SULLA RICOMPOSIZIONE POLITICA DI CLASSEELEMENTI DI DIBATTITOComitato Internazionalista Ottobre - Milano
A circa 80 anni dalla prima rivoluzione proletaria mondiale e in una fase contrassegnata da trasformazioni a carattere epocale, le contraddizioni che dominano lo scenario internazionale sono fondamentalmente tre: la contraddizione fra borghesia imperialista e proletariato nei paesi del centro imperialista e in alcuni paesi di nuova industrializzazione, la contraddizione fra i paesi del centro imperialista (USA, Europa, Giappone) e i paesi della periferia (al cui interno i processi di "sviluppo" e sottosviluppo ineguali si sono andati approfondendo nell'ultimo decennio fino a configurare un quadro di grande complessità) e la contraddizione interna ai tre principali poli imperialisti. L'Italia, che fa parte del gruppo di punta dei paesi imperialisti (benché in posizione subordinata rispetto a USA e Germania) è attraversata innanzitutto dalla prima delle tre contraddizioni. Tuttavia una serie di processi economico-strutturali e politici, interni e internazionali, tendono a spostare l'asse delle contraddizioni fondamentali facendo sì che queste interagiscano su un piano sempre più articolato e complesso (la guerra nella ex-Jugoslavia, le contraddizioni interne all'Unione europea, ecc.). Noi riteniamo comunque che la contraddizione principale rimanga quella fra borghesia imperialista e proletariato. [torna all'inizio della pagina]
Nonostante l'estrema complessità dei processi strutturali politici in atto ci sembra che in questa fase siano giunti a maturazione una serie di elementi relativi ai termini dello scontro di classe in Italia e che sia quindi possibile tentare un primo, anche se schematico, bilancio delle tendenze che sono venute emergendo negli ultimi anni nei rapporti conflittuali fra borghesia imperialista e proletariato. Tali rapporti hanno conosciuto i loro momenti decisivi nello scontro tra forze del capitale e forze del lavoro produttivo e, in primo luogo, la classe operaia delle grandi e medie fabbriche. Il conflitto di classe in quest'ultimo decennio si è sviluppato all'interno di un contesto internazionale di crisi strutturale del modo di produzione capitalista che è andata ben al di là della "ciclicità" delle crisi capitaliste fino a investire i fondamenti stessi dei processi di accumulazione e valorizzazione capitalisti. I punti più alti di tale crisi ('83-'84 e '92-'93) hanno progressivamente segnato fasi di non ritorno nei rapporti fra capitale e lavoro a livello mondiale, ponendo la borghesia imperialista internazionale (e di conseguenza il proletariato dei paesi del centro imperialista, ma anche quello dei paesi della periferia) davanti a due obiettivi ineluttabili: 1) il passaggio dalla fase di multinazionalizzazione a quella di mondializzazione, 2) il superamento e la definitiva liquidazione delle teorie keynesiane relative al ruolo "sociale" dello stato come modello per la soluzione delle crisi capitalistiche, con la conseguente affermazione dell'ultraliberismo economico come teoria e pratica dominante nelle relazioni economiche a livello internazionale. Il decennio degli anni '80 si chiudeva inoltre con un altro evento che avrebbe profondamente segnato le relazioni sullo scenario internazionale e modificato i rapporti di forza avviando dinamiche di riorganizzazione economico-politica ancora in atto: il crollo dell'URSS e del blocco dei paesi ex-socialisti. Benché le ripercussioni di tale fenomeno siano ancora tutte da valutare, la disintegrazione di quel modello economico-sociale ratifica senza dubbio il passaggio da una fase bipolare a una unipolare nella quale le contraddizioni si sviluppano lungo assi differenti rispetto alla fase precedente. In Italia la crisi dei primi anni '80 ha un impatto dirompente sulle forze produttive e sui rapporti di produzione: gli anni dello "sviluppo" e della costruzione, del processo di accumulazione di capitale e forza-lavoro, della "piena occupazione", delle politiche riformiste di PCI e sindacato e del potere contrattuale della classe operaia sono ormai definitivamente tramontati mentre si dispiega la realtà della crisi strutturale del capitale, con il suo carico di pesanti e drammatiche conseguenze per la classe operaia e il proletariato del nostro paese, così come degli altri paesi del centro e della periferia. La vicenda del licenziamento dei 61 alla FIAT è la spia di un cambiamento radicale delle relazioni industriali: la relativamente giovane borghesia imperialista e il medio capitale si trovano di fronte agli imperativi della competitività internazionale, della produttività, della riduzione dei costi di produzione. Prende il via un piano radicale di ristrutturazione delle forze produttive e dei rapporti di produzione che, incentrato sulla trasformazione tecnologica indotta dalla microelettronica e dalla robotizzazione, attacca frontalmente il lavoro vivo come parte integrante della produzione. La parola d'ordine del capitale è: ridurre e distruggere lavoro vivo, in altri termini, estensione progressiva della disoccupazione. L'accordo Governo-Confindustria-Sindacati del 22 gennaio 1983 (Accordo Scotti) costituisce la prima ratifica a livello formale del piano di ristrutturazione. A distanza di oltre 12 anni da quell'accordo e analizzando gli avvenimenti che lo hanno seguito, ci è facile capire come i suoi punti principali anticipassero ciò che sarebbe emerso in maniera sempre più chiara negli anni successivi, fino ai più recenti provvedimenti antioperai e antiproletari adottati dai governi Amato, Ciampi, Berlusconi e Dini. Per quanto si riferisce, più in particolare, alla ristrutturazione del mercato del lavoro, basta esaminare il punto 9 per rendersene conto: punto 9b : ampliamento delle possibilità di ricorso al part-time, ai contratti di formazione e alle assunzioni a tempo determinato, stabilendo nel contempo un ampliamento del periodo di prova; punto 9c : introduce la possibilità della chiamata nominativa, del 100% sui giovani fino a 25 anni e del 50% sui disoccupati con più di 25 anni e dei lavoratori in lista di mobilità, complessivamente per più del 90% della forza-lavoro; punto 9f : stabilisce quali organismi dovranno gestire il mercato del lavoro così ristrutturato, in particolare le Agenzie del lavoro che dovrebbero diventare il centro di tutta la manovra, gestendo assunzioni