QUADERNI DI CONTROINFORMAZIONE N.20 - FEBBRAIO 1995

CHE GUEVARA

DUE INTERVENTI DI PRIGIONIERI RIVOLUZIONARI

Che Guevara visto dai prigionieri del Collettivo Wotta Sitta e da quelli di Action Directe.
Testo originale in francese pubblicato da "Guerrilla" (P.G. - Boite Postale 71 - 39600 Arbois France
)

LE IDEE NON SI POSSONO UCCIDERE

"I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di cambiarlo"

(K. Marx)

Che Guevara appare oggi come l'unico soppravvissuto alla caduta delle ideologie rivoluzionarie: la sua faccia continua a campeggiare nelle manifestazioni degli studenti, degli operai, nella pubblicistica "di sinistra" di tutto il mondo.

"Le idee non si possono uccidere", affermava Thomas Sankara in un tributo al Che, vent'anni dopo la sua morte, nel remoto stato africano del Burkina Fasu.
La rivoluzione di Sankara ha subito una battuta d'arresto con il suo assassinio, ma il messaggio internazionalista di Che Guevara continua a vivere nelle lotte dei popoli oppressi del mondo.

C'è da chiedersi perché proprio il "mito" del Che sembri resistere all'attacco che nel ricco Occidente del liberismo sfrenato degli anni novanta, nel povero Sud del mondo e nell'Est del caos subentrato al "crollo dei muri", viene portato contro il comunismo e il marxismo e le loro figure storiche.
In primo luogo si tratta di sgombrare il campo dal folklore "alternativo" che si accompagna al "mito" del Che.
Il capitalismo ha la capacità di mercificare ogni cosa e la borghesia cerca di usare la "merce - Che Guevara" propagandandola, vendendola e consumandola come ogni altra.

L'industria della "cultura" prospera fagocitando un simbolo dell'opposizione, digerendolo e riproponendolo staccato alla sua storia, dalla sua lotta, dalla sua sfida al potere, come un feticcio innocui.
Niente è più lontano dalla lotta di classe di questo uso folkloristico di un suo "prodotto" pur così significativo.
Ma, contemporaneamente, nulla spiega meglio di questo uso osceno della figura di un rivoluzionario ucciso sul campo, la pervasività della lotta di classe in ogni ambito sociale.

La cultura dominante e vincente corrompe il dissenso, se ne appropria e lo rigenera nelle forme compatibili con il sistema.
Contro questo uso capitalistico della merce - Che Guevara si tratta di mettere al centro la pratica rivoluzionaria del Che, distruggendo il falso mito borghese dell'avventuriero ribelle e romantico.

Che Guevara è stato un comunista internazionalista coerente fino alla sua ultima battaglia e i comunisti di oggi non possono che far propria la sua lezione di vita e di lotta.
Non è possibile oggi aprire un dibattito "teorico" sulle idee del Che, perché, paradossalmente, si rischierebbe di favorire un'operazione di svuotamento del suo messaggio rivoluzionario.

Bisogna partire sempre dalla lotta di classe e dal "che fare" per porsi i problemi reali della lotta nella nostra epoca.

Per un marxista, se è vero che "senza teoria non c'è rivoluzione" è però necessario affermare sempre il punto di vista della pratica.
La teoria ha un grande valore nel marxismo proprio e solo perché "essa può guidare l'azione".
Ed è la storia rivoluzionaria internazionale, dopo più di cento anni di esperienze, a dimostrare che vale di più un passo di movimento reale di mille programmi!

Questo il senso vero del messaggio del Che, dagli inizi del 1956 in Messico e prima della rivoluzione a Cuba, fino alla sua scelta di partire per la Bolivia nel 1967.
Il criterio della pratica sociale è alla base della sua coerenza di vita.

"Lotto per le cose in cui credo, con tutte le armi di cui dispongo e cerco di atterrare l'altro, invece di lasciarmi inchiodare ad una croce o ad una qualsiasi altra cosa" (dal carcere di Città del Messico, 1956) (nota 1).

Dopo la vittoria a Cuba e gli anni di lavoro come ministro al servizio della rivoluzione socialista, nelle lettere di saluto riconferma la sua concezione della lotta:

"Ancora una volta sento sotto i miei talloni il costato di Ronzinante, mi rimetto in cammino con il mio scudo al braccio. Sono passati dieci anni da quando vi scrissi un'altra lettera di commiato. (...)
Nulla è cambiato in sostanza, salvo il fatto che sono più cosciente, che il mio marxismo si è radicato e depurato.
Credo nella lotta armata come unica soluzione per i popoli che lottano per liberarsi e sono coerente con le mie idee.
Molti mi definiranno avventuriero, e lo sono; ma di genere diverso, di quelli che rischiano la pelle per dimostrare le proprie verità. (...)"
(ai genitori, da Cuba, 1965) (nota 2).

