QUADERNI DI CONTROINFORMAZIONE N. 25 - MAGGIO 1998

I rifugiati palestinesi
La contraddizione che Oslo non può normalizzare

Un problema che comunque, per quanti sforzi saranno fatti, strettamente connesso alla questione della terra, mina le stesse fondamenta della pacificazione imperialista di Oslo.


CHI SONO I RIFUGIATI PALESTINESI

La guerra del ‘48 tra l'esercito sionista e palestinesi e stati arabi ha causato l'allontanamento forzato dalle proprie case e dalle proprie terre di circa un milione di palestinesi.
Una parte di loro si rifugiò nella West Bank e a Gaza, una parte nei paesi arabi e altrove.
Decine di migliaia, inoltre, divennero "rifugiati" all'interno dello stato sionista quando i loro villaggi, le loro terre e le loro case vennero occupate, confiscate o distrutte dal nascente stato di "israele".
Una parte consistente di questi palestinesi furono espulsi nel periodo tra il novembre 1947 (anno in cui l'assemblea delle Nazioni Unite approvò il piano di spartizione della Palestina, decidendo che una parte di questa doveva essere destinata alla costituzione dello stato di israele) e il gennaio 1949 (data dell'armistizio di Rodi, che mise fine alla guerra seguita alla "spartizione").
Una seconda ondata di rifugiati seguì la guerra dei Sei Giorni, nel giugno 67, in cui gli israeliani occuparono anche la parte di Palestina che non avevano occupato nel 48, oltre alle alture del Golan in Siria e alla penisola del Sinai in Egitto.
Altre centinaia di migliaia di palestinesi furono costretti ad abbandonare le proprie terre, andando ad aggiungersi ai rifugiati del 48, soprattutto in Siria, Libano e Giordania.
Durante questi ultimi 30 anni di occupazione, una politica sistematica di confisca delle terre che non erano state abbandonate dai palestinesi a causa della guerra e di sviluppo delle colonie ebraiche, ha causato l'allontanamento di decine di migliaia di palestinesi, che si sono stabiliti altrove, nei Territori Occupati, o nei paesi vicini.
La maggior parte delle terre confiscate è stata messa a disposizione di coloni israeliani o immigrati, con il chiaro obiettivo di rendere impossibile il ritorno dei legittimi proprietari palestinesi.
Questo obiettivo é stato sostenuto da una serie di leggi, come la "legge sulla proprietà degli assenti" e la "legge del ritorno", che sancivano i privilegi degli immigrati ebrei rispetto ai cittadini arabi dello stato sionista, oltre che rispetto ai rifugiati palestinesi.
L'attività di colonizzazione portata avanti dagli israeliani nei Territori Occupati, universalmente riconosciuta come illegale, continua senza sosta anche ora, nel quadro del cosiddetto "processo di pace".
L'11 dicembre del 1948 l'assemblea generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione 194, affermò, seppur con una formulazione ritenuta da molti palestinesi parziale e ambigua, il diritto al ritorno per i palestinesi costretti a lasciare le proprie terre a causa della guerra del 48.
In particolare, l'art. 11 della risoluzione 194 stabilisce che:
"ai rifugiati che desiderino tornare alle proprie case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbe essere permesso di farlo prima possibile, e che dovrebbe essere pagata una compensazione per le proprietà di quelli che non desiderino ritornare....".
La guerra dei "sei giorni" ha creato una seconda categoria di rifugiati , quelli che nel 67 vivevano come rifugiati (della guerra del 48) nelle aree occupate dall'esercito sionista, e i residenti di Gerusalemme, della West Bank e Gaza costretti a fuggire a causa della guerra.
Il 14 giugno del 67, l'assemblea generale delle Nazioni Unite, nella risoluzione 237, ha tra l'altro, dichiarato che il governo israeliano dovrebbe facilitare il rientro degli abitanti fuggiti da quelle aree allo scoppiare del conflitto.
Totalmente noncuranti delle pur minimali indicazioni di questa risoluzione, gli israeliani, rispetto ai rifugiati del 67, hanno portato avanti una politica di riammissione estremamente limitata, sulla base di un concetto restrittivo di riunificazione familiare, da collocare in un quadro di misure umanitarie e non sulla base del riconoscimento di un diritto.
Gli accordi di Oslo hanno sancito la divisione della discussione sui rifugiati, attribuendo il compito di occuparsi dei rifugiati del 67, nel periodo transitorio degli accordi, ad una commissione composta da palestinesi, israeliani, giordani ed egiziani, mentre la questione dei rifugiati del 48 dovrebbe essere trattata bilateralmente da israeliani e palestinesi, nella fase finale dei negoziati, insieme alla questione di Gerusalemme, delle colonie e dello stato palestinese.


