dimostra bene
che ogni volta che i proletaririalzano la propria bandiera, quella dell'autonomia
di classe nelle lotte, ristabiliscono immancabilmente il legame tra la
lotta degli anni 60-80 e le prospettive attuali di trasformazione sociale
E non può essere diversamente nella
dialettica delle lotte rivoluzionarie.
Niente nasce dal niente. Nessun movimento
rivoluzionario sorge senza fare sua la storia della sua classe e il patrimonio
della sua lotta, di ieri e di prima di ieri, a livello locale e internazionale.
Noi stessi quando abbiamo intrapreso queste
lotte alla fine degli anni '60, portavamo in noi il patrimonio del movimento
rivoluzionario che ci aveva preceduto, quello della Resistenza al nazismo,
delle rivoluzioni cinese e cubana, dei maquis antifranchisti, delle lotte
di liberazione algerine e vietnamita, quello dei grandi scioperi operai
del '48 e degli anni 50...
Senza fare nostro questo patrimonio, senza
collocarci in rapporto ad esso, senza apportare una critica costruttiva
e militante, noi non avremmo mai potuto sperimentare le vie che abbiamo
preso.
Mai avremmo potuto definire e praticare
l'unità dei tre fronti: fronte anticapitalista, fronte antimperialista,
fronte antirevisionista.
Mai avremmo potuto ridare il suo posto
all'iniziativa delle masse stesse nel loro processo di autoeducazione
e autodeterminazione e concepire nuovi rapporti tra le avanguardie di
lotta e gli organismi di massa.
Mai avremmo potuto rivitalizzare un internazionalismo
proletario indebolito dalla collusione tra il revisionismo e l'imperialismo
che durava da vari decenni.
Mai avremmo potuto definire un nuovo internazionalismo
proletario che per noi aveva le sue linee principali nell'unità
dei rivoluzionari in Europa e nel Fronte antimperialista nell'area geo-strategica
Europa occidentale e orientale- Medio Oriente-Mediterraneo.
Mai avremmo potuto riattualizzare il progetto
rivoluzionario sul nostro continente, facendo così nostro l'insegnamento
della guerra rivoluzionaria delle masse dei tre continenti e facendo dell'unità
del politico e del militare la direttrice che attraversa tutti gli aspetti
del processo e dell'attività rivoluzionaria, orientando così
tutte le questioni nate con il procedere della lotta verso la risoluzione
rivoluzionaria.
Dal'inizio e ad ogni fase del processo,
non avremmo potuto dimostrare che senza risolvere la questione della violenza,
nessuna politica rivoluzionaria è praticabile, né è
possibile nessuna rottura e critica dei regimi di "democrazia spettacolo".
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2.
RIFIUTARE IL RINNEGAMENTO DELL'IMPEGNO RIVOLUZIONARIO |
I prigionieri rivoluzionari portano in
loro questo patrimonio.
Rappresentano il legame più diretto che ci sia tra lotte passate
attualità della resistenza con le sue prospettive di emancipazione.
Ed è per questo che da molto tempo
sono in corso manovre da parte di coloro che vogliono distruggere questa
sperimentazione, magari riscriverla al servizio della liquidazione e dell'opportunismo.
Così i prigionieri non solo devono
lottare contro la sottomissione e l'annientamento quali obiettivi dello
Stato nella gestione controrivoluzionaria della detenzione politica, ma
devono anche lottare continuamente contro le illusioni di un ritorno alle
tradizioni gruppettare, sedicenti m–l, o a quelle anarchiche.
Perchè rinnegare quello che è
stato il proprio impegno nel corso di quegli anni, vuol dire essenzialmente
tornare alle parzialità tollerate dal sistema "democratico"
borghese e partecipare all'illusione della formalità sempre più
di facciata sempre più alienante di questi regimi.
Vuol dire lasciar credere che sia sempre possibile una rottura rivoluzionaria
nell'accumularsi delle proteste di routine, settorie o sindacali, che
si possa acquisire l'esperienza necessaria senza lo sviluppo di momenti
rivoluzionari capaci di indebolire il dominio e di rafforzare la coscienza
antagonista dei proletari.
l nostro discorso non deve far pensare
che noi privilegiamo unicamente l'azione armata e che consideriamo secondarie
tutte le altre pratiche.
Non è così.
La questione è sapere qual è
la strada rivoluzionaria sul nostro continente, qual è la sua strategia
principale, qual è l'organizzazione sociale sovversiva che corrisponde
allo scontro storico in corso, quale preparazione, e agitazione-propaganda
essa esige...
Le lotte passate hanno scavato un fossato
tra il disimpegno permanente di fronte ai compiti della lotta di classe
rappresentato dalle pratiche senza sbocco e dalle delegazioni inamovibili
dei "bonzi", e la guerra rivoluzionaria di lunga durata che,
in presenza dello sviluppo del sistema controrivoluzionario di controllo
totale, della generalizzazione del militarismo e della gogna mediatico-ideologica
dell'opinione pubblica, è la sola via adeguata ad una ripresa dell'iniziativa
rivoluzionaria, capace di sostenerla, di operare per l'unità dei
proletari europei con le immense masse proletarizzate del Tricontinente
e di orientare il fronte comune con tutte le resistenze nelle fabbriche,
nei quartieri, nelle diverse lotte sociali.
Questo fossato esiste ancora, più
che nel passato, per coloro che sanno vederlo, che vogliono superare i
limiti dell'illusione.
E' sempre lo stesso vecchio fossato tra
riformismo e rivoluzione. Due posizioni che rimangono incompatibili nello
sviluppo-imputridimento del capitalismo.
Di conseguenza e per preservare interamente
il senso del processo rivoluzionario degli anni 60-80, i prigionieri della
guerriglia devono rifiutare di passare sotto le forche caudine dell'istituzione
in quest'altro modo, cioè quello di fargli rifiutare la propria
storia di rottura e di critica, la propria memoria, per tornare da dove
sono partiti.
Vale a dire la strada senza sbocco dell'impotenza
e della contestazione istituzionale tipica della sinistra pacifista, legalitaria,
pontificante ed eurocentrica.
Come se niente fosse veramente successo,
come se rimettendo all'ordine del giorno "i tempi dei partigiani",
più di due decenni di lotta fossero messi tra parentesi e cancellati
con tutto il loro patrimonio per la classe.
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3.
IL FILO ROSSO DI UN PASSAGGIO DI FASE DELLA LOTTA DI CLASSE |
Alla fine degli anni '80, si è innegabimente
prodotta una frattura storica.
Con la crisi del capitalismo - la manifestazione dei suoi limiti - e a
causa dei cambiamenti del modello di accumulazione intrapresi dalla borghesia
nel tentativo di restaurare il suo dominio e i suoi profitti, un ciclo
di lotte si è esaurito.
Non per questo si è conclusa la
storia, come sostiene un cantore del neoliberismo, semplicemente nella
storia - e quindi nella storia rivoluzionaria - si è voltato pagina.
Siamo entrati in un'epoca di transizione.
Evidentmente è un fatto di importanza
cruciale, ma ciò non ha niente di straordinario o di catastrofico.
Situazioni analoghe si sono già verificate due o tre volte nel
corso di un secolo.
Dopo le barricate della Comune di Parigi,
la storia rivoluzionaria sul nostro continente ha dovuto evolvere, sperimentare
e conoscere e riconoscere la sconfitta, risollevarsi e ripartire per "l'assalto
al cielo".
