CHE GUEVARADUE INTERVENTI DI PRIGIONIERI RIVOLUZIONARIChe Guevara visto dai prigionieri del
Collettivo Wotta Sitta e da quelli di Action Directe.
"I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di cambiarlo" (K. Marx) Che Guevara appare oggi come l'unico soppravvissuto alla caduta delle ideologie rivoluzionarie: la sua faccia continua a campeggiare nelle manifestazioni degli studenti, degli operai, nella pubblicistica "di sinistra" di tutto il mondo. "Le idee non si possono uccidere",
affermava Thomas Sankara in un tributo al Che, vent'anni dopo la sua morte,
nel remoto stato africano del Burkina Fasu. C'è da chiedersi perché proprio
il "mito" del Che sembri resistere all'attacco che nel
ricco Occidente del liberismo sfrenato degli anni novanta, nel povero
Sud del mondo e nell'Est del caos subentrato al "crollo dei muri",
viene portato contro il comunismo e il marxismo e le loro figure storiche. L'industria della "cultura"
prospera fagocitando un simbolo dell'opposizione, digerendolo e riproponendolo
staccato alla sua storia, dalla sua lotta, dalla sua sfida al potere,
come un feticcio innocui. La cultura dominante e vincente corrompe
il dissenso, se ne appropria e lo rigenera nelle forme compatibili con
il sistema. Che Guevara è stato un comunista
internazionalista coerente fino alla sua ultima battaglia e i comunisti
di oggi non possono che far propria la sua lezione di vita e di lotta. Bisogna partire sempre dalla lotta di classe e dal "che fare" per porsi i problemi reali della lotta nella nostra epoca. Per un marxista, se è vero che "senza
teoria non c'è rivoluzione" è però necessario
affermare sempre il punto di vista della pratica. Questo il senso vero del messaggio del
Che, dagli inizi del 1956 in Messico e prima della rivoluzione a Cuba,
fino alla sua scelta di partire per la Bolivia nel 1967. "Lotto per le cose in cui credo, con tutte le armi di cui dispongo e cerco di atterrare l'altro, invece di lasciarmi inchiodare ad una croce o ad una qualsiasi altra cosa" (dal carcere di Città del Messico, 1956) (nota 1). Dopo la vittoria a Cuba e gli anni di lavoro come ministro al servizio della rivoluzione socialista, nelle lettere di saluto riconferma la sua concezione della lotta: "Ancora una volta
sento sotto i miei talloni il costato di Ronzinante, mi rimetto in cammino
con il mio scudo al braccio. Sono passati dieci anni da quando vi scrissi
un'altra lettera di commiato. (...) La vita del Che non è una romantica
avventura, ma un percorso fondato sul rapporto teoria-prassi che aveva
maturato nel corso della sua esperienza rivoluzionaria. Noi pensiamo che a partire da questa consapevolezza
si possa lavorare per tornare concretamente al "che fare" qui
e ora, imparando dalle sconfitte che il movimento rivoluzionario ha subito
e che ne condizionano pesantemente la ripresa. Ci sono momenti della storia rivoluzionaria che segnano passi in avanti anche se marcati dalla sconfitta, come afferma Marx a proposito della Comune di Parigi del 1871: "Sarebbe del resto assai comodo fare la storia universale, se si accettasse battaglia soltanto alla condizione di un esito infallibilmente favorevole" (K. Marx, Lettera alla Kugelmann). Il fatto stesso che la Comune fosse sorta
ed esistita, anche per un breve lasso di tempo, costituisce una conquista
fondamentale del proletariato mondiale, come ha lucidamente sostenuto
Marx analizzando il tentativo dei proletari e dei rivoluzionari parigini,
che ebbero l'ardire di osare lottare e osare vincere. Il fatto che Che Guevara abbia messo al primo posto il compito di continuare a sviluppare il processo rivoluzionario, come processo internazionale di emancipazione contro l'imperialismo, dopo la vittoria della rivoluzione cubana, ha chiarito il senso dell'internazionalismo proletario ed il carattere universale della rivoluzione nella nostra epoca. Anche se il suo tentativo è stato sconfitto. L'idea di Che Guevara si è addirittura rafforzata dopo che per ordine dell'imperialismo americano un oscuro ufficiale boliviano uccise a freddo il guerrigliero ormai catturato e ferito: proprio quella sconfitta e quella morte sono diventate il simbolo e la bandiera di una concezione internazionalista della lotta antiimperialista nel mondo. Oggi ancora di più, perché siamo entrati nella fase storica in cui le rivoluzioni degli uni dipendono da quelle degli altri. Certo non esiste ancora un processo compiuto