COS'E' l’UNRWA

L'UNRWA (United Nation Relief and Work Agency for Palestinian Refugees in the Near East) fu costituita l'8 dicembre del 1949 e prese il posto dell’UNRPR (United Nation Relief for Palestinian Refugees), creata nel novembre del 48 per coordinare i programmi di aiuti umanitari e di emergenza condotti da varie organizzazioni umanitarie.
L'UNRWA ha iniziato la sua attività il I maggio 1950, sulla base della seguente definizione di rifugiato palestinese: un rifugiato palestinese é una persona la cui normale residenza è stata la Palestina per un minimo di 2 anni prima del conflitto del 48, e che, come risultato di questo conflitto, ha perso la sua casa e i suoi mezzi di sussistenza e si é rifugiato, nel 48, in uno dei paesi in cui l'UNRWA ha fornito assistenza.
I rifugiati che rientrano in questa definizione, e i loro discendenti, hanno diritto all'assistenza dell'UNRWA se sono registrati all'UNRWA, vivono nelle aree di attività dell'UNRWA e si trovano in stato di bisogno.
Questa definizione operativa interna non è mai stata modificata dalla nascita dell'UNRWA, per cui non si applica ai rifugiati del 67 (a parte quelli che, tra loro, erano già rifugiati del 48).
L'UNRWA opera in 5 aree: Giordania, Libano, Siria, Gaza e West Bank.
La distribuzione dei rifugiati registrati all'UNRWA in queste aree, secondo i dati del 96, è la seguente:

Giordania
1.328.768 rif. (40% ) il 19.6% vive nei campi (10)
Gaza
700.789 " (22%) " 55.6% " (8)
West Bank
524.207 " (17%) " 25.6% " (19)
Libano
349.773 " (10.1%) " 54% " (12)
Siria
342.507 " (10%) " 28% " (10)

Il totale dei rifugiati registrati all'UNRWA è di 3.246.044, di cui il 32.7% vive in 59 campi. ( "1996 UNRWA fact sheets")

Negli anni 50 divenne chiaro che il problema dei rifugiati non si sarebbe risolto in tempi brevi, per cui l'UNRWA mutò il suo iniziale orientamento, volto alla gestione dell'emergenza.
Le tende nei campi vennero sostituite con altri tipi di costruzioni e furono introdotti nuovi programmi per la gestione dei servizi educativi, sociali e sanitari.
Questi programmi fanno parte, insieme agli stipendi dei funzionari dell'UNRWA, del budget ordinario di questa agenzia.
L'UNRWA è l'agenzia delle N.U. che impiega il maggior numero di persone (attualmente 20.754, di cui la maggior parte sono palestinesi rifugiati), e rappresenta uno dei maggiori datori di lavoro del Medio Oriente.
Oltre ai programmi che fanno riferimento al budget ordinario erano stati creati altri fondi speciali, destinati a specifiche situazioni : l'EPA (Expanded Program of Assistence) e l'EMLOT (Extraordinaries Measures for Lebanon and Occupied Territories).
Questi fondi, nel 93, sono stati sostituiti dal PIP (Peace Implementation Program).


I RIFUGIATI PALESTINESI

Tra i nodi del conflitto israelo-palestinese, quello a cui i media occidentali hanno prestato minore attenzione é certamente la questione dei rifugiati palestinesi.
E' difficile credere alla casualità di questa scelta: i rifugiati, infatti, rappresentano una contraddizione che è impossibile ricomporre nel quadro degli accordi di Oslo.
I 4 milioni di palestinesi che vivono, non per loro scelta, lontano dalla propria terra, costituiscono la maggioranza del popolo palestinese.
L'impraticabilità di un loro ritorno in Palestina, nel contesto di questi negoziati, è evidente; il tenore delle "concessioni territoriali" israeliane e la debolezza e dipendenza dell'economia palestinese rendono improbabile anche la sopravvivenza dei palestinesi che vivono nei Territori, senza contare la dichiarata indisponibilità israeliana a riconoscere il "diritto al ritorno" dei rifugiati palestinesi.
Ma la mancanza di attenzione dei media occidentali affonda le sue radici anche in una rimozione storica, la cui natura é ben sintetizzata dal celebre slogan sionista coniato da Israel Zangwill alla fine del secolo scorso che definiva la Palestina "una terra senza popolo per un popolo senza terra".
La rimozione della "questione Palestinese", attraverso la rimozione di milioni di persone costrette all'esilio, è il fondamento stesso dello stato di Israele.
Il loro riconoscimento equivarrebbe a riconoscere che la Palestina è stata occupata, e la sua popolazione cacciata, massacrata e assoggettata, per fondarvi uno stato razzista su base etnico-religiosa.
In questo contesto, la risoluzione 194 delle N.U., che in qualche misura afferma il diritto al ritorno e che non costituisce elemento di riferimento per gli accordi di Oslo, serve solo a ricordare che le risoluzioni degli organismi internazionali possono assassinare un milione di irakeni in "tempo di pace", ma diventano carta straccia quando riguardano lo stato sionista.
I rifugiati palestinesi non hanno le carte in regola per diventare protagonisti di quelle campagne estemporanee e strappalacrime che i media occidentali lanciano di tanto in tanto su qualche drammatica emergenza profughi: parlando di loro è troppo difficile occultare il fatto che non si tratta di un problema umanitario, ma di un problema politico. E "l'emergenza" che da oltre 50 anni li affligge è di quelle che l'occidente imperialista non ama considerare tali: l'occupazione sionista della Palestina .
Un'occupazione che gli accordi di Oslo hanno legittimato.