Così come con la seconda rivoluzione
industriale, i proletari abbandonarono le antiche tattiche cospiratrici
e insurrezionali e optarono per la costruzione di grandi partiti e sindacati.
Ma questi, dopo essere stati strumenti
di un salto qualitativo innegabile, vennero superati perché si
dimostrarono incapaci - malgrado la loro potenza - di rovesciare o anche
correggere le logiche del capitalismo e, peggio, gettarono milioni di
proletari legati mani e piedi nella carneficina della prima guerra mondiale.
Della critica di questa esperienza e spinti
dalla speranza della Rivoluzione russa del 1917, nasceranno i partiti
comunisti e la Terza Internazionale.
Due decenni più tardi questi partiti
e il loro pensiero a loro volta cominciarono a cadere in altri errori,
altrettanto gravi, fino alla collusione con il sistema borghese imperialista
nel dopoguerra, quando nei principali centri industriali il regime di
accumulazione fordista riuscì a integrarli nella gestione del sistema
del Welfare-State.
Ma le masse popolari, sempre più
mondializzate e proletarizzate dal gigantesco movimento di industrializzazione
che nel corso degli anni 50-70 si diffondeva dal centro verso la periferia
sperimentarono altre strade di lotta per i loro interessi, per la loro
unità.
Una nuova ondata rivoluzionaria si concretizza,
rompendo i grandi assiomi del revisionismo moderno "il passaggio
graduale al socialismo attraverso le riforme di struttura", "la
coesistenza pacifica con l'imperialismo ", "la centralità
della lotta parlamentare nazionale"...
Nel 1967 l'Organizzazione Latinoamericana
di Solidarietà proclamava:
"la lotta rivoluzionaria armata
costituisce la linea fondamentale della rivoluzione in America Latina.
Tutte le altre forme di lotta devono servire e non ritardare lo sviluppo
della linea fondamentale che è la lotta armata".
La comparsa della guerriglia europea si
colloca in questo grande movimento storico e nelle determinazioni politico-pratiche
che esso implica.
Di fronte a una industrializzazione mondializzata
sempre più polarizzata tra un centro sempre più finanziario
e una periferia sempre più sfruttata e spossessata, e di fronte
alla globalizzazione dei rapporti sociali dominanti, la guerriglia ha
dovuto sperimentare e generalizzare, nella lotta sul nostro continente,
l'unità delle lotte anticapitaliste e antimperialiste.
Nella nuova congiuntura, la lotta dei popoli
dipendenti diviene sempre più una lotta proletaria internazionale.
Essa non è più semplicemente parte della rivoluzione proletaria
mondiale, innegabilmente essa è il cuore dell'unità della
classe.
Ogni salto in avanti dello scontro rivoluzionario
nel centro, nella "patria delle casseforti" non solo deve appoggiare
e rappresentare un'avanzamento reale degli interessi reali dei proletari
qui, ma deve essere anche e principalmente un momento di unità
internazionale della classe intera.
Vale a dire un attacco che realmente distrugge
e sovverte il funzionamento degli strumenti e dei rapporti imperialisti
che mantengono, rafforzano o anche ridistribuiscono qui, i dividendi tratti
dallo sfruttamento e dall'oppressione di centinaia di milioni di proletari
e delle masse dipendenti del Tricontinente.
Si tratta di un imperativo ineluttabile,
perché rinasca nei paesi della Triade imperialista coscienza e
organizzazione per la trasformazione sociale.
"La guerriglia è la forma
dell'internazionalismo proletario nelle metropoli. E' il soggetto della
ricostruzione della politica proletaria a livello internazionale".
Il filo rosso di 150 anni di lotte sociali
è il cammino verso l'autonomia politica del proletariato come unica
classe effettivamente rivoluzionaria, capace di sbarazzarsi dello sfruttamento
economico e di ogni sfruttamento, una lungo cammino che va dall'unità
con la borghesia degli inizi, alle lotte popolari, fino alla lotta per
la propria autoorganizzazione, per la costruzione del suo partito autonomo
e infine per la sua unità mondiale.
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4.
UN NUOVO MODELLO DI ACCUMULAZIONE, UN NUOVO CICLO DI LOTTA BORGHESIA
/ PROLETARIATO |
La dinamica propulsiva dei salti qualitativi
da un'epoca all'altra del capitalismo, diviene sostanzialmente traumatica
quando si rivelano i limiti raggiunti dal modello di accumulazione e si
scatena quindi una lotta generale economica, politica, culturale... tra
i principali attori sociali.
In quanto la borghesia (proprietaria /
non lavoratrice / sfruttatrice) deve lottare per rivoluzionare i rapporrti
di produzione nel quadro del capitalismo e quindi della loro riproduzione
allargata e il proletariato (non possidente / lavoratore / sfruttato)
lotta per sottrarsi alle condizioni di sfruttamento e di miseria, per
rivoluzionare radicalmente tutti i rapporti sociali e quindi i rapporti
di produzione capitalisti e farla finita con il capitalismo stesso.
Per tutti i marxisti questo è molto chiaro.
Il capitalismo si suddivide in diversi
stadi e tappe e con esso i cicli di lotta, le forme e i metodi rivoluzionari,
sotto "l'effetto storico della lotta di classe".
Sappiamo che tutti lo sanno, tuttavia crediamo importante dirlo e se occorre
ripeterlo, poiché questa comprensione generale è troppo
spesso assente dalle analisi delle trasformazioni e dell'antagonismo di
classe degli anni 80 e 90, che possiamo leggere qua e là sulla
stampa militante, spesso troppo occupata a seguire le mode lanciate da
sociologi, filosofi, o altri mandarini del sapere servile.
In assenza di un rovesciamento rivoluzionario
decisivo, l'unico capace di far nascere nuovi rapporti di produzione,
si realizza il superamento guidato del vecchio modello di accumulazione
in crisi, sotto l'azione della lotta di classe della borghesia, sotto
la sua direzione politico-ideologica.
Solo in questo modo la borghesia riesce
ad imporre un nuovo insieme di rapporti e di strumenti di regolazione
e per questo tali cambiamenti corrispondono inevitabilmente all'intensificazione
dei caratteri e dei limiti propri dei rapporti di produzione capitalisti.
Di conseguenza e a dispetto del "riformismo
radical-chic" in presenza di questi rapporti di produzione e dell'estensione
del dominio reale del capitale all'intero pianeta, non vi sono possibilità
di capitalismo "dal volto umano", di mutamenti graduali di questo
modo di produzione come vorrebbero far credere la religiosità del
progresso e la visione socialdemocratica.
La globalizzazione della crisi di sovrapproduzione
assoluta di capitale generalizza la concorrenza accanita, caotica e distruttrice,
tra le corporation transnazionali, tra tutte le imprese, i settori, tra
i paesi, tra le aree continentali, tra tutti gli esseri umani, tra i maschi
e le femmine, tra le popolazioni...
La concorrenza alimenta i conflitti, la
diffusione del militarismo, le lacerazioni, i saccheggi... ma soprattutto
alimenta la guerra di produttività.
E questa guerra non porta alla pace poiché inesorabilmente la competitività
produttiva, nel suo sviluppo, comporta la caduta tendenziale del saggio
di profitto e quindi maggiore guerra di concorrenza.
Gli sforzi di competitività e le
controtendenze alla caduta del tasso di profitto sono altrettanto espressioni
della lotta di classe della borghesia.
Lotta tra le diverse frazioni della classe borghese, ma soprattutto un
antagonismo nella polarizzazione sociale tra una frazione della borghesia
sempre più ridotta e un proletariato sempre più esteso e
sfruttato.