La vita del Che non è una romantica avventura, ma un percorso fondato sul rapporto teoria-prassi che aveva maturato nel corso della sua esperienza rivoluzionaria.
Discutere sul Che dunque presuppone la consapevolezza che ogni forma di dibattito politico-critico sarà produttiva, in senso rivoluzionario, solo se si pone all'interno di una pratica attiva di lotta di classe.
Senza questa chiarezza si rischia di cadere in una inutile forma di teoricismo intellettuale che non sposta in avanti di un passo il "movimento reale".

Noi pensiamo che a partire da questa consapevolezza si possa lavorare per tornare concretamente al "che fare" qui e ora, imparando dalle sconfitte che il movimento rivoluzionario ha subito e che ne condizionano pesantemente la ripresa.
In questa prospettiva anche la scelta boliviana di Che Guevara assume un preciso significato di sviluppo in avanti della sua concezione dell'internazionalismo proletario e rilancia anche oggi la sua portata strategica, invece di apparire un episodio velleitario, atipico e misterioso.

Ci sono momenti della storia rivoluzionaria che segnano passi in avanti anche se marcati dalla sconfitta, come afferma Marx a proposito della Comune di Parigi del 1871: "Sarebbe del resto assai comodo fare la storia universale, se si accettasse battaglia soltanto alla condizione di un esito infallibilmente favorevole" (K. Marx, Lettera alla Kugelmann).

Il fatto stesso che la Comune fosse sorta ed esistita, anche per un breve lasso di tempo, costituisce una conquista fondamentale del proletariato mondiale, come ha lucidamente sostenuto Marx analizzando il tentativo dei proletari e dei rivoluzionari parigini, che ebbero l'ardire di osare lottare e osare vincere.
Di fatto il breve episodio della Comune ha avuto grande importanza nella memoria e nella prassi rivoluzionaria successiva, da Lenin al Mao Tse Tung della Rivoluzione Culturale Cinese.

Il fatto che Che Guevara abbia messo al primo posto il compito di continuare a sviluppare il processo rivoluzionario, come processo internazionale di emancipazione contro l'imperialismo, dopo la vittoria della rivoluzione cubana, ha chiarito il senso dell'internazionalismo proletario ed il carattere universale della rivoluzione nella nostra epoca.

Anche se il suo tentativo è stato sconfitto.

L'idea di Che Guevara si è addirittura rafforzata dopo che per ordine dell'imperialismo americano un oscuro ufficiale boliviano uccise a freddo il guerrigliero ormai catturato e ferito: proprio quella sconfitta e quella morte sono diventate il simbolo e la bandiera di una concezione internazionalista della lotta antiimperialista nel mondo.

Oggi ancora di più, perché siamo entrati nella fase storica in cui le rivoluzioni degli uni dipendono da quelle degli altri.

Certo non esiste ancora un processo compiuto di crescita del proletariato come soggetto universale con una sua azione comunista.
Ma la stretta interdipendenza, che è frutto dello sviluppo delle forze produttive e della concorrenza generale, pone la base materiale perché la maggioranza dell'umanità, per emanciparsi, possa e debba compiere un salto nella sua lotta antagonista al capitalismo cominciando a lottare in prima persona per il comunismo.

Questo definisce il contenuto profondo della coscienza internazionale del proletariato, l'internazionalismo di questa epoca: ed è questo dato, la lotta sul piano universale, che stabilisce il termine principale di elaborazione ed avanzamento della prospettiva rivoluzionaria.

Una lucida prefigurazione che troviamo già in Marx: "Solo con questo sviluppo universale delle forze produttive possono aversi relazioni universali fra gli uomini, ciò che da una parte produce il fenomeno della massa 'priva di proprietà' contemporaneamente in tutti i popoli (concorrenza generale), fa dipendere ciascuno di essi dalle rivoluzioni degli altri e infine sostituisce agli individui locali individui inseriti nella storia universale, individui empiricamente universali (...).
Il proletariato può dunqe esistere soltanto sul piano della storia universale, così come il comunismo, che è la sua azione, non può affatto esistere se non come esistenza storica universale"
(nota 3).

L'internazionalismo di Che Guevara è informato da questo stesso respiro e approccio nelle chiare linee tracciate nel discorso di Algeri del 1965, e proprio per questo mantiene intatta la sua forza strategica anche oggi: "Un'aspirazione comune - la sconfitta dell'imperialismo - ci unisce nella nostra marcia verso il futuro; un passato comune di lotta contro lo stesso nemico ci ha unito lungo il cammino (...).
Non ci sono frontiere in questa lotta a morte (...).
La pratica dell'internazionalismo proletario non è soltanto un dovere dei popoli che lottano per assicurarsi un futuro migliore; ma è anche una verità imprescindibile"
(nota 4).