Le divisioni del dopo-Oslo

Molti palestinesi considerano gli accordi di Oslo la più grande sventura che li ha colpiti dopo l'occupazione della Palestina nel 48.
Questa convinzione si può ben comprendere se pensiamo alla profonda frattura che Oslo ha causato tra i palestinesi dei Territori e tutti gli altri, creando condizioni materiali e prospettive diverse tra rifugiati e non, e anche tra gli stessi rifugiati che vivono nei campi profughi di Gaza e della West Bank, e tutti gli altri. E' importante che le enormi sventure e innumerevoli ingiustizie che subiscono i palestinesi che vivono nei Territori vengano considerate come un aspetto della totale frustrazione di tutti i palestinesi a vedere riconosciuti i propri diritti come popolo.
La forma più immediata e visibile di resistenza a questa disgregazione è l'ostinazione con cui i palestinesi, ma soprattutto i rifugiati, ribadiscono di essere un unico popolo.
E' una consapevolezza profonda, che li accompagna dal 48 ( dal "disastro"), che é maturata attraverso le varie fasi della "Rivoluzione Palestinese", e che riesce a non essere sovrastata dalle difficoltà della vita quotidiana, nel proprio campo, nel paese "ospite".
Tra i rifugiati fuori dalla Palestina esistono grosse differenze per quanto riguarda le condizioni materiali e i diritti sociali e civili di cui godono nel luogo in cui vivono, non per loro scelta.
Esistono vari livelli di discriminazione, alcuni appartengono ad un codice non scritto che i palestinesi in Giordania, dove sono la maggioranza della popolazione e non possono rivendicare la propria identità palestinese apertamente, conoscono bene; altri sono legge dello stato, come in Libano, dove ai palestinesi, solo per fare un esempio, non viene consentito l'accesso alla maggior parte delle professioni.


I RIFUGIATI PALESTINESI IN LIBANO

I rifugiati palestinesi in Libano rappresentano una delle grosse contraddizioni che gli accordi di Oslo non sembrano in grado di normalizzare.
Fin dal loro esodo nel 48, principalmente dai villaggi e dalle città della Galilea, i palestinesi rifugiati in Libano sono stati sottoposti a difficoltà, stenti e umiliazioni che, pur essendo elementi comuni all'esperienza di tutti i rifugiati palestinesi, in Libano hanno avuto come aggravante un'iniziale ostilità della popolazione e un governo che, oltre a condividere con gli altri governi "ospiti" la volontà di sopprimere le rivendicazioni nazionali dei palestinesi, considerava
I palestinesi una minaccia all'eqilibrio settario basato sull'egemonia cristiano-maronita.
Una situazione paragonabile ad una bomba ad orologeria che, per il mutato quadro regionale, per consistenti spinte esterne e per l'irrompere sulla scena della Resistenza Palestinese, sfociò in una guerra civile in cui i palestinesi hanno pagato un prezzo altissimo.
Nessuno può dimenticare Tel al Zaatar, Sabra e Chatila, la guerra dei campi, ma anche al di là di questi terribili eventi, i rifugiati palestinesi sono stati regolarmente l'obiettivo delle rappresaglie dei diversi nemici dell’O.L.P.
Questo non significa che gli altri rifugiati siano meno determinati a rivendicare il proprio diritto al ritorno, ma certamente le condizioni in cui vivono i palestinesi in Libano rendono impensabile una qualsiasi forma, anche forzata, di integrazione nella società libanese.
A questo va aggiunto il fatto che si trovano sulla linea del fronte dell'unica guerra non solo aperta, visto che anche l'occupazione del Golan da parte di israele è un atto di guerra, ma anche guerreggiata, che coinvolge israele.
Un conflitto a bassa intensità, almeno finché lo stato sionista non si lancia in un'aggressione in grande stile, come nel giugno 93, o nell'aprile 96, dove l'obiettivo di colpire i palestinesi non viene mai dimenticato.
E in Libano i palestinesi si trovano anche in prima linea nella resistenza contro israele, anche se va registrato un sempre più indiscutibile protagonismo delle unità combattenti di Hezbollah.
L'oggettiva e particolare durezza che ha sempre caratterizzato la vita dei palestinesi in Libano ha fatto sì che l’UNRWA, l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, approntasse uno specifico programma di aiuti economici per questi rifugiati, vittime della guerra civile (oltre che per quelli dei Territori Occupati, duramente colpiti da israele durante l'Intifada).
Questo fondo speciale chiamato EMLOT (Extraordinary Measure for Lebanon and Occupied Territories), già drasticamente ridotto nel 90 per mancanza di fondi e per il mutato clima politico, nell'era di Oslo (nel 93) é stato assorbito, insieme a tutti gli altri programmi dell’UNRWA, nel PIP (Peace Implementation Program), il più consistente programma extrabudgetario dell’UNRWA, che ha l'obiettivo esplicito di sostenere gli accordi di Oslo creando un miglioramento delle condizioni materiali di vita nei campi e preparando il terreno per il trasferimento all’Autorità Palestinese dei servizi forniti dall’UNRWA.
Ovviamente l'attenzione di questo programma, ormai nella sua seconda fase è quasi totalmente concentrata nei Territori Occupati ( l’80% del budget del 97 é stato destinato alla West Bank e a Gaza).
In questo contesto la lotta contro lo smantellamento dei servizi dell’UNRWA è diventata, ancor più che in passato, un momento centrale nella rivendicazione della propria identità di rifugiato palestinese, e quindi del proprio diritto al "ritorno".
Pur in modo ambiguo e controverso l'esistenza dell’UNRWA é un'affermazione dell'esistenza del problema "rifugiati palestinesi" e della sua appartenenza alla sfera del politico.
Non sorprende che fuori dalla Palestina gli accordi di Oslo godano di una popolarità persino minore che in Palestina, né che la stessa organizzazione di Arafat, Fatah, sia attraversata da profonde contraddizioni e conflitti, in particolare in Libano.
C'é sempre stata, del resto, una maggiore e motivata diffidenza per i vari tentativi diplomatici che si sono affacciati via via all'orizzonte e che, inevitabilmente, avevano come obiettivo la liberazione di solo una parte della Palestina.
Quello che la "Rivoluzione Palestinese" ha insegnato al popolo dei "campi" ,in Libano, è che la lotta diretta, senza mediazioni diplomatiche, è l'unico modo, non solo per tornare alla propria terra, ma anche per migliorare le proprie condizioni di vita, a livello materiale e in termini di dignità umana.
La paura della "soluzione politica" si è rafforzata nell'82, quando i feddayn hanno abbandonato il Libano lasciando la porta aperta al massacro di Sabra e Chatila.
In Libano l'egemonia di Fatah è tutt'altro che indiscussa, e gli accordi di Oslo, all'interno di Fatah, sono stati il motivo scatenante per sanguinosi conflitti.
Nel campo di Ein el Eilweh, il più grande del Libano, diverse fazioni di Fatah si sono confrontate in veri e propri scontri armati.