Di conseguenza, il nuovo modello di accumulazione
rappresenta lo stato reale del rapporto di forza a favore della classe
borghese.
Non c'è alcun dubbio che lo stato
del rapporto di forza tra le classi si sia considerevolmente modificato
nel corso del passaggio tra il modello fordista-keynesiano e quello toyotista-neoliberale.
Secondo Marx, i due cardini essenziali
per ristabilire i tassi di profitto poggiano sullo sfruttamento intensivo
e sull'espansione della classe proletaria.
Egli ha sempre legato "l'intensificazione
del lavoro", "la riduzione del salario al di sotto del valore
della forza lavoro" che il capitale impone nei centri industriali,
con lo sviluppo del "commercio estero", "l'investimento
di capitale nei paesi economicamente arretrati", "la creazione
di sovrappopolazione relativa" che si estendono tramite le relazioni
imperialiste a partire dal periodo coloniale fino alla dipendenza intensiva
di oggi.
La classe proletaria internazionale è
stretta così nella doppia morsa dello sfruttamento capitalista.
Una parte (principalmente nel centro e
nelle fabbriche ad alta tecnologia) è sempre più sfruttata
all'interno del ciclo di ricerca permanente di produttività (aumenta
il tasso di plusvalore estorto ad ogni singolo lavoratore).
Il dominio del capitale morto sul capitale
vivo, della macchina sull'uomo...
Simultaneamente l'immensa maggioranza dei
proletari è sempre più sfruttata tramite il rafforzamento
della natura imperialista del sistema, è sfruttata più intensamente
di fatto dalla "legge del valore mondializzata" ("il differenziale
di retribuzione del lavoro... è più scarso di quello della
sua produttività").
Nello stadio imperialista, la natura dello
sfruttamento intensivo assume sempre questo duplice carattere.
In ognisituazione, a livello mondiale,
"la produzione capitalistica non può fare un passo avanti
senza diminuire la parte del prodotto sociale che spetta al lavoratore".
Nel corso dello stadio imperialista il
capitale si è esteso all'intero pianeta e tale movimento si è
considerevolmente accelerato con l'ondata di industrializzazione del Tricontinente
negli anni 50-70.
Con il nuovo modello neocoloniale il dominio reale del capitale si è
globalizzato.
Ma il capitale può accaparrasi la
produzione mondiale solo proletarizzando "e non può continuare
a vivere, ad essere fruttifero, ad accumularsi, a moltiplicarsi e a trasformarsi"
se non a condizione di salarizzare coloro che ha proletarizzato a livello
internazionale.
E così non può impedire lo
sviluppo della sua contraddizione principale, il proletariato, e con esso
i limiti indotti dalla formazione di questo avversario irriducibile.
Il capitalismo inforna nel suo inferno
centinaia di milioni di nuovi lavoratori, e lo fa in maniera sempre più
ineguale e caotica, aggravando la polarizzazione sociale e la contraddizione
tra lavoro e non-lavoro.
Esso riduce le masse a non poter vivere
senza essere sfruttate, ma contemporaneamente la produttività delle
strutture fa sì che il lavoro tenda a divenire superfluo.
Così "l'esercito industriale
di riserva è tanto più grande, quanto più sono consistenti
la ricchezza sociale, il capitale in funzione, l'estensione e l'energia
della sua crescita...".
Il supersfruttamento, la sovrappopolazione
e la pauperizzazione della classe proletaria si accentuano con la sua
espansione e la sua internazionalizzazione.
Questo è il marchio indelebile della
nuova epoca sempre più dominata dalla lotta irriducibile tra capitale
e lavoro.
La storia del capitalismo è la storia
della contraddizione tra borghesia e proletariato.
Oggi in vista delle nuove condizioni di
questa contraddizione, si può affermare che è stato superato
un limite decisivo, e di conseguenza, per i comunisti, il primo comoito
è quello di analizzare e risolvere le questioni poste dalla nuova
composizione-lotta di classe (le classi esistono in quanto si contrappongono)
che deriva dai grandi mutamenti degli anni 80-90.
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Oggi per iniziare correttamente l'analisi
della composizione-lotta di classe, è assolutamente necessario
superare l'ambito strettamente nazionale e partire dal salto qualitativo
dell'espansione mondiale del capitalismo, così come si è
affermata dall'inizio degli anni '80.
Se durante l'epoca precedente, lo studio
doveva basarsi sul quadro locale, era perché il regime di accumulazione
fordista gravitava attorno allo spazio nazionale e alla sua espansione
nello spazio internazionale.
Era questo il quadro del suo funzionamento e quindi quello dei rapporti
salariali.
Ma non è più la stessa cosa
alla presenza del modello toyotista-neoliberale.
Il nuovo modello di accumulazione ha globalizzato
i principali processi della produzione di merci, e ha preso corpo una
nuova divisione mondiale del lavoro.
Di conseguenza qualsiasi composizioni-lotta di classe può concepirsi
solo nella sua mondialità.
Certo, in ogni periodo del capitalismo,
le due principali classi antagoniste sono state classi internazionali,
ma oggi il cambiamento risiede nel fatto che lo scontro si colloca immediatamente
e in tempo reale sullo spazio mondiale nel processo di lavoro. Un processo
sempre più ineguale e sempre più contraddittorio tra lavoro
e non lavoro, tra sfruttamento intensivo e sovrappopolazione, ma sempre
più globalizzato.
Dicendo questo noi non neghiamo che ogni
situazione locale o Stato-nazione, o ancora Stato comunitario, rimangano
centri particolari di importanza cruciale come spazio e rapporti dello
scontro di classe.
Giustamente uno dei caratteri fondamentali
della mondializzazione è proprio la contraddizione tra la sua autonomia
e gli imperativi permanenti delle forme statali di accumulazione.
Da un lato la mondializzazione è
una estensione-contraddizione del rapporto sociale dominate (gli scambi
di merci, di tecnologe, culturali e ideologici, la circolazione dei capitali,
il credito, la migrazione delle popolazioni, il modello di consumo...)
ed è quindi uno slancio che struttura e unifica supernado continuamente
le forme e i contenuti passati dell'organizzazione sociale.
Dall'altro lato, la mondializzazione non
può mai separarsi totalmente dalle forme statali perché
i capitali monopolistici esigono sempre più l'intervento economico,
politico e militare dello stato a livello locale, nazionale, continentale
e inter-statuale.
Di fatto, questa contraddizione è
il riflesso della contraddizione intrinseca al capitale stesso, tra le
esigenze della concorrenza e quelle della socializzazione. Il processo
di mondializzazione sarà dunque sempre più destabilizzato
dalla contraddizione in divenire tra la sua autonomia e le forme di regolazione
statale.
L'epoca che si è aperta con la svolta
degli anni '80 segna inesorabilmente il passaggio alla dominanza dello
spazio mondiale.
Riconoscere pienamente l'importanza della dimensione mondiale serve per
valutare le soluzioni contenute nella mondializzazione dello scontro di
classe.
E' chiaro che i disastri e le barbarie
acuiti da questo processo non potranno mai essere trasformati radicalmente
né essere corretti con un ritorno ai particolarismi religiosi o
allo sciovinismo.
Poiché per l'immensa maggioranza
dei proletari, queste strade constituiscono di fatto strade verso la subordinazione
alla mondializzazione che aggrava la polarizzazione e la gerarchizzazione.