Analizzando la guerra del Vietnam e lanciando la parola d'ordine "Creare due, tre ... molti Vietnam" contro l'imperialismo americano, Che Guevara delinea un unico scenario possibile della lotta dei comunisti nel mondo: "Bisogna tener conto del fatto che l'imperialismo è un sistema mondiale, ultima fase del capitalismo, e che bisogna batterlo in un grande scontro mondiale (...).
Assumere come funzione tattica la liberazione graduale dei popoli, uno ad uno o per gruppi, costringendo il nemico ad una difficile lotta fuori dal suo territorio e liquidando le sue basi di sostentamento rappresentate dai paesi da lui dipendenti. Ciò significa una guerra lunga. E, lo ripetiamo ancora una volta, una guerra crudele. Che nessuno si illuda al momento di intraprenderla e che nessuno esiti a iniziarla, per paura delle conseguenze che può provocare per il nostro popolo. E' praticamente l'unica speranza di vittoria"
(nota 5).

La tendenza allo sviluppo del capitalismo metropolitano verso la globalizzazione si è intensificata sotto i colpi della sua crisi generale e storica, approfondendo enormemente l'interdipendenza tra le diverse aree del pianeta.
Ciò ha prodotto, e produce continuamente, un proletariato internazionale sottoposto alle stesse contraddizioni generate dalle politiche planetarie dei monopoli multinazionali: la polarizzazione di classe tra borghesia e proletariato ha raggiunto livelli incomparabili, condannando miliardi di persone ad una vita di sfruttamento e miseria.

Ma tutto questo non fa che unificare il proletariato internazionale in una sola classe dal centro alle periferie del Tricontinente, riproponendo la validità strategica della concezione internazionalista di Che Guevara contro la moltitudine di conflitti che la guerra imperialista ha acceso e "sfruttato" in molte aree di crisi. Contro la guerra imperialista i comunisti non possono che sviluppare e praticare le ragioni e le possibilità della rivoluzione proletaria.

Ed è proprio sulla concezione della rivoluzione proletaria che il Che ha fornito un altro importante contributo ponendo al centro della lotta rivoluzionaria di classe il processo di trasformazione della società e dell'uomo.

"Per costruire il comunismo, contemporaneamente alla base materiale, bisogna creare l'uomo nuovo" (nota 6).

Bisogna lottare contro la miseria, ma allo stesso tempo contro l'alienazione!

L'uomo nuovo, nell'accezione di Che Guevara - lo sottolineiamo qui per prendere le distanze da un certo dibattito strumentale che ha preso le mosse dalle affermazioni del Che - non è un concetto teorico legato ad una qualche forma di umanesimo filosofico, ma è una concezione che scaturisce dal cuore della teoria marxista della rivoluzione per il comunismo, in cui il comunismo è un processo, un movimento reale che trasforma lo stato di cose presente trasformando in ciò l'uomo e i rapporti sociali.

I comunisti si distinguono dagli altri uomini solo perché "sono individui che hanno preso coscienza di ciò che è necessario fare; uomini che lottano per uscire dal regno della necessità ed entrare in quello della libertà" (nota 7).

Che Guevara non ha "umanizzato" il marxismo, ma, proprio nell'esperienza che ha potuto maturare negli anni cubani della costruzione del socialismo, ha toccato con mano come la rivoluzione non si esaurisca in una solo atto e con la vittoria, ma sia un lungo processo di trasformazione della società e degli individui, dentro cui si sviluppano più rivoluzioni.

In tal senso è vero che una rivoluzione che non si approfondisce costantemente è una rivoluzione che arretra, che perde la sua forza propulsiva e consente al vecchio nemico (il capitalismo e l'imperialismo) di riguadagnare terreno.
Che Guevara mette in guardia contro l'idealismo dogmatico e meccanicista, da sempre alla base di ogni revisionismo, perché il mutamento non avviene automaticamente nelle coscienze, così come non avviene nell'economia.
Le esperienze delle grandi rivoluzioni vittoriose poi tradite e seppellite in questo secolo, dovrebbero fornire una lezione importantissima a tutti i comunisti per aprire il necessario dibattito sulla natura e i contenuti del processo rivoluzionario in questa epoca.

Mettere al centro "la necessità di creare l'uomo nuovo" non è allora un esercizio filosofico astratto, ma un irrinunciabile compito dei rivoluzionari per affermare un reale processo di liberazione ed emancipazione sociale, perché, come dice Marx: "E' indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche e filosofiche, ossia la forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo" (nota 8)

La rivoluzione è dunque un processo sociale che si sviluppa ininterrottamente nel corso della guerra di lunga durata e della transizione al comunismo.

Per noi parlare del Che non è un esercizio di memoria storica, ma riproporre nella nostra pratica sociale i contenuti della sua lotta, perché è anche la nostra lotta, qui e ora.
La continuità con il Che vive nella lotta anticapitalista e antiimperialista dei movimenti di liberazione del Tricontinente, che sono partiti, e tuttora partono, dalla sua stessa consapevolezza che "la distruzione dell'imperialismo tramite il suo bastione più forte, il potere imperialista degli Stati Uniti d'America" (nota 9), è alla base dell'internazionalismo e condizione ineludibile per ogni aspirazione di vittoria proletaria.

In Europa, nel cuore del capitalismo, l'esperienza del Che è stato uno dei riferimento fondamentali per le organizzazioni della guerriglia che negli anni '70 hanno rilanciato il processo rivoluzionario nella metropoli imperialista, operando una rottura storica con le concezioni revisioniste e riformiste che lo ingabbiavano, ridando senso strategico all'internazionalismo proletario e stabilendo un punto di non ritorno per la rivoluzione di questa epoca.