di crescita del proletariato come soggetto universale con una sua azione
comunista. Questo definisce il contenuto profondo della coscienza internazionale del proletariato, l'internazionalismo di questa epoca: ed è questo dato, la lotta sul piano universale, che stabilisce il termine principale di elaborazione ed avanzamento della prospettiva rivoluzionaria. Una lucida prefigurazione
che troviamo già in Marx: "Solo con questo sviluppo universale
delle forze produttive possono aversi relazioni universali fra gli uomini,
ciò che da una parte produce il fenomeno della massa 'priva di
proprietà' contemporaneamente in tutti i popoli (concorrenza generale),
fa dipendere ciascuno di essi dalle rivoluzioni degli altri e infine sostituisce
agli individui locali individui inseriti nella storia universale, individui
empiricamente universali (...). L'internazionalismo di
Che Guevara è informato da questo stesso respiro e approccio nelle
chiare linee tracciate nel discorso di Algeri del 1965, e proprio per
questo mantiene intatta la sua forza strategica anche oggi: "Un'aspirazione
comune - la sconfitta dell'imperialismo - ci unisce nella nostra marcia
verso il futuro; un passato comune di lotta contro lo stesso nemico ci
ha unito lungo il cammino (...). Analizzando la guerra
del Vietnam e lanciando la parola d'ordine "Creare due, tre ...
molti Vietnam" contro l'imperialismo americano, Che Guevara delinea
un unico scenario possibile della lotta dei comunisti nel mondo: "Bisogna
tener conto del fatto che l'imperialismo è un sistema mondiale,
ultima fase del capitalismo, e che bisogna batterlo in un grande scontro
mondiale (...). La tendenza allo sviluppo del capitalismo
metropolitano verso la globalizzazione si è intensificata sotto
i colpi della sua crisi generale e storica, approfondendo enormemente
l'interdipendenza tra le diverse aree del pianeta. Ma tutto questo non fa che unificare il proletariato internazionale in una sola classe dal centro alle periferie del Tricontinente, riproponendo la validità strategica della concezione internazionalista di Che Guevara contro la moltitudine di conflitti che la guerra imperialista ha acceso e "sfruttato" in molte aree di crisi. Contro la guerra imperialista i comunisti non possono che sviluppare e praticare le ragioni e le possibilità della rivoluzione proletaria. Ed è proprio sulla concezione della rivoluzione proletaria che il Che ha fornito un altro importante contributo ponendo al centro della lotta rivoluzionaria di classe il processo di trasformazione della società e dell'uomo. "Per costruire il comunismo, contemporaneamente alla base materiale, bisogna creare l'uomo nuovo" (nota 6). Bisogna lottare contro la miseria, ma allo stesso tempo contro l'alienazione! L'uomo nuovo, nell'accezione di Che Guevara - lo sottolineiamo qui per prendere le distanze da un certo dibattito strumentale che ha preso le mosse dalle affermazioni del Che - non è un concetto teorico legato ad una qualche forma di umanesimo filosofico, ma è una concezione che scaturisce dal cuore della teoria marxista della rivoluzione per il comunismo, in cui il comunismo è un processo, un movimento reale che trasforma lo stato di cose presente trasformando in ciò l'uomo e i rapporti sociali. I comunisti si distinguono dagli altri uomini solo perché "sono individui che hanno preso coscienza di ciò che è necessario fare; uomini che lottano per uscire dal regno della necessità ed entrare in quello della libertà" (nota 7). Che Guevara non ha "umanizzato" il marxismo, ma, proprio nell'esperienza che ha potuto maturare negli anni cubani della costruzione del socialismo, ha toccato con mano come la rivoluzione non si esaurisca in una solo atto e con la vittoria, ma sia un lungo processo di trasformazione della società e degli individui, dentro cui si sviluppano più rivoluzioni. In tal senso è vero che una rivoluzione
che non si approfondisce costantemente è una rivoluzione che arretra,