Per un comunista, la questione non è
se accettare o rifiutare la mondializzazione, ma di sapere come affrontarla
per ribaltarla in liberazione dell'umanità intera, come lavorare
per l'unità della classe proletaria e per la sua autonomia politica,
e inserirsi nella guerra di classe di lunga durata, e farla finita con
l'alienazione economica e le relazioni imperialiste Triade imperialista/Tricontinente.
E nel nostro caso specifico, a partire
da qui dove lottiamo, vale a dire nel centro imperialista europeo.
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5A.
LA MONDIALIZZAZIONE È GLOBALE E LA SUA SOLUZIONE DEVE ESSERE
GLOBALE |
Allo stesso modo riconoscere la dimensione
mondiale della nuova composizione-lotta di classe consente di superare
gli interrogativi localisti senza fine seguiti alle grandi trasformazioni
degli anni '80, in particolare la deindustrisalizzazione, la delocalizzazione,
la fine del pieno impiego, del posto fisso per gli operai...
"Su quale classe, su quale soggetto
deve basarsi la lotta rivoluzionaria?" si chiedono alcuni compagni
in un testo recente.
Se si rimane al localismo europeo, saranno
possibili tutti gli errori.
Sia quello di nagare i mutamenti e persistere nel far sopravvivere artificiosamente
i miti operai degli anni '30.
Sia quello di inventarsi nuovi soggetti
di classe sul piano degli interessi elettorali o di semplici mode: i "tecnici"
per il Partiti "Comunista" o "l'intellettuale massa"
per il movimento "autonomi" a Weston?
Sia infine riproporre il "realismo"
interclassista del populismo, visto che per certi "compagni",
il proletariato deve rinunciare "per il momento" ancora alla
sua autonomia politica e inserirsi nelle lotte delle masse popolari nazionali.
Peggio, lo si snatura battezzando con il
termine proletariato tutti i salariati, cosa che rimanda comunque all'interclassismo,
poiché le masse popolari, piccola borghesia compresa, costituiscono
in tal modo "il nuovo proletariato" dei centri industriali.
Nella metropoli imperialista, queste sono
tutte versioni dell'ostinazione a cercare ad ogni costo - fino al ridicolo
- di risistemare il progetto rivoluzionario in base a realtà di
classe essenzialmente nazionali, che rimandano ad un progetto di liquidazione
rivoluzionaria e ad un opportunismo quotidiano nelle lotte.
Mentre la dimensione mondiale della composizione-lotta
di classe, ci permette di individuare e di cogliere pienamente i nuovi
contorni, le condizioni e gli interessi generali della nostra classe:
il proletariato internazionale.
Non c'è altra soluzione, questa
comprensione è alla base di ogni nuova prospettiva di ripresa rivoluzionaria
sul nostro continente, e dunque alla base di una tattica adeguata alla
congiuntura e alla necessità dell'unità cella classe e dell'a
sua più ampia autonomia.
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6.
IL PROLETARIATO INTERNAZIONALE |
Ora bisogna cercare di determinare più
precisamente quali sono i principali caratteri della nostra classe oggi.
a) La classe proletaria costituisce
ormai la maggioranza dell'umanità
Si tratta di un cambiamento profondo di
considerevole importanza storica. In meno di trenta anni il peso mondiale
del proletariato si è moltiplicato. Tutte le altre classi popolari
tendono a perdere importanza.
La classe contadina che dominava ancora
nella fase precedente si dissolve rapidamente e strati consistenti delle
borghesie locali si proletarizzano sotto gli effetti della crisi.
Di fronte alla borghesia monopolista, il
proletariato è la sola classe che si sviluppa a livello mondiale.
Sicuramente, se si studia questo problema solo su scala locale, nei paesi
della Triade imperialista, si viene fuorviati dalle controtendenze metropolitane
e soprattutto dalla caduta dell'occupazione industriale.
Mentre a livello mondiale stiamo vivendo
l'epoca della rivoluzione della maggioranza contro la minoranza.
La maggioranza dell'umanità: i proletari contro gli sfruttatori
e contro coloro che traggono vantaggi da questo sfruttamento.
Con la rivoluzione della maggioranza, la
rivoluzione democratica e quella proletaria diventano una cosa sola.
Ormai, non possono più esserci rivoluzioni
democratiche se non si rimette in discussione l'alienazione economica
e la polarizzazione Triade/Tricontinente, senza distruzione della dittatura
degli apparati e dei rapporti borghesi, perciò il proletariato
internazionale è la sola classe a poterla condurre fino in fondo.
Ovunque la lotta è prima di tutto una lotta per la rivoluzione
democratica proletaria.
E ovunque la classe deve lavorare per la vittoria della sua autonomia.
E' la condizione principale per la realizzazione dei suoi propri interessi,
degli interessi della maggioranza.
I proletari non hanno più alcun
vantaggio da trarre dalle rivoluzione democratico borghesi e dalle alleanze
con le borghesie locali. Al contrario, queste lotte parziali e settoriali,
li allontanano sempre più dalle necessità del momento.
Le lotte interclassiste e populiste rafforzano la loro alienazione e la
loro divisione, a scapito della loro coscienza e della loro unità
internazionale.
E' il momento della costruzione del partito
autonomo della classe, un partito che può essere solo internazionale.
La risoluzione di questo nodo si fa sempre più pressante ed essa
è possibile con tutta la radicalità intravista da Marx ed
Engels.
"L'emancipazione della classe operaia
non può essere che l'opera della classe operaia stessa, perché
tutte le altre classi e tutti gli altri partiti si mantengono sul terreno
del capitalismo e, malgrado i loro contrasti di interessi, essi hanno
tuttavia uno scopo comune, la conservazione e il consolidamento delle
basi della societa' attuale"
b) la classe proletaria è una
realtà fortemente tricontinentale
La classe proletaria si sviluppa circa
quattro volte più velocemente nel Tricontinente che nella Triade.
Già alla fine degli anni '70, su
1600 milioni di lavoratori attivi censiti, solo un quarto era localizzato
nei vecchi paesi industriali
Ed è un processo lungi dall'interrompersi.
"Circa il 99% del miliardo di persone
che si prevede raggiungeranno la massa mondiale dei lavoratori nel corso
dei prossimi trent'anni, vivono oggi nei paesi a basso e medio reddito".
Il cuore stesso della classe operaia -
la classe produttrice di valore - si è spostato verso la periferia
del sistema e anche questo è un capovolgimento di importanza storica.
Poiché prima l'assioma rivoluzionario
nei centri metropolitani si basava sulla concentrazione operaia nei centri
finanziari che si era stabilita nelle precedenti fasi dell'imperialismo.
Bene o male, i progetti (rivoluzionari)
potevano ancora articolarsi in un programma politico locale marginalizzando
le questioni internazionali.
Questo, oggi, è semplicemente impossibile.
Nessuna azione e nessuna rivendicazione
può essere considerata un reale momento rivoluzionario se non implica
soluzioni di emancipazione internazionale, se non rimette in discussione
alle fondamenta la polarizzazione Triade/ Tricontinente, se non consente
di liberarsi dalla stretta dell'oppressione imperialista
Ma nel centro, questa determinazione internazionalista
è difficile da praticare tanto più che lo sviluppo della
classe media locale, dell'aristocrazia operaia, (cioè le frazioni
di classi che traggono vantaggio dallo sviluppo del sistema di sfruttamento
mondiale), e naturalmente il rafforzamento del loro peso politico ideologico
nelle istituzioni e sulla classe, tengono a fraeno nella gogna della concilizazione
e collaborazione le potenzialità dell'autonomia di classe.