I prigionieri rivoluzionari si collocano dentro questo orizzonte, nel solco della continuità di quell'esperienza rivoluzionaria e per svilupparla nelle nuove condizioni dello scontro di classe.
Rivendicare l'eredità di Che Guevara è dunque affermare la nostra identità di comunisti rivoluzionari.

Novembre 1995

Vittorio Bolognese carcere di Trani
Anna Cotone carcere Roma-Rebibbia
Giovanni Senzani carcere di Trani
Aleramo Virgili carcere di Trani

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nota 1) "Scritti politici e privati di Che Guevara" (a cura di R. Massari) Editori Riuniti, 1988, pag. 100.

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nota 2) Op. cit., pag. 280.

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nota 3) Marx, "L'ideologia Tedesca", Ed. Riuniti, pag. 247

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nota 4) Discorso al II° Seminario economico di solidarietà afroasiatica, Algeri, 24 febbraio 1965 (da "Scritti politici e privati...", cit., pagg. 223 e 224).

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nota 5) Op. cit., pag. 242.

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nota 6) "I giovani e la Rivoluzione" (da "Il socialismo e l'Uomo a Cuba" in "Scritti politici e privati...", cit. pag. 266). Per il dibattito più recente: R. Massari, Fernando Matinez y otros, "Guevara para hoy", La Habana 1994, pubblicato in Italia da Erre Emme edizioni, 1994.

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nota 7) "Il socialismo e l'Uomo a Cuba", cit. pag. 275.

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nota 8) K. Marx, prefazione a "Per la critica dell'economia politica", Ed. Riuniti, 1979, pag. 747.

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nota 9) "Scritti politici e privati...", cit. pag. 245

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HASTA SIEMPRE COMANDANTE

Il 24 febbraio del 1965, Ernesto "Che" Guevara prende la parola davanti alla Conferenza di Algeri.
Egli si rivolge a quella che lui stesso chiama "un'assemblea di popoli in lotta" in un discorso rimasto storico: la critica che egli fa delle relazioni interne e internazionali del "campo socialista" e i nuovi impegni che ciò determina, costituiranno pilastri fondamentali per gli avvenimenti rivoluzionari che scuoteranno il dominio imperialista alla fine degli anni '60.

Non fu uno di quei discorsi a cui ci hanno abituati i politici istituzionali di ogni parte, questa retorica delle voci pie, delle buone intenzioni e delle promesse demagogiche, né l'eterno attestato di fede che si attribuiscono i ribelli di ieri arrivati al potere e alla "amministrazione" di questo nuovo potere.
Nondimeno, più di ogni altro, il Che, e attraverso di lui la rivoluzione cubana, avrebbe potuto valorizzare le sue conquiste e i successi reali del suo impianto popolare.
Al contrario, in questo discorso, il Che sviluppa una critica che lo conduce ad un nuovo salto e ad una reale continuità del suo impegno politico.

Lui che in quel 1965 assumeva le più alte funzioni della vita politica ed economica cubana, lui che affermava ad Algeri "bisogna fornire a questi paesi fratelli tutti i mezzi di difesa di cui hanno bisogno, offrendogli la nostra solidarietà incondizionata", abbandonava le sue funzioni appena qualche settimana più tardi, per prendere la testa di 130 volontari cubani per combattere a fianco della guerriglia lumumbista.

In effetti, ora si sa, e senza possibilità di dubbio, che da aprile a novembre di questo stesso 1965, egli sarà alla macchia nella regione del Congo orientale con l'organizzazione rivoluzionaria di Patrice Lumumba in guerra contro Ciòmbe, il dittatore al soldo delle potenze occidentali (nota 1).

E' dunque su questo stesso continente africano che egli concretizzerà le sue parole pronunciate ad Algeri e il suo tentativo strategico di far sorgere guerre rivoluzionarie di liberazione in grado di accerchiare "il nemico comune" e con la loro unità abbattere il suo dominio distruttivo. Fare del Congo, dove il neocolonialismo scatenava la sua "violenza pura e semplice senza considerazioni ne finzioni di alcun genere", un nuovo Vietnam.

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1. Contro i nuovi complici dello sfruttamento imperialista

L'impegno del Che concretizza una rottura decisiva nel pensiero socialista dominante per come esso si perpetuava, da decenni, sotto il dominio delle strutture politico-ideologiche della burocrazia internazionale.
Si tratta infatti di una lotta contro l'immobilismo e il revisionismo, le malattie della sclerosi che conduce inesorabilmente al crollo delle ultime conquiste della Rivoluzione del '17.
Questo discorso è innanzi tutto una denuncia dei caratteri socialimperialisti espressi dai "complici dello sfruttamento imperialista" che sono diventati nel tempo i paesi del socialismo di Stato.