EIN EL EILWEH

Il campo di Ein el Elweh, vicino a Sidone, dove secondo l'UNRWA vivono 40.000 palestinesi (secondo il Comitato popolare che governa il Campo, 70.000), può essere considerato un esempio emblematico del ventaglio di problemi che affliggono i rifugiati in Libano, e i rifugiati in genere, nel dopo Oslo, e di come la comunità palestinese si stia muovendo per affrontarli.
I Comitati Popolari, in Libano, hanno rappresentato l'affrancamento dall'oppressione che il governo esercitava direttamente sui rifugiati attraverso la polizia e soprattutto attraverso il famigerato "Deuxìeme Bureau". Questo ha rappresentato un momento importante nella rivendicazione della propria identità nazionale e un indiscutibile miglioramento delle condizioni di vita della popolazione dei campi, sottoposta ad ogni forma di angheria da parte del potere.
I Comitati Popolari rappresentano la forma di organizzazione che i palestinesi si sono dati dopo la liberazione dei campi, da parte della Resistenza Palestinese, nel 69, e i membri del Comitato erano abitanti del campo scelti dalle organizzazioni della Resistenza.
Anche oggi sono i gruppi politici a nominare i propri rappresentanti nel Comitato Popolare, anche se è in atto un dibattito sui meccanismi di determinazione della rappresentanza.
Ali Abu Hassan, del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, uno dei 22 membri del Comitato di Ein el Eilweh, preferisce parlare della pratica quotidiana di lotta, piuttosto che della strategia: "E' questa lotta quotidiana che ci permette di mantenere vivo il nostro obiettivo strategico, il ritorno in Palestina. Infatti le richieste che portiamo avanti nei confronti dell’UNRWA, dell’OLP, del governo libanese, e che riguardano tutti i palestinesi in Libano, ci permettono di dare una dimensione concreta all'idea di identità nazionale palestinese."
Il Comitato si occupa di tutti i problemi del campo, lo stato libanese interviene direttamente solo per quanto riguarda il livello giudiziario. Ma naturalmente lo stato libanese influenza pesantemente la vita dei palestinesi.
Il primo problema, per i palestinesi, è il lavoro.
Fin dal loro arrivo in Libano, infatti, hanno rappresentato un serbatoio di mano d'opera a basso costo, estremamente ricattabile.
La legge libanese impedisce loro l'accesso alla maggior parte delle professioni, e questa situazione è resa di giorno in giorno più drammatica dalla chiusura progressiva delle possibilità di lavoro all'interno dei campi, legate all'UNRWA e all'OLP.
Ma lo stato libanese non si limita alla discriminazione sociale dei palestinesi: da alcuni anni porta avanti in modo evidente una politica di allontanamento dei palestinesi.
Una delle rivendicazioni più sentite è legata alla modifica della politica dei visti e in particolare del decreto 478 del 95, che priva i palestinesi che escono dal Libano di ogni garanzia.
Infatti, un palestinese che si allontani per qualsiasi motivo, lavoro, studio, famiglia, anche per un breve periodo, vede la sua possibilità di rientrare in Libano totalmente soggetta alla discrezione dei funzionari che si occupano del visto per il rientro.
Si stima che questo decreto, negli ultimi 2 anni, abbia impedito a oltre 100.000 palestinesi di ritornare in Libano.
"Ci sono state molte manifestazioni in tutti i campi del Libano, e molte iniziative politiche," racconta Abu Hi-Ham, uno dei rappresentanti del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina nel Comitato di Ein el Eilweh "Su queste iniziative abbiamo raggiunto un'ampia intesa tra tutte le organizzazioni palestinesi. Al di là delle nostre diverse valutazioni degli accordi di Oslo, esiste un minimo comune denominatore, sia per l'iniziativa politica, sia rispetto all'obiettivo strategico del ritorno in Palestina."
Anche la lotta contro lo smantellamento dell’UNRWA e contro la diminuzione dell'impegno economico dell'OLP nei campi sono lotte sentite e unificanti.
Maisa Serran, che lavora come medico nella "Call on Institution", una delle poche piccole cliniche rimaste nel campo, si confronta quotidianamente con questo disimpegno: "Una volta l'OLP contribuiva in misura pressoché totale al sostegno finanziario di istituzioni palestinesi, come questo ospedale, che integravano i servizi dell'UNRWA, endemicamente insufficienti. Qui ,una volta, ogni tipo di prestazione era gratuita, oggi siamo costretti a far pagare la gente: questo significa che la gente trascura di più la sua salute. Per una visita di medicina generale il costo è di 5.000 L.L. (circa 3 dollari), per una visita specialistica 15.000 L.L.
E' molto poco in confronto agli ospedali fuori dal campo, ma molto in rapporto alle condizioni di vita qui."
L'OLP dopo gli accordi di Oslo ha ridotto del 90% il suo impegno economico che, oltre che al settore sanitario, era rivolto all'educazione superiore, alla formazione professionale, al sostegno delle famiglie dei martiri e dei prigionieri politici.
Questo disimpegno, come abbiamo già sottolineato, causando lo smantellamento di varie istituzioni dell'OLP, ha anche aumentato il già alto livello di disoccupazione nel campo.
Il fatto che sia l'UNRWA, che afferma con la sua presenza l'esistenza e la specificità del problema dei rifugiati palestinesi, sia l'OLP, che rappresenta lo stato palestinese in esilio, si stiano ritirando simultaneamente dai campi fuori dalla Palestina, è una commistione dalle implicazioni politiche ed economiche esplosive.
Lo stato libanese, del resto, non vuole alcun "nuovo ordine" in Medio Oriente che preveda un inserimento dei palestinesi nel suo fragile equilibrio etnico.
Tutti i progetti ufficiali prevedono l'inserimento solo di un numero limitatissimo e rigorosamente selezionato di palestinesi nella società libanese (quelli che vivono fuori dai campi e che sono sposati con cittadini libanesi).
Gli altri, in qualche modo, se ne dovranno andare