nominative, mobilità interaziendale, contratti di formazione e formazione professionale; punto 9g : prevede riduzioni cadenzate della CIG (cassa integrazione guadagni) e la fissazione dei periodi massimi di godimento della stessa; punto 9h : stabilisce la perdita del diritto alla CIG per coloro che si rifiutano di accedere a un posto di lavoro equivalente (in pratica chi si rifiuta di lasciare la fabbrica e lotta per il reintegro perde il diritto alla CIG). L'attacco di governo e Confindustria alla forza-lavoro non si rivolge esclusivamente ai suoi meccanismi di contrattazione (distruzione di lavoro vivo): esso si estende al salario dei lavoratori occupati (riduzione del salario diretto con la modifica della scala mobile) e al taglio dello stato sociale: riduzione dei servizi sociali, introduzione dei ticket sulle prestazioni sanitarie, aumento delle tariffe pubbliche. un attacco alla classe operaia e al proletariato che prefigura le successive politiche di Amato, Ciampi, Berlusconi e Dini. Gli obiettivi della borghesia imperialista, che andranno delineandosi con maggior chiarezza nel corso degli anni '80, sono sostanzialmente: la completa deregulation del mercato del lavoro (la tendenza all'eliminazione dei meccanismi di contrattazione collettiva della forza-lavoro), il graduale smantellamento dello Stato sociale, la progressiva privatizzazione dell'economia con la definitiva scomparsa della figura dello "Stato imprenditore". Si tratta, in sintesi, dell'applicazione delle regole dell'ultraliberismo economico - che, assolutizzate come dogma nell'America reaganiana e dalla Thatcher in Gran Bretagna, imperversano in più aree del mondo con effetti devastanti sulle condizioni di vita e di lavoro di milioni di sfruttati - alle strutture economiche e ai rapporti di produzione del nostro paese. Alle manovre economiche del governo Craxi, degli anni '83-'84, la classe operaia e il proletariato risposero dando vita al movimento dei Consigli di fabbrica che scese in campo nei primi mesi del 1984 con un programma di lotta che aveva al suo centro tre punti fondamentali: 1) mantenimento ed estensione della domanda
interna 2) Mantenimento dei livelli occupazionali 3) Estensione dei livelli occupazionali La reazione di Confindustria e governo (con l'appoggio più o meno dichiarato del PCI e del sindacato) alla mobilitazione delle avanguardie di lotta della classe, agli scioperi e alle manifestazioni di massa fu il referendum sulla scala mobile e la legge finanziaria del 1985 che, in piena continuità con l'Accordo Scotti dell'83 e con i decreti che tagliarono tre punti di scala mobile nell'84, approfondiva ed estendeva l'offensiva contro le condizioni di lavoro, o di non lavoro, e di vita della classe operaia e del proletariato tutto. Da parte sua la CGIL, in un documento dal titolo significativo "Ipotesi complessiva di riforma del salario e dell'occupazione", avanzava a governo e Confindustria una serie di proposte che si caratterizzavano per la centralità attribuita al problema della produttività: cogestione della ristrutturazione in fabbrica, aumenti salariali "contenuti" (più "qualitativi" che quantitativi, come dice il documento), incentivi collegati alla maggiore produttività, estensione dei contratti capestro (part-time, formazione lavoro), maggiore flessibilità nell'orario di lavoro. [torna all'inizio della pagina]
Gli effetti delle politiche neoliberiste applicate dalla borghesia imperialista italiana sul versante della ristrutturazione produttiva e del mercato del lavoro si riassumono in alcuni indicatori economici (produttività e costo del lavoro, salari ed occupazione) che danno la misura della portata dell'offensiva scatenata contro la classe operaia e i lavoratori del terziario. La retribuzione lorda procapite che nel quinquennio 1981-86 segnava una variazione percentuale annua media del 14,3% nel triennio 1987-90 si è ridotta al 7,5% (l'aumento dei salari su base annua, per effetto dei tagli alla scala mobile, si era ridotto dunque del 6,8%, praticamente dimezzandosi). Il salario reale, al netto dell'inflazione, risulta in realtà ulteriormente ridotto. La stessa sorte seguiva, naturalmente, l'indice del reddito da lavoro dipendente procapite che, nello stesso periodo, segnava una flessione del 6,4% (14,6% nel quinquennio 1981-'86 contro l'8,2% nel triennio 1987-90). La secca riduzione dei salari trascina naturalmente un'analoga riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto che passa dal 10% del 1981-'86 al 4,3 % del triennio 1987-'90. Questo indicatore, che rappresenta l'indice concreto della crescita della produttività del lavoro, costituisce l'effetto più evidente del processo di ristrutturazione industriale. Una traiettoria analoga si verifica nei servizi in cui, dal triennio 1981-'83 al biennio 1989-'90, il costo del lavoro per dipendente passa dal 16,7% all'8,9%. Sul fronte dell'occupazione industriale i risultati della ristrutturazione produttiva e della deregulation del mercato del lavoro appaiono ancora più disastrosi: la riduzione della forza-lavoro occupata è del 14,1% dal 1981 al 1991 con punte del 29% in Liguria e Calabria, del 22% per la Campania, ecc. In Lombardia, regione che dispone storicamente del più esteso apparato industriale, la riduzione sfiora la media nazionale ed è del 13,8%. [torna all'inizio della pagina]
L'accordo del 31 luglio 1992 (il cosiddetto Accordo Amato) si inserisce nelle linee di sviluppo delle politiche economiche antiproletarie incentrate sul modello neocorporativo di accordi centralizzati a tre (Governo, Confindustria, Sindacati), dando il colpo di grazia al meccanismo della scala mobile, frutto delle lotte condotte dalla classe operaia nella fase economica espansiva. La cancellazione della scala mobile assesta un colpo durissimo alla difesa dei salari e delle pensioni, oltre che in generale al potere contrattuale, e in definitiva politico, della classe operaia. Tale accordo ratifica il passaggio da un sistema di adeguamento automatico dei salari e delle pensioni a una gestione dirigista dei redditi da lavoro dipendente, restituendo al padronato il pieno controllo del governo del salario e dell'organizzazione del lavoro all'interno dei già avviati processi di ristrutturazione. Nel protocollo dell'accordo viene inoltre congelata la contrattazione aziendale e di categoria. Come recita il protocollo: "L'obiettivo non è solo quello di riconvergere verso i parametri del Trattato di Maastricht, ma di salvare le potenzialità di sviluppo del nostro paese". Nell'ambito dell'occupazione e del mercato del lavoro le linee-guida di tale accordo sono la flessibilizzazione della forza-lavoro come obiettivo da attuare in armonia con politiche economiche e di riorganizzazione della produzione condotte in altri paesi comunitari, il potenziamento delle Agenzie d'impiego, la facilitazione di processi di mobilità aziendale. La CGIL, dal canto suo, ribadisce "il proprio impegno alla moderazione nelle politiche salariali allo scopo di far recuperare produttività, qualità ed efficienza alle imprese, con pieno senso di responsabilità in questa fase di crisi", senso di responsabilità che il sindacato di regime è andato progressivamente affinando nel processo di compatibilizzazione assoluta agli interessi "imprescindibili" della borghesia imperialista della quale si è rivelata, in ogni momento di crisi, un puntello indispensabile. Un accordo, quello Amato, che disegna una svolta nel rapporto fra stato, sistema produttivo e sistema monetario nel contesto europeo e assolutamente funzionale all'integrazione delle politiche economiche a livello europeo definita dal Trattato di Maastricht che impone a ogni Stato membro il rispetto di una serie di obiettivi economici. Questi sono la rimessa in ordine dei conti pubblici, la netta diminuzione della spesa pubblica sociale, la liberalizzazione globale del capitale e dell'impresa e il freno ai salari. In termini più prosaici e nei suoi risvolti sociali l'omogeneizzazione delle politiche economiche a livello comunitario comporta il varo e l'applicazione di politiche economiche restrittive che si concretizzano in tagli alle spese sociali e nel completamento del processo di liquidazione dello Stato sociale. Il progetto di costituzione di un nucleo europeo forte, incentrato sul progetto di Grande Germania, nel contesto dell'acutizzazione della concorrenza e delle contraddizioni tra poli, dettata dalla crisi strutturale del capitale, comporta ricadute sociali di grande intensità e un inasprimento dell'attacco portato dalle borghesie imperialiste europee alla classe operaia e al proletariato di tutti i paesi dell'Unione europea. L'Accordo Amato procede simultaneamente alla manovra economica varata dallo stesso governo, che sistematizza sul piano politico-istituzionale provvedimenti-capestro quali la riforma delle pensioni, trampolino di lancio del recente smantellamento di tale istituto previdenziale, l'abolizione dell'equo-canone, l'aumento dei contributi previdenziali, delle spese sanitarie, ecc. L'Accordo triangolare sul costo del lavoro del 3 luglio 1993 (Ciampi), anch'esso assolutamente conseguente ad analoghi accordi conclusi in diversi paesi dell'area OCSE, approfondisce e precisa il processo di razionalizzazione e riorganizzazione delle relazioni industriali e del mercato del lavoro, e più complessivamente della produzione e riproduzione della forza-lavoro. Si tratta di un passaggio importante nel processo di rimodellazione delle relazioni fra le classi e fra classe e Stato dal momento che inaugura l'istituzionalizzazione dei rapporti fra mondo delle imprese e sindacati. Riassumiamone i punti principali: a) politica dei redditi e occupazione: viene ribadita l'azione congiunta volta a mantenere bassi i livelli di inflazione e a ridurre il deficit dello Stato. Il sindacato sancisce "ufficialmente" l'assunzione della logica di impresa e, di conseguenza, il suo passaggio a sindacato di Stato (un processo sulla cui necessità la borghesia imperialista italiana non nutre dubbi come confermano più recenti dichiarazioni di Abete sull'importanza che i sindacati rivestono per il capitale ai fini della regolazione e del contenimento dello scontro capitale-lavoro); b) congelamento dei salari per due anni e definizione di contratti nazionali quadriennali. Gli aumenti salariali sono legati a obiettivi di produttività, qualità e competitività. Gli obiettivi da raggiungere in termini di produttività, e ai quali agganciare gli aumenti "integrativi", verranno stabiliti da imprenditori e sindacati nel pieno rispetto della logica partecipativa di cui questi ultimi si fanno portatori. Vengono poi istituite le RSU (rappresentanze sindacali unitarie) elette per 2/3 da tutti i lavoratori e per 1/3 indicate proporzionalmente dal sindacato che firma i contratti nazionali; c) si ratifica l'estensione temporale della CIG e la sua applicabilità anche alle aziende con meno di 50 dipendenti fino ad allora escluse. In altri termini si assume il passaggio della CIG da strumento straordinario a strumento ordinario e a misura di normale amministrazione che introduce, con un puntello istituzionale, la pratica dei licenziamenti di massa; d) il tetto d'età per l'applicazione dei CFL (contratti formazione lavoro) viene elevato a 32 anni, si istituiscono il salario di ingresso (sistema di gabbie salariali) e il lavoro interinale o in affitto, misure che nel loro complesso mirano ad accentuare la concorrenza fra lavoratori e la tendenza alla precarizzazione del rapporto di lavoro; e) unificazione di meccanismi generali, normativi ed economici, dei contratti nel settore pubblico e privato; f) si definiscono relazioni più strette fra mondo della ricerca (Università, ecc.) e mondo dell'impresa. L'accordo Ciampi, se di per sé non crea una nuova struttura delle relazioni industriali, già pesantemente rimaneggiate dagli esecutivi precedenti, rimuove definitivamente gli ultimi ostacoli ancora esistenti ponendo le basi per la definizione di un ambiente sociale più favorevole al "nuovo paradigma" produttivo, economico e sociale. Basti pensare al paragrafo che eleva il trattamento di disoccupazione fino al 40% del salario e che di fatto spiana la strada a licenziamenti di massa, o a quello che istituisce il lavoro in affitto ed amplia il ricorso al part-time, precostituendo di fatto la formazione di un "secondo mercato" del lavoro funzionale agli imperativi del just in time e della produzione snella. [torna all'inizio della pagina]