E di fatto durante questa conferenza, di fronte ai sostenitori di questo pensiero ufficiale, egli osa porre una questione fondamentale della lotta rivoluzionaria, caricaturizzata e snaturata fin dai dibattiti dell'Internazionale Comunista degli anni '30, la questione dell'unità dei due fronti, la necessità del fronte nella lotta contro il nemico comune imperialista con quello della lotta di emancipazione sociale, contro lo sfruttamento e la miseria.
Perché nella nostra epoca, e a maggior ragione con la mondializzazione determinata dall'espansione capitalistica sotto il dominio USA nel dopo guerra, questa unità è una condizione sine qua non dello sviluppo rivoluzionario tanto nella lotta per nuovi rapporti di produzione che in quella per "l'indebolimento reale" del sistema imperialista.

Ma questo principio dialettico è stato abbandonato dai paesi del socialismo di Stato, il pragmatismo della ricerca dei "rimedi da preconizzare per ogni causa a parte" e le sue deviazioni tecniche di pianificazione rinvia eternamente a meccanismi economici e di gestione dominati dalla sola classe parassita che si estende con questo sistema deformato, quello degli apparatchick.
Una classe che imprime un monolitismo ideologico (di autodifesa) presentato sotto i vocaboli del marxismo ma che non costituisce più altro che una litania di principi e parole d'ordine astratti che idealizzano un obiettivo lontano e mitico, deconnesso dai movimenti sociali attuali.

Le deviazioni socialdemocratiche di questa classe neoborghese -capitale esistente per sé- non potevano quindi che approfondirsi fino al parossismo, fino all'attuale trasformismo meschino di questi profittatori, divenuti attualmente gli "eroici" difensori della democrazia borghese e della liberalizzazione selvaggia del mercato che ad essa è legata.
Il revisionismo, come impoverimento del nucleo vitale del marxismo, si esprimeva sopra ogni cosa negli errori derivanti dalla sopravvalutazione del ruolo dello sviluppo delle forze produttive, dall'economicismo, dal determinismo, dalle soluzioni meccaniciste...

E sui due fronti, l'impossibile correzione conduceva inesorabilmente alla cancrena della mercificazione di tutti i rapporti:

- le deformazioni nella produzione, le forme della produzione stessa e della sua gestione statale contro i reali termini della collettivizzazione, da cui consegue un sistema che riproduce inesorabilmente delle classi antagoniste, perché alcuni traggono benefici dal sistema e altri accumulano ritardo e miseria.
Cioè una battuta d'arresto al "compito della soppressione dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo" e dunque della costruzione di una nuova società.
Donne e uomini sono obbligati a vendere la loro forza-lavoro per un salario in fabbriche e uffici che sfuggono alla loro direzione effettiva.
Il denaro rimane comunque "direttamente la comunità reale di tutti gli individui poiché esso è la loro sostanza stessa, così come il loro prodotto comune". Una forma specifica del regno della merce.

- il socialsciovinismo di un socialismo di stato con interessi propri che instaura di conseguenza un rapporto di scambio, di "carattere immorale", con i paesi che sono riusciti ad emanciparsi e i movimenti di liberazione, al posto di "nuovo atteggiamento fraterno", come auspica il Che.

E' chiaro che c'è una corrispondenza interattiva tra la riproduzione dei rapporti di produzione di tipo capitalistico, basati sul lavoro salariato, e dunque la mercificazione dei proletari nei paesi del socialismo di stato, e i rapporti socialimperialisti di scambio per il "mutuo beneficio" nel sostegno e nell' "utilizzazione" dei paesi e dei movimenti del Sud in lotta contro l'imperialismo.
Ogni produzione di tipo capitalistico nel XX secolo non può che avere caratteri monopolistici e imperialisti, le deformazioni della struttura di questi paesi fa in modo che essi non possano sfuggire alla riproduzione di questi caratteri.

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2. I rapporti mercantili contro i diritti della rivolta

Ma i meccanismi della sopravvalutazione del ruolo dello sviluppo delle forze produttive sono anche le cause di errori politici e tattici gravi.
Il determinismo porta a privilegiare irremovibilmente nei Tre continenti (come nel centro, per altre motivazioni ugualmente erronee) le tattiche parlamentariste della rivoluzione borghese.

Apertamente quando è possibile farlo oppure illegalmente -ma solo come ultima risorsa- perché la burocrazia non ha che uno scopo quello di favorire l'emergere di un partito e di un sindacato ufficiali riconosciuti come intermediari "ragionevoli" tra il potere neocoloniale e le masse, e, beninteso, di costituire istanze del tutto "solvibili", cioè con un largo credito tanto fra le masse che per il potere.

Il loro credito essi lo accumulavano inculcando alle masse oppresse e sfruttate (l'idea) che il loro dovere era quello di ridurre la loro aspirazione di emancipazione perché l'arcaismo della produzione dei paesi sottoposti a neocolonialismo li condannava ad un limite oggettivo impossibile da superare secondo il santo vangelo del determinismo degli economicisti.
Il "movimento soggettivo" era sottostimato, l'iniziativa storica delle masse di sollevarsi contro i governi-fantoccio, di usare le armi della rivolta, era sempre sottoposta a cauzione, quando non denunciata come avventurismo.
Avventurismo ecco il termine che sintetizza la volontà egemonica della burocrazia.
La paura della iniziativa delle masse, delle masse stesse.