Diretti da queste forze, partiti e sindacati,
stanno alla base del controllo controrivoluzionario permanente, attraverso
la gestione del conflitto di classe, il militarismo interventista, la
denuncia delle azioni di resistenza...
Quindi, nel centro, due strade inconciliabili
si contrappongono...
La prima è quella della falsa unità,
l'unità di tutte le espressioni "popolari" locali in
un progetto di conquista e di gestione dell'istituzione nazionale, in
un progetto di rivoluzione democratica borghese eternamente da ricominciare.
Per i proletari questa strada è
un vicolo cieco, essa è già caduta, cade e cadrà
sempre nel pantano della riforma.
Essa non rinforza la classe, ma al contrario
ne aggrava la divisione in termini non rivoluzionari ma imperialisti.
E paralizza la presa di coscienza della sua reale situazionbe storica.
Come ricordava Lenin:
"L'unità con gli opportunisti
non essendo nient'altro che la scissione del proletariato rivoluzionario
di tutti i paesi, segna nei fatti oggi, la subordinazione della classe
operaia alla sua borghesia nazionale, l'alleanza con questa in vista
dell'oppressione di altre nazioni e della lotta per i privilegi imperialisti".
Su questa strada, la classe è divisa,
aderisce ad opposti partiti capitalistici ed è reclutata nella
guerra internazionale di produttività, nella guerra per una nuova
spartizione del globo tra i tre grandi poli triadici, USA Giappone e UE
La seconda è la strada della vera
unità di classe, l'unità internazionalista.
In presenza della mondializzazione, il
proletariato deve conquistare il necessario punto di vista internazionalista
non attraverso la semplice solidarietà di classe, ma attraverso
i suoi interessi generali.
Alla "coalizione del capitalismo mondiale",
ai suoi strappi sempre più caotici, ai suoi conflitti, alle sue
divisioni deve corrispondere l'unità del fronte proletario.
Non esiste altra soluzione rivoluzionaria.
Rompendo la sottomissione organizzata nello
spazio locale, le lotte sul nostro continente devono operare per l'unità
internazionalista, devono concretizzare la prospettiva.
Devono creare organismi di lotta, reti,
ponti concreti tra i nella metropoli e le avanguardie proletarie nel Tricontinente,
e quindi stabilire una dinamica con le grandi masse, rappresentarne qui
gli interessi e sostenere con tutte le forze il trionfo di questa unità.
E' a questo prezzo che le lotte rappresenteranno
un'azione critica reale e uno spazio autonomo di sperimentazione e auto-educazione,
e forgeranno così le reali avanguardie di lotta nel centro (la
Triade).
Su questa strada, autonomia di classe e
internazionalismo sono un unico momento rivoluzionario.
c) La classe proletaria è una
realtà principalmente urbana
Da oggi la metà dell'umanità
è una realtà urbana e da qui all'anno 2025, i due terzi
della popolazione mondiale vivranno nelle "megalopoli".
La popolazione urbana passerà da 2,6 miliardi a 3,3 miliardi di
persone, di cui il 93% nei paesi del tricontinente.
Il cuore di questo vasto movimento di urbanizzazione
selvaggia sta nei ghetti di tutte le miserie e delinquenze che si formano.
Il proletariato internazionale diviene così essenzialmente "megalopolitano".
Un proletariato delle "barriadas".
L'80% della popolazione asiatica soffre
la fame, il 60% in Africa, il 40% in America Latina.
Più di 10 milioni di persone muoiono ogni anno per le condizioni
di insalubrità di questi nuovi quartieri.
Due miliardi non hanno medicine, né acqua potabile.
Prima del duemila, la popolazione di 45
paesi del Tricontinente avrà una durata media della vita al di
sotto dei 60 anni, in alcuni paesi dei 42 anni, mentre raggiungerà
i 79 anni nei paesi della Triade.
Un immenso proletariato emerge dalle periferie
urbane, una nuova classe "pericolosa" che non si batte più
semplicemente per la divisione della terra e per il miglioramento della
spartizione dei frutti del lavoro salariato, ma direttamente contro l'oppressione
dei proprietari dei mezzi di lavoro, contro i monopoli degli sfruttatori...
Essa deve far fronte all'incertezza della
propria esistenza "sottomessa sia ad altri uomini sia alla propria
miseria" sempre più sfruttata ed oppressa, sempre più
terrorizzata dalle nuove dittature poliziesche, dagli "squadroni
della morte" e dai sicari di tutte le mafie paragovernative.
Così compare un'immenso esercito
proletario impoverito e in rivolta, che non ha più niente da perdere
se non le proprie catene.
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all'inizio della pagina]
7.
IL SOGGETTO DI CLASSE ATTUALE |
In ogni epoca e fase del capitalismo e
quindi dello scontro tra borghesia e proletariato, le forme della produzione
mettono in primo piano una figura proletaria antagonista.
Nel corso della storia, diversi soggetti
si sono susseguiti, dall'operaio di mestiere del XIX° secolo, all'operaio
industriale, poi all'operaio professionale, "i similaires" o
i "siderurgici" ed infine nel dopoguerra l'operaio massa, l'operaio
dell'impresa tayloristica.
Dopo i grandi cambiamenti degli anni '80
è dunque di primaria importanza chiedersi: qual'è il nuovo
soggetto di classe che corrisponde a questi cambiamenti?
Nel taylorismo-fordismo, la rigidità
del processo di lavoro, del processo tecnico, faceva sì che il
capitale variabile, i lavoratori, fosse una categoria fissa tanto quanto
il capitale costante adoperato.
La rigidità organizzativa si estendeva
dunque a tutta la struttura e alla sovrastruttura stessa (consumo di massa,
welfare, rappresentanze istituzionali).
Questa rigidità divenne il carattere fondamentale del modello di
accumulazione, ma finì per ritorcersi contro di esso durante la
crisi.
Dopo gli anni '80, il cambiamento fondamentale
indotto dalla generalizzazione del modello toyotista-neoliberale, verte
sull'introduzione della flessibilità.
Flessibilità indispensabile al superamento della rigidità
e quindi alla redditività del capitale e alla restaurazione dei
profitti.
E flessibilizzazione è prima di
tutto immissione sul mercato di una nuova "generazione" di macchine
basate sulla microinformatica e quindi riorganizzazione della catena produttiva
e del suo "flusso continuo", per aumentare i guadagni di produttività,
l'intensità del lavoro e il tasso di rendimento degli impianti.
Un miglior tasso di impiego delle macchine e degli uomini.
La logica di tutti i modelli di accumulazione
è quella di concepire lo sfruttamento dell'uomo negli stessi canoni
di quello della macchina.
E così come ieri alla rigidità
delle macchine monofunzionali delle grandi catene tayloriste corrispondeva
ieri la rigidità del lavoro fisso ultraspecializzato e dequalificato,
oggi, alla polivalenza dell'automazione corrisponde una forza-lavoro polivalente,
una flessibilità della forza lavoro e della sua retribuzione salariale.
E naturalmente, il cambiamento qualitativo
dalla rigidità alla flessibilità attraversa tutti i cambiamenti
negli accordi di compromesso per un nuovo regime di regolazione.
a) dalla flessibilità alla precarietà
Il fordismo è stato essenzialmente
smantellato, ma a causa della persistente crisi di sovrapproduzione assoluta
di capitale e dei limiti sempre più tirannici del capitale stesso,
il modello di accumulazione toyotista neoliberale non riesce a giocare
pienamente il suo ruolo.