Le elezioni del 27 marzo 1994 non si limitarono ad aprire la strada al governo Berlusconi, ma rappresentarono anche un salto di qualità nell'affermazione delle politiche liberiste in Italia. Le condizioni di un compiuto passaggio al liberismo economico e politico, sviluppate dai precedenti governi Amato e Ciampi - i cui programmi erano sostanzialmente centrati sulle privatizzazioni, sulla riduzione del disavanzo pubblico, sulla riduzione dello Stato sociale, sulla ristrutturazione produttiva e su una radicale trasformazione delle "relazioni industriali" - vennero a completa maturazione a cavallo tra la fine del '93 i primi mesi del '94. Parallelamente, Amato e Ciampi avevano messo a punto gli strumenti legislativi per la riforma istituzionale, attraverso la nuova legge elettorale maggioritaria e uninominale e una proposta di "revisione" della Costituzione del '48, con l'esplicito obiettivo di formulare una nuova carta costituzionale che rispondesse alle attuali esigenze della borghesia imperialista italiana e al mutato quadro internazionale. La vittoria della destra ultraliberista e fascista avrebbe avuto due conseguenze fondamentali per il proletariato italiano: l) la definitiva liquidazione dello Stato sociale (con la cancellazione dei diritti sociali conquistati dalla classe in quasi 50 anni di battaglie di classe, innanzitutto del diritto al lavoro); 2) la completa trasformazione dei meccanismi di rappresentanza politica, anche questi formalmente sanciti dalla Costituzione del '48. Gli ultimi mesi del governo Ciampi vedevano, d'altra parte, uno scenario di crisi economico-strutturale (diminuzione del 5,3% dei lavoratori delle grandi fabbriche, licenziamenti, crescita della disoccupazione, chiusura di impianti produttivi, riduzione del valore reale del salario, riduzione del volume degli investimenti produttivi), intrecciata a una profonda crisi finanziaria e monetaria e a difficoltà e lentezze nelle privatizzazioni, una situazione che spingeva obiettivamente la borghesia imperialista italiana a ricercare una via più efficace e diretta sulla strada delle politiche liberiste. Sembrava, cioè, che il liberismo thatcheriano non fosse in grado di trovare un concreto terreno di applicazione in Italia, essenzialmente a causa della strutturale "incapacità" del personale politico. Berlusconi, agli occhi della borghesia italiana (in particolare della borghesia industriale, del terziario e dei ceti professionali), sembrava riunire in sé tutti gli elementi capaci di sbloccare la situazione, consentendo di fare il salto verso un'effettiva gestione liberista della società e dello Stato. Non potevano naturalmente mancare le diffidenze e i sospetti da parte di fondamentali settori del capitale finanziario (Mediobanca), della grande industria, (Agnelli, De Benedetti) e della Confindustria che furono all'origine di scontri sulla concezione dell"'azienda-partito" (Fininvest-Forza Italia). Tali contraddizioni continuarono fino alla vigilia elettorale. Solo dopo le elezioni, la borghesia italiana, con molti distinguo, assunse una posizione di sostegno del governo Berlusconi. Il programma di governo di Berlusconi (nei toni di un documento di un centro-studi industriale) sembrava contenere tutti gli elementi di un progetto liberista: 1) privatizzazioni: accelerazione di tutti i programmi di privatizzazione dell'intero settore delle aziende di Stato; 2) fisco: eliminazione della progressività dell'aliquota fiscale, sostituita da una sola aliquota fissa del 30% per tutti; 3) lavoro: promessa di un milione di nuovi posti di "lavoro" e lotta contro la disoccupazione. La realtà fu di 500.000 disoccupati in più nel primo semestre di governo; 4) pensioni: privatizzazione totale del sistema pensionistico (i risultati si vedranno nella legge di riforma approvata dal governo Dini); 5) sanità: "affidare al mercato la fornitura del servizio", in sostanza scomparsa del Servizio Sanitario Nazionale e privatizzazione delle prestazioni in campo sanitario; 6) scuola: "passare dall'attuale sistema centralistico a un sistema concorrenziale che renda la scuola un sistema di unità competitive". Proposta di finanziamento con denaro pubblico della scuola confessionale. Inoltre: aumento delle spese militari, repressione dell'immigrazione, riforme istituzionali (nuova legge elettorale, presidenzialismo, ecc). Citiamo solo alcuni punti del programma, redatto sulla base di un'ideologia liberista che si riassume nella formula: "lo Stato si astenga del tutto da quelle attività che possono essere più efficacemente affidate alle iniziative spontanee volontarie del cittadino", qualcosa che andava ben al di là del "meno Stato più mercato" dei precedenti governi, fino a configurare una società e uno Stato gestiti secondo il puro e semplice criterio economico dell'impresa. La caduta del governo Berlusconi si può sinteticamente far risalire a tre fattori: l) la diffidenza, se non l'aperto sospetto, di decisivi settori della borghesia imperialista italiana verso una figura di "manager metapolitico" che, al centro del suo programma di governo, tiene costantemente fermi gli interessi della sua personale frazione di capitale (monopolio delle reti televisive e la Fininvest identificata con l'azienda-Italia). 2) I difficili rapporti di Berlusconi con l'Unione europea e in particolare con la Germania, che peggiorarono dopo il comprovato fallimento degli obiettivi del programma di governo. 3) Le lotte di difesa delle condizioni di vita e di lavoro condotte dalla classe operaia e dal proletariato, che culminarono nella più grande manifestazione di massa dopo la seconda guerra mondiale (un milione e mezzo di persone a Roma il 13 novembre 1994). Questa manifestazione rendeva esplicito il fallimento di un punto del programma di governo che costituiva l'asse centrale della politica ultraliberista: la "pacificazione" sociale e la liquidazione di ogni forma di opposizione di classe. proprio negli ultimi mesi di vita del governo Berlusconi che si consuma la vertenza dello stabilimento FIAT di Termoli che, per la complessità dei fattori che racchiude, è significativa degli interessi e delle questioni in gioco nello scenario politico e sociale di questa fase. La FIAT, nella pretesa di imporre a tutte le filiali del gruppo il modello di relazioni industriali passato a Melfi, firma con il sindacato un accordo che prevede il rientro degli operai in fabbrica anche al sabato lasciando intravvedere, come contropartita, 400 nuove assunzioni. L'obiettivo del gruppo FIAT è evidente: si tratta, da una parte, di realizzare il massimo utilizzo degli impianti e aumentare l'intensità di