Il Che si ricorda bene dei termini impiegati dai dirigenti del partito burocratico cubano per denunciare proprio il diritto di rivoltarsi e prendere le armi contro l'infame dittatura di Batista:
"Noi rigettiamo i metodi putschisti, in particolare quelli delle frazioni borghesi di Santiago de Cuba e di Bayamo in quanto tentativo avventurista di conquista di quelle cittadelle. L'eroismo dei partecipanti è falso e sterile perché guidato da concezioni borghesi erronee. Il paese intero sa bene chi ha organizzato l'azione contro la caserma e che il partito comunista non ha niente ha che vedere con una simile azione. Il PSP afferma che è necessario un fronte unico con le masse (...). Il PSP basa la sua lotta sull'azione delle masse, sulla lotta delle masse e denuncia il putschismo avventurista perché ciò è contrario alla lotta delle masse e alla soluzione democratica che il popolo desidera..." (Daily Worker, organo del Partito Comunista Cubano, 10/8/53).

Anche in Algeria, come in numerosi paesi dell'Africa, si ricordano condanne che si volevano senza appello, pronunciate dalle grandi istanze revisioniste rappresentanti locali del "socialismo reale".
E coloro che erano immersi nella lotta hanno dovuto rigettare la falsificazione per vincere: "la direzione comunista burocratica, non avendo alcun contatto con il popolo, non è stata capace di analizzare correttamente la situazione rivoluzionaria. Ed è per questo che ha condannato il "terrorismo" e ordinato, dopo i primi mesi dell'insurrezione, ai militanti delle Aurés venuti ad Algeri per avere istruzioni, di non prendere le armi" (Piattaforma del Soumman-FLN. Agosto '56).

Per i burocrati, la rivolta non deve beneficiare di alcun credito - in tutti i sensi del termine - perché per i rapporti e gli apparati del socialismo di Stato e le istanze legaliste che ha propagato a livello internazionale, essa non è solvibile.

Effettivamente è impossibile come pericoloso per essi tentare di diluirla e renderla redditizia nei rapporti mercantili che stabiliscono in tutte le circostanze.

Mentre non c'è alcuna difficoltà - quando si è "persone assennate" beninteso! - a comprendere che la strategia di "coesione pacifica" progettata dai revisionisti - l'attuale segretario del PCF avanza anche l'idea dell'opposizione costruttiva con il partito d'ordine della destra neoliberista - è l'unica via praticabile, che ha obiettivamente la capacità di costruire un ambiente soddisfacente per lo sviluppo delle forze produttive e per lo scambio nel quadro delle leggi bronzee di un mercato internazionale dominato dal solo capitalismo monopolistico.

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3. Impugnare le armi della rivolta

Ovunque i sostenitori del "socialismo reale" nella loro conciliazione con il sistema tendevano a sopravvalutare sempre più l'oggettività di fronte alla soggettività, l'economia di fronte alla politica, le condizioni e i fenomeni interni di fronte alle condizioni e fenomeni esterni, la riforma delle rivendicazioni democratiche di fronte alla rivoluzione e allo sconvolgimento radicale dei rapporti sociali, la sicurezza della coesistenza col nemico di fronte ai rischi dello scontro, l'azione pacifista nella istituzione di fronte all'azione rivoluzionaria...
Ovunque di fatto la stessa capitolazione "scientifica".

Mentre il Che rileva le mutazioni del sistema sotto il dominio USA delineando le sue contraddizioni e il loro divenire di crisi con potenzialità afferrabili dal proletariato internazionale e dai popoli oppressi.
Ma egli afferma contemporaneamente che questa opportunità di liberazione non può essere concretizzata e condotta al suo sbocco rivoluzionario se non in una lotta determinata e di lunga durata.
Forgiare le lotte proletarie come tante mascelle che soffocano il sistema.

Alla fine degli anni '60, dei compagni italiani costatavano: "Questa volta la crisi è molto più profonda e ha una dimensione votata a rimbalzare da un paese all'altro, all'interno di un sistema economico-politico sempre più integrato."
Ecco perché, naturalmente, la lotta di allora esaltata dal Che diviene la sola in grado di dinamizzare al livello della posta in gioco storica l'unità internazionale ritrovata di tutti gli sfruttati e oppressi al di fuori di tutte le egemonie adulterate e i riflessi da droghiere...

Perché nell'epoca del tardo capitalismo "la pratica dell'internazionalismo proletario non è soltanto un dovere per i popoli che lottano per un avvenire migliore, ma anche una necessità ineluttabile."