che perde la sua forza propulsiva e consente al vecchio nemico (il capitalismo
e l'imperialismo) di riguadagnare terreno. Mettere al centro "la necessità di creare l'uomo nuovo" non è allora un esercizio filosofico astratto, ma un irrinunciabile compito dei rivoluzionari per affermare un reale processo di liberazione ed emancipazione sociale, perché, come dice Marx: "E' indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche e filosofiche, ossia la forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo" (nota 8) La rivoluzione è dunque un processo sociale che si sviluppa ininterrottamente nel corso della guerra di lunga durata e della transizione al comunismo. Per noi parlare del Che
non è un esercizio di memoria storica, ma riproporre nella nostra
pratica sociale i contenuti della sua lotta, perché è anche
la nostra lotta, qui e ora. In Europa, nel cuore del capitalismo, l'esperienza del Che è stato uno dei riferimento fondamentali per le organizzazioni della guerriglia che negli anni '70 hanno rilanciato il processo rivoluzionario nella metropoli imperialista, operando una rottura storica con le concezioni revisioniste e riformiste che lo ingabbiavano, ridando senso strategico all'internazionalismo proletario e stabilendo un punto di non ritorno per la rivoluzione di questa epoca. I prigionieri rivoluzionari si collocano
dentro questo orizzonte, nel solco della continuità di quell'esperienza
rivoluzionaria e per svilupparla nelle nuove condizioni dello scontro
di classe. Novembre 1995 Vittorio Bolognese carcere di
Trani [torna all'inizio della pagina] nota 1) "Scritti politici e privati di Che Guevara" (a cura di R. Massari) Editori Riuniti, 1988, pag. 100. nota 3) Marx, "L'ideologia Tedesca", Ed. Riuniti, pag. 247 nota 4) Discorso al II° Seminario economico di solidarietà afroasiatica, Algeri, 24 febbraio 1965 (da "Scritti politici e privati...", cit., pagg. 223 e 224). nota 6) "I giovani e la Rivoluzione" (da "Il socialismo e l'Uomo a Cuba" in "Scritti politici e privati...", cit. pag. 266). Per il dibattito più recente: R. Massari, Fernando Matinez y otros, "Guevara para hoy", La Habana 1994, pubblicato in Italia da Erre Emme edizioni, 1994. nota 7) "Il socialismo e l'Uomo a Cuba", cit. pag. 275. nota 8) K. Marx, prefazione a "Per la critica dell'economia politica", Ed. Riuniti, 1979, pag. 747. nota 9) "Scritti politici e privati...", cit. pag. 245 [torna all'inizio della pagina]
Il 24 febbraio del 1965, Ernesto "Che"
Guevara prende la parola davanti alla Conferenza di Algeri. Non fu uno di quei discorsi a cui ci hanno
abituati i politici istituzionali di ogni parte, questa retorica delle
voci pie, delle buone intenzioni e delle promesse demagogiche, né
l'eterno attestato di fede che si attribuiscono i ribelli di ieri arrivati
al potere e alla "amministrazione" di questo nuovo potere. Lui che in quel 1965 assumeva le più alte funzioni della vita politica ed economica cubana, lui che affermava ad Algeri "bisogna fornire a questi paesi fratelli tutti i mezzi di difesa di cui hanno bisogno, offrendogli la nostra solidarietà incondizionata", abbandonava le sue funzioni appena qualche settimana più tardi, per prendere la testa di 130 volontari cubani per combattere a fianco della guerriglia lumumbista. In effetti, ora si sa, e senza possibilità di dubbio, che da aprile a novembre di questo stesso 1965, egli sarà alla macchia nella regione del Congo orientale con l'organizzazione rivoluzionaria di Patrice Lumumba in guerra contro Ciòmbe, il dittatore al soldo delle potenze occidentali (nota 1). E' dunque su questo stesso continente africano che egli concretizzerà le sue parole pronunciate ad Algeri e il suo tentativo strategico di far sorgere guerre rivoluzionarie di liberazione in grado di accerchiare "il nemico comune" e con la loro unità abbattere il suo dominio distruttivo. Fare del Congo, dove il neocolonialismo scatenava la sua "violenza pura e semplice senza considerazioni ne finzioni di alcun genere", un nuovo Vietnam. [torna all'inizio della pagina] 1. Contro i nuovi complici dello sfruttamento imperialistaL'impegno del Che concretizza una rottura
decisiva nel pensiero socialista dominante per come esso si perpetuava,