lavoro e dall'altra di usare politicamente il problema della disoccupazione, marcata nell'area come in tutto il sud, per contrapporre e dividere i disoccupati e gli operai già inseriti nella produzione. I lavoratori di Termoli bocciano l'accordo con il 65% di no. Tale risposta da parte operaia coglie alla sprovvista il gruppo dirigente FIAT e i sindacati confederali. Il primo gioca la carta del ricatto, minacciando il trasferimento in Polonia della produzione, minaccia che in un contesto di internazionalizzazione economica come quello attuale si fa sempre più concreta. La FIAT intende cioè sfondare ogni possibile opposizione e generalizzare il modello di riorganizzazione del lavoro imposto a Melfi, un modello che ha consentito una netta risalita degli utili del gruppo. Dopo due mesi di trattativa, che coinvolge tutto il territorio molisano - e che vede la partecipazione, in prima persona, anche delle gerarchie ecclesiastiche alla campagna terroristica contro i lavoratori dello stabilimento - azienda e sindacati raggiungono un accordo che prevede il sabato lavorativo, non dopo aver imposto la votazione palese per alzata di mano. Nello stesso periodo vertenze simili vengono condotte negli stabilimenti Teksid di Carmagnola, alla Piaggio di Pontedera, ecc. Il governo Dini, che segue quello Berlusconi, rappresenta un tentativo di gestione comune delle politiche liberiste - in un quadro di crisi economica strutturale - da parte dei diversi gruppi della borghesia imperialista italiana. Dini quindi per un verso prosegue e approfondisce le politiche neoliberiste che fanno da sfondo a qualsiasi programma economico in questa fase e per l'altro cerca di attutirne gli effetti sociali, attuando tattiche più "morbide" rispetto a quelle del suo immediato predecessore. Un ruolo non indifferente nella caduta del governo Berlusconi aveva infatti giocato l'effetto di acutizzazione della conflittualità di classe determinato dai metodi spicci e dall'ultraliberismo berlusconiano, che erano stati stigmatizzati dagli organismi rappresentativi del grande capitale transnazionale. Nel quadro politico in cui si muove la nuova compagine governativa l'appoggio del PDS e del sindacato confederale si rivela determinante ai fini della realizzazione del progetto di riorganizzazione economica, sociale e politica. Il governo Dini si caratterizza sin dall'inizio come un "governo di tecnici" il cui obiettivo è quello di realizzare una serie di passaggi economici e politici (la manovra finanziaria per il 1996, la riforma del sistema pensionistico, la riorganizzazione del mercato del lavoro, la questione costituzionale e la definizione legislativa della "par condicio", vale a dire della pari opportunità nell'utilizzo del sistema di informazione) prima di procedere a nuove elezioni. Il "governo dei tecnici" deve cioè portare a compimento la linea di Amato, Ciampi e Berlusconi con maggiore incisività ma riducendo, nei limiti del possibile, la drammaticità dello scontro sociale, grazie alla collaborazione di CGIL-CISL-UIL. Il programma del governo Dini, supportato ideologicamente dalla "difesa e salvezza dell'economia nazionale", tende a colmare il distacco dell'economia italiana rispetto ai paesi dell'Unione europea. I parametri stabiliti dall'accordo di Maastricht per il passaggio all'Unione monetaria europea prevedono infatti un tetto per l'inflazione non superiore al 3% e che il debito pubblico non ecceda il 60% del PIL, traguardi ben lontani dai risultati effettivi dell'economia italiana (5,8 di inflazione e debito pubblico pari al 120% del PIL). Il mancato raggiungimento di questi obiettivi economici potrebbe comportare l'esclusione dell'Italia dai processi di integrazione europea. alla luce di questa situazione che il governo Dini ha accelerato i processi di privatizzazione dell'economia, di smantellamento dello stato sociale e di ristrutturazione del mercato del lavoro. Fra questi processi la legge di riforma del sistema pensionistico ratifica il passaggio da un sistema di contrattazione collettiva a un sistema individuale, comporta la perdita del potere d'acquisto delle pensioni (nel futuro infatti la copertura offerta dalla pensione sarà pari a circa il 60% del salario contro l'80-85% del vecchio sistema) e costituisce nell'insieme un chiaro peggioramento anche rispetto al progetto di riforma delle pensioni di Amato che già riduceva di circa 1/3 la copertura pensionistica rispetto all'ultima retribuzione. A causa dei tagli e delle modifiche apportate dalla riforma (che consentirà risparmi enormi alle casse dello Stato), la pensione pubblica non sarà più sufficiente e i lavoratori saranno costretti a sottoscrivere pensioni integrative private. Coloro inoltre che non possono permettersi pensioni e assicurazioni private saranno costretti a gravitare nel lavoro sommerso e ad accettare lavori precari e al nero per poter integrare una sempre più ristretta pensione statale. Le conseguenze più evidenti della riforma - che spezza la solidarietà fra generazioni, introduce artatamente contraddizioni e divisioni all'interno della classe contrapponendo occupati e disoccupati, giovani e vecchi -- sono: -- penalizzazione dei redditi da lavoro più bassi; -- ridistribuzione del reddito dal lavoro dipendente ai profitti e alle rendite; -- privatizzazione dell'istituto previdenziale; -- precarizzazione dell'attività lavorativa nelle fasce di età più elevate. L'Accordo è stato varato con il sostegno determinante del sindacato confederale (fatta eccezione di alcuni settori della CGIL riuniti intorno al documento di minoranza "Democrazia e solidarietà") e nonostante l'opposizione di consistenti e significative fasce di lavoratori, opposizione evidenziata dal referendum organizzato dai sindacati confederali. Questo referendum, che aveva l'evidente obiettivo di dividere i lavoratori delle nuove e delle vecchie generazioni, gli occupati dai disoccupati, i lavoratori in attività dai pensionati, ha avuto tuttavia un esito particolarmente significativo. Se su scala nazionale c'è stata la vittoria dei SI alla riforma con il 64,49% dei voti contro il 35,51% di NO, disaggregando tali risultati per regione e per settore emerge un quadro ben diverso da quello propagandato dai media di regime e dal sindacato: in realtà la riforma è stata sonoramente bocciata dalla classe operaia delle grandi fabbriche con il 75% dei NO