L'accumulazione è troppo debole,
caotica e diseguale. E così nel gestire questa impossibilità
ad organizzare l'accumulazione, il modello modifica e deforma il suo carattere
principale da flessibilità in precarietà. Generalizza la
precarietà della sua crisi.
In tutti i rapporti sociali, dietro la
flessibilizzazione compare la precarizzazione, punta estrema del dominio
del capitale, ma anche della crisi generale.
Di conseguenza, il soggetto storico del
proletariato internazionale che è emerso e che si riproduce nel
cuore di questa qualità che domina la produzione sociale è,
appunto, il proletario precario.
Un terzo della popolazione attiva mondiale
è disoccupata o sottoccupata.
Frazioni sempre più grandi di lavoratori sono progressivamente
allontanate dal salario stabile e a contratto.
Negli USA, il 90% degli occupati nelle 500 maggiori imprese è a
tempo determinato e precario.
Nel Tricontinente, ci sarebbero tra il
miliardo e il miliardo e mezzo di lavoratori precari, senza tener conto
dei lavoratori informali.
In India, ad esempio, 9 lavoratori su 10 sarebbero occupati nel settore
informale.
Su 37 milioni di lavoratori messicani, 21,5 non hanno un posto fisso...
Ma la precarietà non può
assolutamente essere circoscritta allo studio di un particolare segmento
del processo di lavoro, per quanto importante esso sia, o a un tipo di
lavoro parziale, o alla pauperizzazione, all'economia informale o alla
disoccupazione, perchè la precarietà è oggi la qualità
primaria che attraversa tutte le linee dell'antagonismo tra capitale e
lavoro.
La precarietà attuale corrisponde
alla rigidità fordista.
Il proletario precario non è solo
colui che ha il compito "dirty difficult and dangerous" (sporco,
difficile e pericoloso) o colui che in quanto giovane non dispone che
di un contratto fasullo di formazione, oppure, se disoccupato a lungo
termine, di un contratto parziale e limitato di "solidarietà",
o ancora colui che è deportato verso aree di lavoro (50 milioni,
principalmente donne, nell'immigrazione interasiatica).
Precarietà sono anche le forme globali
del lavoro, il dominio intensivo del capitale morto sul capitale vivo,
le forme di comando del capitale come classe sulla forza lavoro, le forme
della divisione tra lavoro pagato e non pagato.
E' la razionalizzazione di ogni posto di
lavoro (non per questo il posto fisso e ultraproduttivo è garantito,
vedi Vilvoorde), è la polivalenza funzionale (un lavoratore deve
svolgere più volte varie decine di mansioni differenti)...
Precarietà è la ricerca permanente
di produttività, l'aumento delle cadenze e dei ritmi di lavoro,
della sua intensità; è la collaborazione dell'auto-controllo
("zero guasti, zero sbagli, zero giacenze di magazzino"), è
individualizzazione e forme di coercizione consensuale; è tendenza
accentuata alla svalorizzazione-dequalificazione del lavoro, è
la perdita di specializzazione dei lavoratori nella maggiore parcellizzazione
del lavoro tecnico...
La precarietà è lo sfruttamento
crescente delle donne, la tendenza a farne un "sotto"-proletariato,
una riserva di schiave-casalinghe e/o sessuali, la frazione di classe
più vulnerabile di fronte alla pauperizzazione e alla svalorizzazione
sociale.
E' lo sfruttamento dei "deportati",
degli stranieri, degli immigrati, delle popolazioni di colore nell'aparthaid
generalizzato e nel risveglio di politiche razziste e scioviniste.
Precarietà sono 1400 milioni di
persone che vivono al di sotto della soglia di povertà, 600 milioni
in Asia, più di un centinaio di milioni di "poveri assoluti"
negli USA e nella UE.
E' la spaventosa esplosione delle diseguaglianze
sociali nella Triade imperialista e nel Tricontinente, dato che il divario
abissale tra la frazione più ricca e i più poveri si è
considerevolmente aggravata negli ultimi 30 anni.
La differenza di reddito tra il 20% più
ricco e il 20% più povero è passata da 30 a 1 a 60 a 1!
Secondo l'ONU, il numero di patrimoni personali superiore a 100 milioni
di dollari è aumentato nel corso di questi ultimi 7 anni da 145
a 358, e questi rappresentano l'equivalente dei redditi annuali del 45%
della popolazione mondiale, cioè 2,3 miliardi di persone..
Marx ha descritto questa
"legge che stabilisce una correlazione
fatale tra l'accumulazione del capitale e l'accumulazione della miseria,
in tal modo che l'accumulazione della ricchezza in un polo è
uguale accumulazione di povertà, di sofferenza, di ignoranza,
di abbrutimento, di degrado morale, di schiavitù, al polo opposto,
dalla parte della classe che produce il capitale stesso".
b) la polarizzazione triade imperialista/tricontinente
Simultaneamente il divario tra i paesi
della Triade e quelli del Tricontinente si è anch'esso accresciuto
in proporzioni enormi.
E' chiaro che si sarà sempre nell'incapacità
di comprendere la precarietà come qualità globale del modello
attuale e del soggetto proletario antagonista, se non si coglie concretamente
la tendenza di questa polarizzazione ed il suo divenire.
Questa tendenza fondamentale è apparsa
con lo stadio imperialista, e ne è il marchio indelebile.
In un secolo circa, lo scarto tra il reddito
delle popolazioni del centro e della periferia si è moltiplicato
per 8.
Il rapporto del reddito pro-capite dei
paesi più ricchi e quelli più poveri è passato da
11 nel 1870 a 38 nel 1950, e infine a 52 nel 1985.
Con il nuovo modello,
"in totale, il 48% dei paesi poveri
hanno avuto uno sviluppo meno rapido rispetto alla più lenta
delle economie dell'OCSE, e il 70% ha conosciuto una crescita inferiore
rispetto alla media OCSE. Essendo la crescita dei paesi poveri in media
meno rapida, la dispersione internazionale dei redditi (misurata attraverso
lo scarto tipo del logaritmo naturale del reddito pro-capite) fra il
1960 e il 1990 è aumentata del 28% (passando dallo 0,86% all'
1,1) e il rapporto tra il reddito dei più ricchi e quello dei
più poveri è aumentato del 45% dal 1960"
(FMI "Finanze e Sviluppo").
I redditi annuali sono aumentati del 2,6%
all'anno nell'OCSE contro l'1,8% del resto del mondo.
Così, malgrado la forte industrializzazione
del Tricontinente, 88 paesi su 93, quindi il 94% della popolazione mondiale,
durante il periodo 1975/83 e oltre, rimangono nella stessa zona limite
nella quale si trovavano tra il 1938 e il 1950.
Sicuramente la situazione è estremamente
diseguale a seconda dei paesi del Tricontinente, cosa che dimostra per
altro come la loro integrazione nella nuova divisione internazionale del
lavoro avviene all'interno di una forte gerarchizzazione.
A partire dal "Rapporto sullo sviluppo
nel mondo 1995", (che abbraccia il periodo 1980-93) possiamo constatare
che più della metà di questi 93 pesi hanno avuto una crescita
negativa.
E nessuno di essi, neanche quelli con una forte crescita, potrà
raqggiungere a breve termine redditi uguali a quelli della fine degli
anni '70.
Inoltre, anche se numerosi paesi del Tricontinente
hanno avuto, malgrado tutto, una crescita positiva, per l'80% dei casi
essa è rimasta più debole rispetto a quella dei paesi della
Triade imperialista.