da decenni, sotto il dominio delle strutture politico-ideologiche della
burocrazia internazionale. E di fatto durante questa conferenza, di
fronte ai sostenitori di questo pensiero ufficiale, egli osa porre una
questione fondamentale della lotta rivoluzionaria, caricaturizzata e snaturata
fin dai dibattiti dell'Internazionale Comunista degli anni '30, la questione
dell'unità dei due fronti, la necessità del fronte
nella lotta contro il nemico comune imperialista con quello della lotta
di emancipazione sociale, contro lo sfruttamento e la miseria. Ma questo principio dialettico è
stato abbandonato dai paesi del socialismo di Stato, il pragmatismo della
ricerca dei "rimedi da preconizzare per ogni causa a parte"
e le sue deviazioni tecniche di pianificazione rinvia eternamente a meccanismi
economici e di gestione dominati dalla sola classe parassita che si estende
con questo sistema deformato, quello degli apparatchick. Le deviazioni socialdemocratiche di questa
classe neoborghese -capitale esistente per sé- non potevano quindi
che approfondirsi fino al parossismo, fino all'attuale trasformismo meschino
di questi profittatori, divenuti attualmente gli "eroici" difensori
della democrazia borghese e della liberalizzazione selvaggia del mercato
che ad essa è legata. E sui due fronti, l'impossibile correzione conduceva inesorabilmente alla cancrena della mercificazione di tutti i rapporti: - le deformazioni nella produzione,
le forme della produzione stessa e della sua gestione statale contro i
reali termini della collettivizzazione, da cui consegue un sistema che
riproduce inesorabilmente delle classi antagoniste, perché alcuni
traggono benefici dal sistema e altri accumulano ritardo e miseria. - il socialsciovinismo di un socialismo di stato con interessi propri che instaura di conseguenza un rapporto di scambio, di "carattere immorale", con i paesi che sono riusciti ad emanciparsi e i movimenti di liberazione, al posto di "nuovo atteggiamento fraterno", come auspica il Che. E' chiaro che c'è una corrispondenza
interattiva tra la riproduzione dei rapporti di produzione di tipo capitalistico,
basati sul lavoro salariato, e dunque la mercificazione dei proletari
nei paesi del socialismo di stato, e i rapporti socialimperialisti di
scambio per il "mutuo beneficio" nel sostegno e nell'
"utilizzazione" dei paesi e dei movimenti del Sud in
lotta contro l'imperialismo. [torna all'inizio della pagina] 2. I rapporti mercantili contro i diritti della rivoltaMa i meccanismi della sopravvalutazione
del ruolo dello sviluppo delle forze produttive sono anche le cause di
errori politici e tattici gravi. Apertamente quando è possibile farlo oppure illegalmente -ma solo come ultima risorsa- perché la burocrazia non ha che uno scopo quello di favorire l'emergere di un partito e di un sindacato ufficiali riconosciuti come intermediari "ragionevoli" tra il potere neocoloniale e le masse, e, beninteso, di costituire istanze del tutto "solvibili", cioè con un largo credito tanto fra le masse che per il potere. Il loro credito essi lo accumulavano inculcando
alle masse oppresse e sfruttate (l'idea) che il loro dovere era quello
di ridurre la loro aspirazione di emancipazione perché l'arcaismo
della produzione dei paesi sottoposti a neocolonialismo li condannava
ad un limite oggettivo impossibile da superare secondo il santo vangelo
del determinismo degli economicisti. Il Che si ricorda bene dei termini impiegati
dai dirigenti del partito burocratico cubano per denunciare proprio il
diritto di rivoltarsi e prendere le armi contro l'infame dittatura di
Batista: Anche in Algeria, come in numerosi paesi
dell'Africa, si ricordano condanne che si volevano senza appello, pronunciate
dalle grandi istanze revisioniste rappresentanti locali del "socialismo