Parallelamente bisogna sottolineare, e questo fu dimostrato nel corso di tutti gli scontri rivoluzionari che si propagarono alla fine degli anni '60 e all'inizio dei '70, che la possibilità di stabilire una interrelazione corretta e dinamica tra una pratica coerente dell'internazionalismo proletario e i due fronti, quello della lotta antimperialista e quello della lotta anticapitalista, determina l'esistenza di un terzo fronte altrettanto essenziale: il fronte della lotta contro il revisionismo.
Il revisionismo delle istanze ufficiali del socialismo reale ma anche quello degli organismi paralleli che pullulano nel solo scopo di presentarsi come intermediario "credibile" tra l'Istituzione e le aspirazioni delle masse.

Una rappresentazione che, per il fatto stesso della necessaria salvaguardia della sua credibilità, si articola sempre più in controllo sociale permanente.
Un ruolo integrato all'Istituzione stessa. E nella sua assiduità riformista, questo atto di controllo funzionale diviene allora un elemento di preservazione del sistema stesso e dei suoi principali rapporti sociali di oppressione e di sfruttamento.
Un ingranaggio degli apparati e rapporti della controrivoluzione permanente.

E sarebbe erroneo pensare che la tradizione dei bonzi e il risultato della loro ignominia individuale e del loro carrierismo sia principalmente la conseguenza diretta dell'inadeguatezza dei tipi di organizzazione come le organizzazioni e i grandi partiti elettoralisti (vittime essi stessi dell'infezione del sistema della delega permanente: funzionariato, promesse di programmi seduttivi, facilitazioni demagogiche e populiste,...) di fronte allo sviluppo di un dominio che ha integrato le lotte riformiste e i ghetti dei simulacri di opposizione nei suoi progetti, come una valvola di sicurezza.

Con la sua interazione, l'unità dei tre fronti rivoluzionari determina di fatto il nuovo campo dell'autonomia del proletariato, come tutta una serie di conseguenze organizzative e tattiche per la sinistra rivoluzionaria.
Questa autonomia si rafforza allora come movimento di liberazione della classe intera di fronte all'egemonia complessa della borghesia, e dunque anche rompendo con i molteplici sostenitori dei vecchi modelli di lotta, secondo un metodo corretto, cioè rigettando quello cattivo, la sclerosi e l'inadeguatezza, e conservando la conquista storica, la sperimentazione.

La guerra di lunga durata, proiettata dalle linee di questa autonomia, si presenta quindi come la teoria della lotta e della pratica che guida e rafforza la capacità critica di rottura sorta con l'azione rivoluzionaria delle masse contro le devastazioni dello sviluppo e dell'imputridimento del sistema imperialista.
E' solo nel corso di questa guerra di classe di tipo nuovo che il proletariato si ricompone come entità antagonista portatrice della trasformazione sociale.

E tanto più perché essa è la condizione primaria per lo sviluppo della sua autorganizzazione e del suo contropotere indispensabile alla distruzione dei molteplici e differenti poteri borghesi che si trova di fronte, nelle fabbriche e nei quartieri, in tutti i rapporti sociali sempre più segnati dalle stigmate della mercificazione, in tutti questi poteri e nei loro apparati di controllo che gli fanno fronte a livello locale e internazionale.

Nella nostra epoca, un'epoca che prende forma nel corso della seconda parte degli anni '60, di fronte al salto tecnologico e ai mutamenti del dominio imperialista che esso implica, il proletariato può rafforzarsi solo nei nuovi termini della lotta, giungendo a dotarsi di una convergenza di organismi realmente controllati da sue proprie istanze di lotta che rispondano alle diverse esigenze e alla estrema complessità della dimensione sociale e della sua necessaria trasformazione.

E allo stesso modo esso può rafforzarsi solo se riesce a costruire e a preservare, nello scontro, l'unità viva dei molteplici comitati di base, con le sue diverse organizzazioni rivoluzionarie di lotta.

Una lotta partigiana che sia con "le armi politiche, le armi reali o con entrambe insieme".
Sapendo quindi che questa unità è ai nostri giorni la chiave strategica della sovversione, dell'accerchiamento, della conquista e della distruzione dei poteri del dominio imperialista.

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4. A guisa di conclusione provvisoria

Trent'anni fa, nell'estate del 1965, il Che combatteva nella foresta equatoriale congolese.
"Ho imparato nel Congo, e certi errori non li commetterò più. Forse altri li ripeteranno e io ne commetterò di nuovi. Ma la responsabilità è grande; non dimenticherò la sconfitta né i suoi insegnamenti preziosi."
Le parole del Che sono premonitrici non solo per lui, alla vigilia di nuove lotte, ma per l'insieme delle lotte di liberazione dei popoli dei Tre Continenti; egli infatti sottolinea i pericoli per le loro lotte e la loro fragile vittoria che costituirebbero dei rinvii nelle soluzioni radicali per attaccare la miseria e lo sfruttamento.

Al di là delle pressioni imperialiste e di quelle del sistema del socialismo burocratico, e come fu il caso di numerosi paesi come il Nicaragua, il Congo, o il Vietnam..., questa lotta è di loro responsabilità e di primaria importanza per il loro divenire come liberazione antimperialista.