A partire da queste due constatazioni,
e secondo le stesse stime del FMI, ci vorrebbero "33 anni al Brasile
per ritornare ai suoi redditi record (al ritmo di crescita annuale dello
0,3% tenuto dal 1980 al 1993) e 487 anni per raggiungere i paesi a reddito
elevato".
Peraltro, "un gruppo ristretto di
paesi in via di sviluppo hanno effettivamente avuto una 'convergenza'
grazie ad una crescita maggiore che negli USA.
Quando li raggiungeranno?
L'India, per esempio, ha avuto una crescita
annuale media del 3% tra il 1980 e il 1993. Se sosterrà questo
ritmo per 100 anni ancora, raggiungerà il livello attuale dei paesi
ad alto reddito. E se potrà mantenere questo differenziale di crescita
per 377 anni..." l'India supererà il limite della "convergenza"!
Sebbene numerose attività industriali
o di servizi siano state delocalizzate verso il Tricontinente, bisogna
anche dire che solo 10 paesi sono riusciti a cavarsela ottenendo l'1%
della crescita in più rispetto alla media dei paesi della Triade.
Per questi paesi, le speranze di "convergenza"
sarebbe qualsi palpabili (50 anni circa per le Filippine), ma solo se
la loro eccezionale crescita si mantenesse allo stesso livello senza cedimenti,
senza crisi, senza delocalizzazione di attività verso altre zone
più redditizie...
Dopo un secolo nessuna politica di "sviluppo",
nessun piano di aggiustamento, nessuna politica "terzo-mondista",
nessuno sforzo dei paesi del Tricontinente ha potuto rompere questa polarizzazione.
La polarizzazione è prodotta dal
funzionamento stesso della legge del valore che opera su scala mondiale.
La si può cogliere per via dei caratteri sempre più deformati
dell'accumulazione capitalista, ed essa può sparire solo con la
sparizione di quest'ultima.
La polarizzazione tra la Triade imperialista
e il Tricontinente è oggi una delle realtà e una delle contraddizioni
principali del modo di produzione capitalista.
Per questo, e in modo evidente, essa opera con tutto il suo peso nel cuore
stesso della nuova composizione-lotta classe.
E non si può cogliere pienamente
l'emergere del nuovo soggetto di classe, il proletario precario, solo
se si colloca la contraddizione della polarizzazione Triade imperialista/Tricontinente
al centro della definizione della posta in gioco e delle sfide della congiuntura
dominata dalla mondializzazione.
La figura del proletario precario è
emersa nelle lotte, nelle rivolte, nelle resistenze anche qui sul cuore
delle metropoli.
Si è manifestata in un antagonismo che è il riflesso della
precarietà della propria esistenza sociale.
"E' una parola che grida una rabbia
profonda, ma è anche impregnata di un profondo sentimento di paura.
Paura di esser stati cacciati dalla storia, da un "progresso"
che, oggi più che mai, si misura con l'accumulazione di ricchezza,
solo per degli strati sempe più ridotti di individui.
Paura di essere ormai ridotti ad una maggioranza
pletorica e soffocante, definitivamente condannata all'impotenza perché
privata delle minime briciole di potere contrattuale rispetto ai meccanismi
di accumulazione di ricchezza".
Tuttavia, questa classe sempre crea la
ricchezza, il suo sfruttamento è invariabilmente la base di questa
società mondializzata, ma essa non ha alcun diritto di cittadinanza.
Essa non è altro che la massa informe che vive nelle periferie,
periferie delle metropoli, periferie delle megapoli, periferie della periferie...
La coscienza alienata che il proletariato
oggi ha dei limiti della sua condizione, della sua azione, dei suoi ambiti
e dei suoi metodi, diviene essa stessa parte inscindibile del suo stato
di precarietà, dello stato di precarietà di tutta la classe.
Polarizzazione Triade/Tricontinente, polarizzazione
sociale tra borghesia e proletariato, sfruttamento intensivo, precarietà,
sovrappopolazione, periferizzazione, pauperizzazione, esclusione politica,
sono le basi sulle quali si forgia oggi la figura sociale del proletario
antagonista.
Un soggetto descritto da Marx quando affronta
le logiche profonde della polarizzazione tra le due classi principali.
"Lungi dall'elevarsi, con il progresso
dell'industria l'operaio moderno scende sempre più in basso,
al di sotto anche delle condizioni della propria classe. L'operaio diventa
un "pauper" e il pauperismo si sviluppa più velocemente
della popolazione e della ricchezza"
Evidentemente, come per i suoi predecessori,
la comparsa sulla scena mondiale di questo soggetto sociale determina
tutta una serie di questioni tattiche che i rivoluzionari dovranno porsi
e risolvere.
Il comunismo è il divenire delle
contraddizioni reali.
E oggi questo proletariato antagonista è il pilastro della contraddizione
principale.
Se si elude dalla sua prospettiva di lotta e dalla sua azione pratica,
si esce ineluttabimente dal movimento reale.
Oggi, a partire da ogni situazione e in
particolare nelle metropoli, il compito dei rivoluzionari è dunque
quello di rendere leggibile il reale contro tutte le illusioni mantenute
dall'insieme delle varianti della via socialdemocratica (dai partiti di
governo, alle confederazioni sindacali, ai gruppetti metropolitani).
Non c'è altra alternativa: solo
mettendo in pratica le conclusioni relative alla presenza del soggetto
proletario precario con tuto ciò che questo implica, noi potremo
agire in nome di un comunismo possibile, di una ricomposizione di classe
attorno all'unità di identità e di interessi comuni di trasformazione
sociale.
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8.
DALLA SCONFITTA ALLE PROSSIME INIZIATIVE |
Nel corso degli anni 80, il movimento rivoluzionario
ha conosciuto numerose sconfitte.
Di fronte a questa evidenza, e di fronte
ai capovolgimenti in atto, alle rimesse in discussione, al crollo del
"socialismo reale", di fronte all'impotenza o all'apparente
impotenza di poter cambiare le cose, di fronte alle dimensioni attuali
della lotta di classe, si è ampiamente diffusa, nel guazzabuglio
di critiche e disfattismi di ogni genere, una critica irrazionale all'esperienza
rivoluzionaria dagli anni '60 in poi.
Ciò è avvenuto in particolare
a proposito dell'esperienza della guerriglia, poiché di fronte
alla controffensiva politico-ideologica della borghesia, invece di criticare
i nostri reali errori (e ne abbiamo commessi molti), e di rettificare
ciò che doveva essere rettificato, di valorizzare questi anni di
lotta e progredire verso le prospettive aperte da due decenni di prassi,
tutto è stato buttato via in un clima di panico e contrizione.
Tuttavia, molto rapidamente, queste critiche
assolutiste hanno dimostrato di non avere niente a che fare con la costruzione
di ponti verso nuove prospettive; tutte, senza eccezione alcuna, rimandano
ad un capitalismo sognato oppure a posizioni illusorie in cui si mischiano
indistintamente principi, teorie, analisi... con uno spirito di parrocchia.
Queste critiche invece di partire dalle
lotte per intraprendere nuove lotte, partecipano alla battaglia per la
liquidazione della sinistra anticapitalista e antimperialista in Europa,
per la liquidazione di una sinistra capace di far vivere il legame tra
la liberazione dei proletari del Tricontinente e quelli della Triade imperialista.