I REGIMI ARABI E IL "DIRITTO AL RITORNO" DEI PALESTINESI.

Tra i paesi arabi che ospitano un numero consistente di rifugiati palestinesi, il Libano è quello che più decisamente si oppone a un'integrazione, ma, almeno per il momento, anche gli altri stati arabi spingono perché l'UNRWA continui a mantenere la responsabilità dei rifugiati che vivono nei loro territori.
Questo non significa che in futuro questa apparente unità araba resisterà, visto che le pressioni per il "reinsediamento" dei palestinesi, da parte degli Stati Uniti, dello stato sionista e della cosiddetta comunità internazionale, sono molto forti.
E' chiaro per tutti che una soluzione del problema dei rifugiati palestinesi che garantisse il loro "diritto al ritorno", minerebbe quel progetto di normalizzazione imperialista del Medio Oriente, di cui gli accordi di Oslo rappresentano un tassello significativo.
Un progetto che vede non solo nell'esistenza, ma nel rafforzamento dello stato sionista, in un suo ruolo sempre più egemonico in un mercato regionale integrato, una condizione necessaria, non solo per il controllo degli equilibri e delle conflittualità nell'area (funzione che lo stato sionista ha svolto fin dalla sua nascita, anzi, per cui è nato), ma anche per lo sviluppo dell'ambiente più favorevole a sempre più massicci investimenti delle multinazionali, prevalentemente controllate dagli Stati Uniti, e per il massimo sfruttamento delle risorse naturali ed umane della regione, che la crisi dell'Unione Sovietica ha reso possibile.
La determinazione israelo-statunitense di annullare la questione "rifugiati palestinesi" ha trovato un terreno favorevole nell'atteggiamento dei negoziatori palestinesi, che hanno accettato la base di discussione imposta nel quadro di Oslo.


LA QUESTIONE "RIFUGIATI" NEL QUADRO DI OSLO


Walid Salem, giornalista ed intellettuale palestinese autore di uno studio molto aggiornato sulla questione, considera proprio il mutato atteggiamento della leadership palestinese come l'elemento veramente nuovo in mezzo secolo in cui non ci sono stati sostanziali cambiamenti nell'approccio di tutti gli altri attori di questa scena.