a Termoli e alla Teksid di Carmagnola, il 55% alla Piaggio di Pontedera, il 68% alla FIAT di Mirafiori. Il 55% dei metalmeccanici, che costituiscono la spina dorsale della classe operaia, la sua parte più cosciente e quella che nel corso degli ultimi decenni è stata protagonista di lunghi cicli di lotte, ha bocciato l'Accordo con punte del 67% in Piemonte, del 60% in Lombardia, fino al 73% dei NO della provincia di Brescia. Possiamo quindi affermare che si è trattato di un voto significativo dal punto di vista politico che ha dimostrato, al di là dei risultati numerici, la netta opposizione all'Accordo da parte dei lavoratori delle grandi fabbriche, dei servizi e del pubblico impiego delle maggiori città. E un voto sul quale hanno sicuramente inciso le trasformazioni dell'organizzazione del lavoro e delle relazioni industriali e che ha evidenziato il forte calo di legittimazione del sindacato all'interno del nucleo centrale del proletariato: la classe operaia. Quanto alla ristrutturazione del mercato del lavoro, già avviata con gli accordi del luglio '93, essa è stata affrontata dal governo Dini con due disegni di legge proposti dal Ministro del Lavoro Treu: uno sul collocamento e il secondo sulla flessibilizzazione della forza-lavoro. Lo spirito che informa questi disegni di legge risponde ai principi del liberismo più puro: la totale liberalizzazione del rapporto fra domanda e offerta della forza-lavoro e il superamento di qualsiasi vincolo da parte imprenditoriale sull'acquisto e l'impiego della stessa. I punti essenziali sono: a) l'istituzione dell'Agenzia nazionale del lavoro che funziona come centro di selezione e offerta della forza-lavoro con chiamata nominativa, totalmente subordinata alla discrezionalità dell'impresa; b) il lavoro interinale secondo il modello francese: un sistema in cui il rapporto di lavoro in affitto viene stretto con l'agenzia di intermediazione e non con l'impresa presso la quale il lavoratore viene impiegato. Il rapporto di lavoro cessa al termine della prestazione e per il periodo di disoccupazione non è prevista alcuna indennità. Il lavoro in affitto, che gli accordi del luglio '93 limitavano ad alcune categorie lavorative, viene, in queste proposte, introdotto sperimentalmente anche nell'edilizia con l'esclusione, in via formale, solo delle qualifiche più basse nonostante siano previste anche in questo settore forme di "sperimentazione"; c) contratti a termine: vengono ampliate le motivazioni che ne consentono l'applicazione. possibile cioè utilizzare questo tipo di assunzioni anche per "esigenze produttive e organizzative" e per i disabili, in sostanza a piacimento dell'azienda. Non viene più fissata una quota massima di contratti a termine sull'intera forza-lavoro impiegata; d) part-time: tempo corto e flessibile, la prestazione lavorativa può essere allungata del 10% in più e il calendario può essere modificato. Non è più obbligatoria la domenica di riposo per il part-time verticale del fine settimana (squadrette impiegate durante il week-end); e) lavoro in coppia o job sharing: due lavoratori coprono lo stesso posto di lavoro contraendo un unico contratto e se uno dei due lascia il lavoro, l'altro è costretto a fare lo stesso. La manovra economica per la finanziaria 1996, concordata con il sindacato e di netto carattere corporativo, riflette fedelmente le scelte del governo Dini in rapporto alla progressiva estinzione dello stato sociale; essa prevede infatti un ulteriore taglio sulla spesa sanitaria, una minore spesa sulla previdenza conseguente alla riforma del sistema pensionistico, un consistente taglio agli investimenti al sud (circa 1300 miliardi) oltre all'aumento di alcune tariffe pubbliche. Uno degli ultimi atti del governo Dini è stata l'approvazione, il 18 novembre 1995, del decreto-legge n. 489 in materia di "regolamentazione" dei flussi migratori e di gestione degli immigrati provenienti da paesi non appartenenti alla Comunità europea. Il decreto, che ratifica un peggioramento della già restrittiva Legge Martelli (1990), introduce una legislazione di emergenza e legalizza lo sfruttamento e il ruolo subalterno dei lavoratori immigrati ai quali vengono "riservati" i posti peggiori sul mercato del lavoro, oltre ad essere strumentalmente usati come elemento di divisione rispetto agli altri lavoratori. Nel decreto sono presenti norme discriminatorie in materia di regolarizzazione che, nella maggior parte dei casi, costituiscono un espediente per espellere i lavoratori immigrati o per costringerli a restare in clandestinità. Sono previsti inoltre trattamenti economici e normativi differenziati nella parte relativa ai lavori stagionali (artt. 1 e 2). Gravi poi le misure relative ai provvedimenti di espulsione (il famigerato art. 7) che rappresentano un effettivo stravolgimento dei tanto decantati principi costituzionali e stabiliscono una pesante disparità di trattamento fra stranieri e non attraverso una serie di misure che arrivano fino all'espulsione e all'accompagnamento alla frontiera sulla semplice base di un presunto "comportamento criminale" e per motivi di sicurezza (art. 7 quater), vanificando in tal modo il principio di presunzione dell'innocenza su cui si fonda il nuovo Codice Penale. L'attuale fase di crisi economica strutturale si intreccia con una crisi della rappresentanza politica che riflette le contraddizioni fra i diversi gruppi della borghesia imperialista. In questo contesto i maggiori gruppi industriali e finanziari premono per il superamento del "governo dei tecnici" e per la formazione di un nuovo governo "politico" che sia in grado di portare a compimento il processo di privatizzazione e di completa liberalizzazione dell'economia e il programma delle riforme istituzionali. [torna all'inizio della pagina]