reale". Per i burocrati, la rivolta non deve beneficiare di alcun credito - in tutti i sensi del termine - perché per i rapporti e gli apparati del socialismo di Stato e le istanze legaliste che ha propagato a livello internazionale, essa non è solvibile. Effettivamente è impossibile come pericoloso per essi tentare di diluirla e renderla redditizia nei rapporti mercantili che stabiliscono in tutte le circostanze. Mentre non c'è alcuna difficoltà - quando si è "persone assennate" beninteso! - a comprendere che la strategia di "coesione pacifica" progettata dai revisionisti - l'attuale segretario del PCF avanza anche l'idea dell'opposizione costruttiva con il partito d'ordine della destra neoliberista - è l'unica via praticabile, che ha obiettivamente la capacità di costruire un ambiente soddisfacente per lo sviluppo delle forze produttive e per lo scambio nel quadro delle leggi bronzee di un mercato internazionale dominato dal solo capitalismo monopolistico. [torna all'inizio della pagina] 3. Impugnare le armi della rivoltaOvunque i sostenitori del "socialismo
reale" nella loro conciliazione con il sistema tendevano a sopravvalutare
sempre più l'oggettività di fronte alla soggettività,
l'economia di fronte alla politica, le condizioni e i fenomeni interni
di fronte alle condizioni e fenomeni esterni, la riforma delle rivendicazioni
democratiche di fronte alla rivoluzione e allo sconvolgimento radicale
dei rapporti sociali, la sicurezza della coesistenza col nemico di fronte
ai rischi dello scontro, l'azione pacifista nella istituzione di fronte
all'azione rivoluzionaria... Mentre il Che rileva le mutazioni del sistema
sotto il dominio USA delineando le sue contraddizioni e il loro divenire
di crisi con potenzialità afferrabili dal proletariato internazionale
e dai popoli oppressi. Alla fine degli anni '60, dei compagni
italiani costatavano: "Questa volta la crisi è molto più
profonda e ha una dimensione votata a rimbalzare da un paese all'altro,
all'interno di un sistema economico-politico sempre più integrato." Perché nell'epoca del tardo capitalismo "la pratica dell'internazionalismo proletario non è soltanto un dovere per i popoli che lottano per un avvenire migliore, ma anche una necessità ineluttabile." Parallelamente bisogna sottolineare, e
questo fu dimostrato nel corso di tutti gli scontri rivoluzionari che
si propagarono alla fine degli anni '60 e all'inizio dei '70, che la possibilità
di stabilire una interrelazione corretta e dinamica tra una pratica coerente
dell'internazionalismo proletario e i due fronti, quello della
lotta antimperialista e quello della lotta anticapitalista, determina
l'esistenza di un terzo fronte altrettanto essenziale: il fronte della
lotta contro il revisionismo. Una rappresentazione che, per il fatto
stesso della necessaria salvaguardia della sua credibilità, si
articola sempre più in controllo sociale permanente. E sarebbe erroneo pensare che la tradizione dei bonzi e il risultato della loro ignominia individuale e del loro carrierismo sia principalmente la conseguenza diretta dell'inadeguatezza dei tipi di organizzazione come le organizzazioni e i grandi partiti elettoralisti (vittime essi stessi dell'infezione del sistema della delega permanente: funzionariato, promesse di programmi seduttivi, facilitazioni demagogiche e populiste,...) di fronte allo sviluppo di un dominio che ha integrato le lotte riformiste e i ghetti dei simulacri di opposizione nei suoi progetti, come una valvola di sicurezza. Con la sua interazione, l'unità
dei tre fronti rivoluzionari determina di fatto il nuovo campo dell'autonomia
del proletariato, come tutta una serie di conseguenze organizzative
e tattiche per la sinistra rivoluzionaria. La guerra di lunga durata, proiettata dalle
linee di questa autonomia, si presenta quindi come la teoria della
lotta e della pratica che guida e rafforza la capacità critica
di rottura sorta con l'azione rivoluzionaria delle masse contro le devastazioni
dello sviluppo e dell'imputridimento del sistema imperialista. E tanto più perché essa è la condizione primaria per lo sviluppo della sua autorganizzazione e del suo contropotere indispensabile alla distruzione dei molteplici e differenti poteri borghesi che si trova di fronte, nelle fabbriche e nei quartieri, in tutti i rapporti sociali sempre più segnati dalle stigmate della mercificazione, in tutti questi poteri e nei loro apparati di controllo che gli fanno fronte a livello locale e internazionale. Nella nostra epoca, un'epoca che prende forma nel corso della seconda parte degli anni '60, di fronte al salto tecnologico e ai mutamenti del dominio imperialista che esso implica, il proletariato può rafforzarsi solo nei nuovi termini della lotta, giungendo a dotarsi di una convergenza di organismi realmente controllati da sue proprie istanze di lotta che rispondano alle diverse esigenze e alla estrema complessità della dimensione sociale e della sua necessaria trasformazione. E allo stesso modo esso può rafforzarsi solo se riesce a costruire e a preservare, nello scontro, l'unità viva dei molteplici comitati di base, con le sue diverse organizzazioni rivoluzionarie di lotta. Una lotta partigiana che sia con "le