W.S. - Attraverso gli accordi di Oslo, l'Autorità Palestinese ha accettato , nei fatti, di trasformare la parola d'ordine del "diritto al ritorno" in quella della riunificazione delle famiglie per motivi umanitari.
Così, invece di parlare del diritto del popolo palestinese di tornare alla propria terra, si é iniziato a parlare del diritto di alcuni individui di ritornare in Palestina, secondo 2 criteri:
il primo è quello di ritornare come membri dell'Autorità Palestinese, il secondo è rappresentato da eccezionali ragioni umanitarie.
Questo mutamento nelle posizioni dell'A.P. ha rappresentato una vittoria degli israeliana, sia perché c'è stata un'implicita accettazione delle loro posizioni (che hanno sempre negato il diritto al ritorno dei palestinesi se non come specifici casi di ricongiungimento familiare), sia perché, secondo gli accordi di Oslo, il compito di decidere di questi casi spetta solo agli israeliani.
l’unico impegno preso dagli israeliani nel 93 è stato quello di aumentare il numero delle persone a cui veniva concesso di rientrare da 2000 a 6000 all'anno. Ma anche questa minima concessione si è rivelata una truffa, e nel 94 hanno concesso il provvedimento di riunificazione familiare solo a 1500 persone.

D.- Ma, ammesso e non concesso un diverso atteggiamento israeliano, è ipotizzabile un "diritto al ritorno" solo in una parte della Palestina?


W.S.- Certamente non in una situazione in cui gli israeliani mantengono il controllo su oltre il 73% della terra, ampliano le colonie, e le infrastrutture che le servono, allontanando i palestinesi con la confisca delle loro terre e la demolizione delle loro case, e si muovono, come si può vedere molto chiaramente a Gerusalemme, con l'obiettivo della pulizia etnica.
Prima degli accordi di Oslo, israele accettava, almeno in linea di principio, l'idea del ritorno di 100.000 palestinesi nei territori occupati nel 48, come atto simbolico.
Dopo Oslo ha iniziato a ipotizzare l'atto simbolico del ritorno di 100.000 palestinesi nella West Bank. Questo su oltre 4.000.000 di rifugiati palestinesi sparsi per il mondo.
L'approccio israeliano alla questione "rifugiati" è cambiato radicalmente negli ultimi anni: per un periodo israele ha pensato che si potesse risolverlo con interventi economici, pensando che un miglioramento delle condizioni di vita dei rifugiati avrebbe fatto cadere le richieste politiche.
Visto che questo approccio si è rivelato fallimentare, ora israele sta cercando di porre fine alla questione dei rifugiati palestinesi eliminando l'UNRWA, che ne rappresenta il riconoscimento internazionale .
Naturalmente i rifugiati hanno un approccio diametralmente opposto: l'UNRWA è presente solo nella West Bank, Gaza, Libano, Siria e Giordania, mentre queste 5 aree non sono le uniche in cui vivono i rifugiati palestinesi, che si trovano anche in Libia, in Egitto, in Irak, nei paesi arabi del Golfo, e anche negli Stati Uniti, in Italia, in tutto il mondo.
Quindi i rifugiati chiedono, oltre al mantenimento dell'UNRWA, il potenziamento dei suoi servizi e l'allargamento delle sue attività a tutte le aree in cui si trovano rifugiati palestinesi.
C'è molta amarezza tra i rifugiati, perché quando nel 48 le Nazioni Unite crearono la prima struttura per i rifugiati, l'UNRPR (United Nation Relief for palestinian Refugees), la sua area di intervento non era limitata ai 5 paesi che dicevo.
Alla fine del 49 questa agenzia fu sostituita dall'UNRWA, che si basava su due definizioni restrittive del concetto di "rifugiato palestinese": quella geografica, riconoscendo solo 5 paesi come aree di intervento, e quella cronologica, con il riconoscimento dello status di rifugiato palestinese solo a chi aveva lasciato la Palestina dal 46 alla fine della guerra del 48.
Quest'ultima é una restrizione molto grave alla risoluzione 194 delle N.U., che non indica alcun limite temporale antecedente la guerra. E' una profonda ingiustizia, visto che molti sono stati costretti a lasciare la Palestina molto prima del 46, a causa delle azioni terroristiche dei gruppi paramilitari sionisti.
Per quanto riguarda la scelta delle aree di intervento dell'UNRWA, non c'é stata alcuna casualità, infatti, parallelamente a questa decisione c'è stata quella, su suggerimento degli Stati Uniti e di alcuni regimi arabi, di far partire progetti per il reinsediamento dei rifugiati proprio nei paesi non interessati dall'intervento dell'UNRWA, cioè l'Egitto, la Libia e l'Irak.
Comunque, nonostante tutte le riserve nei confronti dell'UNRWA, oggi i rifugiati individuano come centrale la lotta contro il suo smantellamento, in quanto simbolo del proprio riconoscimento internazionale.

D. - Gli accordi di Oslo hanno creato profonde differenziazioni anche tra gli stessi rifugiati. C'è ancora spazio per una lotta comune?