Se è vero che in Europa le guerriglie
della sinistra rivoluzionaria hanno subito importanti rovesci che le hanno
rimesse in discussione fino alla loro stessa esistenza, ciò non
dimostra tuttavia la loro incapacità ad essere uno degli assi fondamentali
della lotta di emancipazione proletaria e dell'unità internazionale
della classe per l'avvenire. Tutt'altro.
Il massacro dei comunardi non significò
la fine della rivoluzione proletaria. Anche quest'esperienza proletaria
non può essere superata se non da una nuova esperienza rivoluzionaria
capace di farsi carico, meglio di essa, degli interessi generali di tutta
la classe.
Nel corso degli anni '80 e '90 la sinistra
istituzionale ha forse dimostrato l'utilità del suo riformismo?
E altre espressioni del movimento hanno forse dimostrato il loro valore
superiore nel risolvere la questione rivoluzionaria?
I partiti di sinistra sono sempre più
invischiati nella loro natura di bravi gestori e trascinano su questa
strada i sempiterni gruppetti che gli si incollano dietro.
I sindacati confederali hanno definitivamente
abbandonato il sindacalismo di classe e rincorrono la conservazione del
loro ruolo istituzionale acquisito nell'epoca fordista moltiplicando gli
accordi trilaterali con il governo e il padronato.
Di fronte all'aumento delle lotte operaie
(nel '95 c'è stato un numero di conflitti 5 volte maggiore che
nel '94 e due volte maggiore che nell'84) e della resistenza proletaria,
questi partiti e sindacati non hanno più niente da proporre se
non programmi elettorali e neo-corporativi tutti legati alla vecchia concezione
dell'accumulazione, allo Stato nazionale imperialista e ai suoi limiti
e divisioni.
Dappertutto il concetto di "proletario
senza patria" è rimpiazzato dal concetto di cittadino.
Cittadino di uno stato imperialista. Cittadino dunque che, come tutti
gli altri "partecipanti" a questo Stato, trae dei vantaggi dalla
relazione imperialista Triade/Tricontinente, e dall'aggravarsi dello sfruttamento
che essa rappresenta.
L'insieme del progetto opportunista poggia
essenzialmente sulla divisione nazionale e imperialista del proletariato.
Una delle sue funzioni principali nel controllo
sociale è quella di mantenere questa divisione e di promuovere
false unità popolari, di mantenere e promuovere la collusione interclassista
populista contro l'unità del proletariato internazionale.
La maggior parte delle espressioni auto-organizzate
e antimperialiste che, insieme alle guerriglie, sono state la punta di
lancia delle lotte nel continente europeo, non sono riuscite purtroppo
a radicarsi e a svilupparsi in questa fase cruciale.
Al contrario, esse hanno spesso ripiegato
su lotte e resistenze particolari o settoriali: lotte per la casa, lotte
per la regolarizzazione degli immigrati... sono delle lotte giuste che
bisogna condurre.
Ma il movimento autonomo ha sempre più
la tendenza a dare preponderanza a questi particolarismi e tende di nuovo
alla vecchia religiosità del concreto, alimentando continuamente
rotture e divisioni delle condizioni sociali, trasforma questo concreto
in illusione.
Così può apportare solo una
coscienza frammentata, senza prospettiva di reale trasformazione sociale,
radicale e durataura.
Il localismo e il settorialismo non sono
nient'altro che nuove forme di gestione.
Pratiche "di base" che corrispondono alla gestione dell'economia
e alla gestione dei riformisti.
E in un modo diverso esse ricadono nel pantano del riformismo che pretendono
criticare.
La meta è niente, il movimento è tutto!!
Rosa Luxemburg ha già denunciato
tutto il significato opportunista di questo modo di procedere,
"il cammino non è attraverso
la maggioranza verso la tattica rivoluzionaria, ma verso la maggioranza
attraverso la tattica rivoluzionaria".
La rivoluzione non è e non è
mai stata un condensato di azioni riformiste a breve scadenza, ma un salto
qualitativo decisivo.
Tutto il processo rivoluzionario fin dalle
sue origini porta in sé questa qualità.
E' la coscienza della necessità
e possibilità di abbattere fino agli ultimi ostacoli che bloccano
lo sviluppo delle forze produttive, la volontà di darsi tutti gli
strumenti reali per liberarle e sottometterle ai bisogni degli individui.
Vale a dire un autentico processo di critica
e di rottura, un processo di azione e di preparazione dell'azione rivoluzionaria
in cui "il movimento in sé, senza relazione con lo scopo non
è niente, lo scopo è tutto".
Noi tutti che abbiamo partecipato ai grandi
movimenti rivoluzionari sul nostro continente, noi che siamo stati sulle
barricate del '68, nella resistenza contro la dittatura in Spagna, in
Grecia, in Portogallo... nelle lotte contro la guerra in Viet-Nam, e contro
l'imperialismo USA, per la rivoluzione palestinese, noi che siamo stati
nei comitati di base o nei primi fuochi della guerriglia...
Noi che siamo sempre stati per una stretta
interazione tra le avanguardie di lotta e gli organismi autonomi della
classe, sappiamo, per averlo sperimentato, che nulla si può fare
senza questo rapporto.
Noi tutti comunisti rivoluzionari e anti-imperialisti
dobbiamo criticare senza debolezza queste due deviazioni opportuniste
e gli ex compagni che deviano dalla loro storia per queste illusioni.
Nessun movimento rivoluzionario può
né potrà concretizzarsi su queste rinunce.
Si sa bene che la rivoluzione non torna indietro se non come caricatura.
La riattualizzazione del binario istituzionale o paraistituzionale "partito-sindacato"
è la dimostrazione del "concreto" illusorio che abbaglia
intere parti del movimento, disorientato da falsi dibattiti.
Un disorientamento che andrà aggravandosi
proprio a causa di questi abbandoni e del dogmatismo, che non permettono
di affrontare le questioni attuali della congiuntura.
Come agire negli interessi generali del
proletariato internazionale, per la sua ricomposizione come classe rivoluzionaria
e del suo attuale soggetto antagonista: il proletario precario?
Come creare relazioni vive e costruttive
con le espressioni rivoluzionarie di questo proletariato nel Tricontinente?
Come lavorare ad un'organizzazione sociale
che sia adeguata allo scontro storico attuale?
Come affrontare la congiuntura generale
delle contraddizioni del capitalismo?
Come affrontare la contraddizione tra i
3 poli concorrenziali imperialisti USA, Giappone, UE?
Come lavorare all'unità dei rivoluzionari
nel nostro continente e al sabotaggio del militarismo e della guerra economica?
Come superare il quadro della contro-rivoluzione
permanente nei regimi borghesi del centro?
Come criticare e rompere l'illusione di
questi regimi autoritari?
Come opporsi al processo di fascistizzazione
che essi materializzano e perpetuano nella separazione sempre maggiore
tra i poteri formali (partiti, parlamenti,...) e i poteri reali (i poteri
concentrati nell'economia, nel capitale finanziario)?
E' solo a partire da questi problemi e
dalla loro soluzione rivoluzionaria che potrà essere affrontata
e criticata la sperimentazione delle organizzazioni rivoluzionarie armate
degli anni '70 - '80.
Vale a dire che non si tratta solo di una
questione di solidarietà, ma di una cocente attualità per
tutti coloro che vogliono davvero riprendere la lotta e svilupparla sul
terreno del movimento reale.
E' solo in questo processo di risoluzione
rivoluzionaria che la memoria riprende tutto il suo valore come arma per
la lotta collettiva.
Giugno 1997
Joelle Aubron, Nathalie Menigon, J.Marc
Rouillan
Prigionieri dell'organizzazione Action Directe
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