armi politiche, le armi reali o con entrambe insieme". [torna all'inizio della pagina] 4. A guisa di conclusione provvisoriaTrent'anni fa, nell'estate del 1965, il
Che combatteva nella foresta equatoriale congolese. Al di là delle pressioni imperialiste e di quelle del sistema del socialismo burocratico, e come fu il caso di numerosi paesi come il Nicaragua, il Congo, o il Vietnam..., questa lotta è di loro responsabilità e di primaria importanza per il loro divenire come liberazione antimperialista. Trent'anni, e tuttavia il suo messaggio
rimane intatto, proprio come le nostre esperienze combattenti. Non dispiaccia ai fabbricatori di icone
rivoluzionarie, il Che non è della storia passata. Le rivolte del '68 e degli anni seguenti non portavano certo in sé l'innominabile riproduzione di questi molluschi. Il Che è proprio l'esempio del fatto che non si passa inesorabilmente dallo stato di ribellione a vent'anni a quello di burocrati a quaranta! Altri aggiungeranno che questa storia appartiene
al passato ed è affondata con esso. Sicuramente è essenziale cogliere quanto i termini del messaggio del Che caratterizzino il periodo di transizione tra le due grandi epoche storiche; quella che finisce con la crisi generale di sovrapproduzione assoluta di capitali e le grandi lotte proletarie della fine degli anni '60 e la nuova, che si forgia negli anni '80 con la controffensiva della borghesia, segnata dal regno di Gorbaciov e dalla caduta del muro di Berlino. Non potrebbe essere altrimenti, e questo dimostra il suo adeguamento alle condizioni generali della fase. Ma questa coscienza non può dunque che valorizzare meglio le lotte e la resistenza del proletariato internazionale e dei popoli che hanno poi approfondito ed esteso le sperimentazioni rivoluzionarie attorno alle principali linee strategiche: unità dei tre fronti rivoluzionari, estensione del campo dell'autonomia proletaria e della guerra di guerriglia. Dunque il messaggio del Che si è
rigenerato nella pratica stessa del movimento sociale, nella rivolta contro
il sistema. Lo constatiamo oggi in Messico con l'insurrezione zapatista, le guerre rivoluzionarie in Perù, in Colombia, in questa America Latina di cui egli fu la voce combattente, nelle rivolte dei ghetti neri e ispanici negli USA, nel movimento degli "autorganizzati" e nel movimento antimperialista in Europa, ovunque si organizzano i proletari e i poveri per affrontare le distruzioni e gli sperperi, le guerre civili reazionarie e imperialiste, la flessibilità e la precarietà, il fascismo e i razzismi, il dumping sociale e la disoccupazione massiccia, risultante della regolazione selvaggia del sistema. Nella lotta quotidiana qui i proletari
acquistano sempre più coscienza di dover dividere il lavoro e la
ricchezza al livello del pianeta intero. La prima delle sue rivendicazioni costitutive: "La riduzione generalizzata della giornata del lavoro sociale a livello mondiale, senza aumento delle cadenze e a parità di reddito, con o senza occupazione, senza differenza tra metropoli e paesi dipendenti", poggia ineluttabilmente su una guerra di classe che riconponga le diverse espressioni degli sfruttati e degli oppressi attorno al programma del proletariato internazionale e ai suoi caratteri universali come condizioni ineluttabili. "CHE IMPORTA DOVE MI SORPRENDERA' LA MORTE..." (Che Guevara) Estate 1995 Joelle Aubron nota 1) "El ano en que estuvimos en ninguna parte". La guerriglia africana di Ernesto Che Guevara, di Paco Ignacio Taibo, Froilan Escobar, Felix Guerra. Ediciones del pensamiento nacional. Argentina novembre 1994. |