W.S. - Rispetto alla possibilità di avere un movimento organizzato dei rifugiati dentro i Territori e nella diaspora, ci sono grossi problemi, a partire dalla stessa Palestina.
Nella West Bank i rifugiati hanno svolto diverse iniziative, e si sono dati una dimensione organizzativa attraverso la "Federazione dei Centri Giovanili", ma dopo una serie di conferenze sono iniziati i problemi perché il Dipartimento dei Rifugiati dell'OLP (oggi soprannominato il Dipartimento dei "ritornati")ha preso il controllo della situazione, sostenendo che ogni iniziativa doveva partire dall'OLP, e non essere prodotta autonomamente dai Comitati. Il tentativo di contrastare questa imposizione si é scontrato con il rifiuto della componente di Fatah all'interno dei Comitati, di prendere posizione contro decisioni che di fato provenivano dall'Autorità Palestinese.
A Gaza, l'A.P. ha il pieno controllo delle iniziative dei rifugiati, ed ha organizzato direttamente la Conferenza Generale dei rifugiati dei campi di Gaza, con tanto di discorso di apertura di Arafat.
Se ci spostiamo in Giordania, il regime vieta ai palestinesi di dichiararsi tali, quindi non è pensabile organizzare apertamente conferenze e dibattiti sulla situazione dei rifugiati palestinesi, perché si sarebbe accusati di mancanza di lealtà alla Giordania.
I rifugiati, in realtà, stanno cercando di organizzare alcune iniziative, ma il fatto di doverlo fare in modo non dichiarato rende la situazione molto complicata.
In Libano esiste un coordinamento tra le 17 O.N.G. palestinesi che vi lavorano, ma raggiungere un livello di mobilitazione unitario è molto difficile, visto che il gruppo di Abu Moussa è maggioritario, e non accetta la risoluzione 194 delle N.U., in particolare per quanto riguarda la parte della compensazione. Secondo Abu Moussa si dovrebbe parlare di popolazioni cacciate dalla propria terra, lo stesso termine "rifugiati" è una concessione.
Inoltre il gruppo di Abu Moussa, e altri gruppi che sono piuttosto radicati in Libano, hanno una posizione totalmente critica nei confronti del Comitato Esecutivo dell'OLP.
Date queste differenze, non è semplice un lavoro coordinato tra le varie organizzazioni palestinesi in Libano.
In Siria, a differenza che in Libano, i palestinesi godono di tutti i diritti sociali e civili e possono lavorare come O.N.G., prevalentemente su questioni umanitarie, ma non possono sviluppare uno specifico livello di organizzazione politica in quanto rifugiati palestinesi. Quindi anche in Siria il lavoro politico non si può svolgere in modo dichiarato.
Un altro elemento da aggiungere a queste divisioni é l'iniziativa di Hisham Sharabi ed altri accademici palestinesi, che si é tenuta l'anno scorso con l'obiettivo di organizzare una conferenza generale tra i rifugiati palestinesi di tutto il mondo, per arrivare alla creazione di una nuova leadership, non riconoscendo più alla dirigenza dell'OLP la rappresentanza del popolo palestinese.
Questa iniziativa viene portata avanti da vari intellettuali palestinesi e arabi (anche Edward Said, pur non essendo tra i promotori, la sostiene).
L'ipotesi di arrivare alla definizione di una nuova leadership é stata oggetto di discussione all'interno del gruppo delle 10 organizzazioni palestinesi che si erano schierate contro gli accordi di Oslo (il gruppo di Damasco).
Abu Moussa, Abu Nidal, Arabi el Huad (del Partito Comunista Rivoluzionario), la Saika ed altri gruppi si sono schierati a favore di questa ipotesi, il Fronte Popolare e il Fronte Democratico si sono schierati contro, uscendo dal gruppo dei 10.

D. - Pensi che sia praticabile un approccio graduale alla questione del "diritto al ritorno"?

W.S. - Un approccio graduale, così come lo intendono gli israeliani, nella migliore delle ipotesi (cioè 6.000 rifugiati all'anno), significa che per il ritorno delle 200.000 persone che gli israeliani riconoscono come "persone disperse", ci vorrebbero 33 anni.
Va ricordato che le cifre palestinesi dei rifugiati del 67 ("persone disperse" per gli israeliani) parlano di 1.485.000 persone.
Applicando la formula dei 6.000 rientri all'anno ai 4.000.000 di rifugiati palestinesi sparsi per il mondo, ci vorrebbero 666 anni.
Questo naturalmente metterebbe fine al problema dei rifugiati!
Visto che gli israeliani non riconoscono alcuno status ai figli e nipoti dei rifugiati, diluire nel tempo la questione, ovviamente, la risolverebbe.
Per questo gli israeliani insistono tanto sulla soluzione graduale del problema.