Trent'anni, e tuttavia il suo messaggio rimane intatto, proprio come le nostre esperienze combattenti.
Il messaggio del Che segna una svolta storica perché strettamente legato ai mutamenti che già si facevano intravvedere in quegli anni nel sistema di dominio, nella crisi e mondializzazione del suo regime di accumulazione, e legato altrettanto strettamente alle lotte del proletariato internazionale e dei popoli oppressi, dal Vietnam all'Angola, dalla Colombia alle Black Panthers in USA, dalla rivoluzione culturale cinese agli studenti di Parigi e agli operai italiani della FIAT, alla rivolta delle donne...

Non dispiaccia ai fabbricatori di icone rivoluzionarie, il Che non è della storia passata.
Non è solo buono a segnare con la sua impronta combattente, con il suo sguardo, certi luoghi di chiacchiere e bar alla moda.
Altri becchini affermano che di fronte alle idee post-moderne il suo messaggio è irrimediabilmente obsoleto, ma ciò non è altro che un suonare il vecchio campanello della sottomissione, il "fare soldi", la carriera "professionale", la paura del Padrone, la sua Cultura, le buone maniere, l'obbedienza e la pazienza, la corsa ai gadget, la religiosità... e infine l'ognuno per sé di fronte alla miseria delle popolazioni dei ghetti e dei paesi dipendenti.

Le rivolte del '68 e degli anni seguenti non portavano certo in sé l'innominabile riproduzione di questi molluschi.

Il Che è proprio l'esempio del fatto che non si passa inesorabilmente dallo stato di ribellione a vent'anni a quello di burocrati a quaranta!

Altri aggiungeranno che questa storia appartiene al passato ed è affondata con esso.
Che non serve a niente rimestare questi vecchi ricordi "militanti", e che bisogna trovare altre prospettive, nuove alternative. Ma niente nasce da niente.
Quelli che pensano il contrario e che sarebbe possibile far sorgere un orientamento e un progetto per "generazione spontanea" si sbagliano tanto quanto le vecchie accademie del XIX secolo.
Oppure si accontentano, per pura malafede o amnesia, di riportare ai gusti attuali alcuni aspetti del programma della socialdemocrazia e dei suoi progetti di riforma interni del sistema.

Sicuramente è essenziale cogliere quanto i termini del messaggio del Che caratterizzino il periodo di transizione tra le due grandi epoche storiche; quella che finisce con la crisi generale di sovrapproduzione assoluta di capitali e le grandi lotte proletarie della fine degli anni '60 e la nuova, che si forgia negli anni '80 con la controffensiva della borghesia, segnata dal regno di Gorbaciov e dalla caduta del muro di Berlino.

Non potrebbe essere altrimenti, e questo dimostra il suo adeguamento alle condizioni generali della fase.

Ma questa coscienza non può dunque che valorizzare meglio le lotte e la resistenza del proletariato internazionale e dei popoli che hanno poi approfondito ed esteso le sperimentazioni rivoluzionarie attorno alle principali linee strategiche: unità dei tre fronti rivoluzionari, estensione del campo dell'autonomia proletaria e della guerra di guerriglia.

Dunque il messaggio del Che si è rigenerato nella pratica stessa del movimento sociale, nella rivolta contro il sistema.
E lo fa senza posa nelle lotte degli oppressi e degli sfruttati.

Lo constatiamo oggi in Messico con l'insurrezione zapatista, le guerre rivoluzionarie in Perù, in Colombia, in questa America Latina di cui egli fu la voce combattente, nelle rivolte dei ghetti neri e ispanici negli USA, nel movimento degli "autorganizzati" e nel movimento antimperialista in Europa, ovunque si organizzano i proletari e i poveri per affrontare le distruzioni e gli sperperi, le guerre civili reazionarie e imperialiste, la flessibilità e la precarietà, il fascismo e i razzismi, il dumping sociale e la disoccupazione massiccia, risultante della regolazione selvaggia del sistema.

Nella lotta quotidiana qui i proletari acquistano sempre più coscienza di dover dividere il lavoro e la ricchezza al livello del pianeta intero.
E una nuova soggettività comincia ad emergere.

La prima delle sue rivendicazioni costitutive: "La riduzione generalizzata della giornata del lavoro sociale a livello mondiale, senza aumento delle cadenze e a parità di reddito, con o senza occupazione, senza differenza tra metropoli e paesi dipendenti", poggia ineluttabilmente su una guerra di classe che riconponga le diverse espressioni degli sfruttati e degli oppressi attorno al programma del proletariato internazionale e ai suoi caratteri universali come condizioni ineluttabili.

"CHE IMPORTA DOVE MI SORPRENDERA' LA MORTE..."

(Che Guevara)

Estate 1995

Joelle Aubron
Nathalie Menigon
Jaen-Marc Rouillan

nota 1) "El ano en que estuvimos en ninguna parte". La guerriglia africana di Ernesto Che Guevara, di Paco Ignacio Taibo, Froilan Escobar, Felix Guerra. Ediciones del pensamiento nacional. Argentina novembre 1994.

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