La crisi del modo di produzione capitalista accelera i processi di globalizzazione che portano a una maggiore integrazione economica fra aree e paesi. L'interdipendenza creatasi determina profonde trasformazioni nel sistema produttivo (innovazione tecnologica nei settori delle comunicazioni, delle biotecnologie, della biogenetica, ecc.), nell'organizzazione del lavoro (flessibilità, ecc.), nello stato sociale e nel conseguente riadeguamento degli assetti istituzionali. In campo economico si delineano le seguenti tendenze: l) la prima tendenza consiste nell'affermazione di nuove tecnologie come forza trainante dell'espansione economica e cioè: la microelettronica, le telecomunicazioni, l'elaborazione dati, le tecnologie ottiche, la robotica, i nuovi materiali, le risorse di energia rinnovabili, le biotecnologie, l'ingegneria genetica. Singolarmente le imprese transnazionali stanno svolgendo un ruolo chiave nello sviluppo di queste nuove tecnologie di base, traducendole in innovazioni del processo e dei prodotti e diffondendole da un'economia all'altra. Queste imprese stanno ricercando nuove forme di cooperazione al fine di socializzare i costi del progresso tecnologico e di distribuire i rischi ad esso inerente - imprese, università, laboratori di ricerca pubblici e privati, venture capital*, finanza pubblica - in diversi punti del globo. Vi è una chiara tendenza verso la cooperazione tecnologica tra le aziende all'interno di un polo e tra concorrenti distanti all'interno dei tre poli. Gli Stati stessi inoltre mostrano un interesse crescente per la sponsorizzazione pubblica del trasferimento o della diffusione tecnologica. 2) La seconda tendenza è la transizione dal fordismo al post-fordismo come paradigma dominante per l'assetto tecnico-economico e organizzativo nelle economie capitaliste. Ciò comporta lo spostamento da un modello di crescita fordista a uno interessato alla produzione flessibile, con un modello di consumo più differenziato e con conseguenze importanti per le strategie del capitale a livello settoriale, regionale o transnazionale - in modo evidentemente non lineare - anche dove il fordismo non era precedentemente dominante in particolari settori ed economie nazionali. 3) La terza tendenza è la massiccia internazionalizzazione dei flussi finanziari, commerciali e industriali sotto il dominio della borghesia imperialista. Negli anni '80 le tendenze verso l'internazionalizzazione si sono accelerate tra le aree del centro imperialista, nello stesso momento in cui le economie dei paesi della periferia diventano sempre più marginali. Le aziende multinazionali operano in un'economia globale nella quale le operazioni sono integrate attraverso le frontiere nazionali in relazione a una strategia di accumulazione globale complessiva. Ovviamente questo non significa che le operazioni del capitale transnazionale siano identiche da un paese all'altro, né che esse siano disseminate uniformemente in tutto il mondo, ma che esse sono soggette a un piano strategico complessivo che è formulato su scala globale. Tutto ciò ha importanti implicazioni per il ruolo dello Stato-nazione e per il concetto di "economia nazionale" come "unità naturale" dell'ordine economico mondiale. Questo si riflette in una quarta tendenza: il riemergere delle regionalizzazioni o agglomerazioni di attività economiche collegate all'interno di particolari poli di crescita. Infatti l'internazionalizzazione non produce una vera economia mondiale, in cui le attività economiche sono condotte con una totale indifferenza riguardo al luogo o allo spazio, ma ridefinisce le strategie del capitale a livello regionale e locale. I tre poli sono collegati attraverso le attività delle imprese transnazionali (550 imprese, metà del commercio mondiale). All'interno di essi vi sono altri poli di crescita minori, regionali o locali, che sono a loro volta collegati in gerarchie complesse con legami orizzontali più o meno fitti. Questi cambiamenti comportano un riadeguamento dello Stato sia nella forma che nelle funzioni, riadeguamento che si ripercuote sulle condizioni di vita materiali e politiche della classe. In primo luogo, lo Stato effettua spostamenti dalle spese sociali destinando le risorse finanziarie a favore del capitale, promuovendo la cooperazione con le comunità scientifiche, educative, industriali, finanziarie e politiche per lo sviluppo delle nuove tecnologie. In secondo luogo, le funzioni economiche primarie degli Stati vengono ridefinite. Quindi i governi centrali, nell'ambito della produzione flessibile, subordinano la politica di Welfare alle esigenze di flessibilità. Si passa cioè dal Welfare State (accesso allo stato sociale da parte di tutte le categorie a prescindere dal possesso di reddito) al Workfare-state in cui le "garanzie sociali" sono disponibili sul mercato, ma l'accesso ad esse dipende dalla possibilità di avere un reddito. In alcuni paesi capitalisti vengono in qualche maniera salvaguardati solo gli strati sociali al di sotto della soglia di povertà. Il Workfare-state può assumere forme neoliberiste o neocorporativiste a seconda dell'equilibrio dei rapporti di classe. In terzo luogo, quasi tutti gli Stati sono coinvolti nella gestione del processo di internazionalizzazione, nella speranza di ridurre al minimo le sue ripercussioni interne negative e/o assicurare il massimo beneficio ai capitali transnazionali con sede sul loro territorio. In quarto luogo, gli Stati devono affrontare i problemi interni di emergenze determinati dai cambiamenti dei rapporti di forza a livello internazionale. Accanto alla globalizzazione si registra anche un riemergere di economie regionali e locali all'interno dello Stato nazionale. Per certi aspetti questo fatto è associato a uno "svuotamento" dello Stato nazionale dato che i poteri sono delegati verso l'alto a enti sovraregionali o internazionali e verso il basso a governi regionali o locali. Ma questa trasformazione strutturale è spesso associata a un ruolo perdurante dello Stato nazionale nella direzione dei cambiamenti di equilibri tra forze politiche coinvolte nel complesso e contraddittorio processo di globalizzazione. Lo Stato nazionale, infatti, rimane sempre il più importante luogo di scontro tra le forze in competizione sia globali sia della Triade (Europa, USA, Giappone) e la coesione sociale dipende sempre dalla sua capacità di gestire questo scontro. In questo quadro si modificheranno anche le politiche di Welfare State di ogni singolo Stato-nazione a seconda della sua peculiarità, che dipende dai rapporti di forza instauratisi, in ogni Stato-nazione, tra borghesia e proletariato. Quindi anche le politiche sociali appaiono destinate a registrare una progressiva corrosione della propria autonomia nazionale, sia perché sempre più esposte a stimoli di natura esogena, sia perché sempre più condizionate da precisi vincoli istituzionali sovra o comunque extra-nazionali e dall'esigenza di tener conto degli