I RIFUGIATI PALESTINESI NEI TERRITORI OCCUPATI


Gli accordi di Oslo hanno creato una frattura tra i rifugiati che vivono nelle aree passate, formalmente, sotto il controllo dell'Autorità Palestinese , e tutti gli altri, ma anche in queste aree le divisioni tra palestinesi sono profonde.
I rifugiati che vivono nella West Bank e Gaza non solo hanno uno status diverso, ma sperimentano condizioni di vita molto diverse, non solo dagli altri palestinesi governati dall'Autorità palestinese, ma anche tra loro.
Questo li porta ad avere un atteggiamento diverso rispetto ai problemi che i rifugiati si vedono costretti ad affrontare nel dopo Oslo.
Ci sono differenze non solo tra Gaza e la West Bank, ma anche tra campo e campo, il tutto esacerbato dalle politiche aggressive del governo israeliano.
L'elemento unificante e concreto, oltre al "diritto al ritorno", che con il procedere dei negoziati diventa sempre più indefinito, è la lotta contro i tagli ai servizi dell'UNRWA, che, come già osservato é un elemento forte anche delle rivendicazioni dei rifugiati fuori dalla Palestina. Ma ci si ferma qui.
Nei Territori si fa sempre più decisa la richiesta di un miglioramento delle infrastrutture dei campi, una rivendicazione che i rifugiati fuori non sollevano, anzi, contrastano come possibile strumento di reinsediamento.
Anche il dibattito sull'inserimento dei rifugiati nella società palestinese, con conseguente perdita di status di rifugiato (un obiettivo che ovviamente riguarda solo i rifugiati che vivono nei T.O.), vede la coesistenza di posizioni molto differenziate.
Questo é emerso con chiarezza nelle iniziative e nei dibattiti organizzati dai rifugiati per decidere come rapportarsi alle elezioni amministrative: nella West Bank è stato deciso che i campi avrebbero eletto i propri consigli, e che questi si sarebbero relazionati con l'Autorità Palestinese; a Gaza la decisione è stata quella di partecipare alle elezioni, con la motivazione che la commistione tra campi e villaggi é troppo stretta per pensare a una separazione, e alla considerazione che l'80% della popolazione di Gaza vive nei campi.
Naturalmente, la separazione più netta rimane comunque quella con i palestinesi della diaspora.
Nei Territori i palestinesi hanno un'esperienza diretta degli accordi di Oslo e dell'Autorità Palestinese, e vi si rapportano in un modo che a volte non viene apprezzato dai rifugiati fuori dalla Palestina.
Non è semplice affrontare queste differenziazioni, ma é chiaro che il nodo é proprio questo.
Anche se l'iniziativa in questa direzione non é molto sviluppata, e soprattutto non é coordinata, qualcosa nei Territori sta iniziando a muoversi:
"Il nostro obiettivo é creare mobilitazione sulla questione dei rifugiati" -spiega Ingrid Gassner, del "Progetto per la Residenza palestinese e i diritti dei Rifugiati" dell’Alternative Information Center di Gerusalemme-" Stiamo facendo pressione affinché il problema dei rifugiati sia inserito e risolto nel quadro dei negoziati.
Questo ci ha spinto ad ampliare il nostro intervento iniziale, che riguardava solo la riunificazione familiare, e a cercare dei partners che fossero organizzazioni di rifugiati, e che quindi potessero lavorare anche all'interno delle comunità di rifugiati.
Nella primavera del 96 siamo entrati in contatto con "l'Unione dei Centri Giovanili", poiché avevamo saputo che erano molto attivi in questo campo, e avevano organizzato un primo incontro dei rifugiati ad Al-Farah, nel nord della West Bank, nel dicembre del 95.
Per la prima volta dopo tanti anni, il problema dei rifugiati, non solo é stato sollevato, ma siamo riusciti a definire un programma di lavoro che ha avuto un notevole sostegno da parte della gente, almeno nella West Bank, e che consisteva in una serie di assemblee in cui i rifugiati discutessero i loro obiettivi ed eleggessero i propri rappresentanti nei consigli dei rispettivi campi.
L'incontro con l'Unione dei Centri Giovanili é stato molto fruttuoso, abbiamo cominciato a lavorare e pensare insieme.
L'idea di base era trovare un certo numero di OnG che potessero unirsi a noi per sostenere questo programma.
Abbiamo passato gran parte del 96 cercando delle OnG palestinesi che si unissero a noi, ma sfortunatamente erano tutte impegnate in altre cose.
Nel 96 si è tenuta anche la prima conferenza nazionale sul problema dei rifugiati, e l'Unione dei Centri Giovanili aveva anche pensato di tenerne una internazionale in Europa o negli Stati Uniti, ma poi abbiamo deciso che la cosa più importante è il lavoro qui e nel mondo arabo, cioè dove si trovano i rifugiati.
Ci sono molti problemi, non ci sono contatti tra i rifugiati che vivono qui e quelli che vivono in Libano, pochissimi con quelli che vivono in Giordania e assolutamente nessuno con quelli che vivono in Siria. C'è una grande differenza anche tra i rifugiati qui e quelli a Gaza, che non possono esprimersi e organizzarsi liberamente.
Perciò abbiamo deciso che la priorità è il lavoro qui e nella regione, più in là potremo pensare ad incontri internazionali in Europa e negli Stati Uniti.
All'inizio del 97 alle nostre 2 organizzazioni si è unita l'Università Aperta di Gerusalemme, con cui abbiamo iniziato una campagna (incontri pubblici, iniziative) con al centro la parola d'ordine del diritto al ritorno.
Stiamo faticosamente cercando di prendere contatto con OnG palestinesi che lavorano sulla questione in Libano e in Giordania, e cominciamo a vedere alcuni progressi. Speriamo di arrivare presto a una forma di coordinamento."
Le iniziative che si stanno muovendo su questo tema sono ancora poca cosa, confrontate con l'enormità di questo problema e delle spinte per una sua rimozione.
Un problema che, sebbene abbia molte articolazioni ed implicazioni che lo fanno apparire complesso, è estremamente semplice da comprendere nella sua essenza, come tutti i problemi collegati all'oppressione e allo sfruttamento.
Un problema che comunque, per quanti sforzi saranno fatti, strettamente connesso alla questione della terra, mina le stesse fondamenta della pacificazione imperialista di Oslo.

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