effetti sulle competitività del proprio sistema-paese nel contesto economico mondiale. Negli anni '60 e '70 lo stato sociale in Europa si affermò attraverso la lotta di classe sviluppatasi al suo interno ed è connesso al modello di produzione fordista e al consumo di massa. Il fordismo, come modalità stabile di crescita macro-economica, implica un circolo virtuoso di crescita basata sulla produzione di massa, una produttività crescente, fondata su economie di scala, redditi crescenti collegati con la produttività, una maggiore domanda di massa dovuta ai salari più elevati, maggiori profitti basati su una piena utilizzazione delle capacità e un aumento di investimento in attrezzature e miglioramenti delle tecniche per la produzione di massa. Fordismo e Welfare State keynesiano sono interattivi. In questo quadro lo Stato, regolando i rapporti salariali e le politiche del mercato del lavoro e guidando la domanda globale, svolge la funzione di equilibrare domanda e offerta per evitare le oscillazioni cicliche caratteristiche del mercato. Lo Stato acquistava un ruolo chiave nell'integrare le industrie di beni di capitale o di consumo e nell'indirizzare i rapporti salariali a questo fine. Esso investiva in progetti infrastrutturali, promuoveva economie di scala attraverso politiche di nazionalizzazioni o di fusioni, incoraggiava il consumo di massa fordista attraverso politiche di edilizia abitativa e dei trasporti e generalizzava le norme di consumo di massa attraverso il suo intervento nei mercati del lavoro e nella contrattazione collettiva nonché la sua disposizione per il consumo collettivo. Particolarmente importante era il sostegno statale alla responsabilità sindacale, alla contrattazione collettiva, al consolidamento delle grandi imprese per la pacificazione sociale. Il periodo di espansione del fordismo generò le entrate fiscali per finanziare l'espansione del Welfare State e fornì anche la base materiale per un compromesso di classe tra capitale e lavoro. Il processo di globalizzazione e il passaggio dal modello fordista a quello post-fordista pongono le basi per il riadeguamento del Welfare State che sostanzialmente presenta tre aspetti: la flessibilizzazione dei servizi, l'equiparazione tra il settore pubblico e privato e i costi. All'interno di queste dinamiche sono due le risposte politiche che la borghesia, considerando il livello dello scontro di classe, può assumere: 1) la risposta neoliberista sottolinea il super-sfruttamento della forza lavoro, la privatizzazione delle imprese di Stato e dei servizi sociali e la deregulation del settore privato. La flessibilità, cruciale per il post-fordismo, è vista come derivante dalla liberazione delle forze del mercato, che questa strategia dovrebbe portare a compimento. In particolare la risposta neoliberista poggia su cambiamenti legislativi e amministrativi di ampia portata per spostare l'equilibrio di potere dal mercato del lavoro verso il capitale e per trasformare lo stato sociale in mezzo per sostenere e sovvenzionare bassi stipendi per settori cruciali di economia, che sarà caratterizzata da differenze retributive molto maggiori. Pertanto il salario diretto deve essere rafforzato come fonte di risorsa per la riproduzione sociale e il salario sociale ridotto e adattato alle esigenze di una forza lavoro più flessibile. Questo significa operare dei tagli in modo che integrazione dei redditi e altri programmi di Welfare State assumano un ruolo residuo nella riproduzione e riorganizzazione sociale. Analogamente i tagli alla tassazione saranno associati alla riorganizzazione del sistema fiscale come strumento di guida economica e sociale. Pertanto il sistema fiscale verrà usato per incoraggiare a provvedere alla propria assistenza personale tramite il mercato e a creare sistemi di previdenza occupazionale negoziati con i padroni. Sarà anche usato per influenzare le relazioni industriali, il mercato del lavoro e il consumo personale. Inoltre laddove sono in questione servizi sociali pubblici in opposizione a programmi di integrazione dei redditi, il Welfare State neoliberale suggerirà un'economia di Welfare mista in cui l'intervento pubblico diretto sia ridotto e vengano incoraggiati servizi privati che diano profitti. Lo Stato sosterrà inoltre le joint venture Stato-impresa, i gruppi di volontariato, gli enti caritatevoli, l'autoassistenza e così via. Misure fiscali, di bilancio amministrativo, come pure la semplice privatizzazione incoraggeranno la commercializzazione dei servizi sociali e/o la loro prestazione tramite enti non statali. Oltre a ciò, mentre un ruolo residuo ricadrà sullo Stato qualora queste misure non abbiano successo, esso cercherà di scaricarle quanto più possibile sulle famiglie proletarie. La base sociale del regime neoliberista è costituita da gruppi-chiave di lavoratori nei settori economici d'avanguardia come pure dagli interessi capitalistici e professionali che gestiranno il Welfare State neoliberale. Questa gestione implica un peggioramento generale delle condizioni del proletariato del settore privato e pubblico e di quello i cui redditi derivano da trasferimenti statali. 2) La risposta neocorporativista: rispecchiando le forme più flessibili dell'economia fordista, il centro di gravità corporativo si sposterà dalla concertazione complessiva al livello settoriale. Sul fronte della protezione sociale si riscontrerà una crescente tendenza alla "regolamentazione" attraverso organi preposti e a un maggior ruolo di gruppi di interessi privati nella gestione di alcune politiche, come quelle della salute, dell'assistenza, dell'istruzione, delle pensioni, delle case e così via. Gruppi volontari e altre forme del terzo settore guadagneranno maggior autonomia e maggiori poteri nella prestazione dei servizi sociali. In Italia si va delineando una tendenza neoliberista che deve tener conto delle contraddizioni insite nel sistema, e cioè dello scontro interno alla borghesia e della lotta di classe che si è espressa e che si esprime in questo paese. Ciò si traduce in uno scontro interborghese tra gli interessi del capitale nazionale e quelli del capitale transnazionale. Questo processo è in fase di accelerazione, ma non ha ancora assunto contorni ben definiti per quanto riguarda le rappresentanze politico-istituzionali. Negli ultimi anni si è delineata una politica di Welfare State che ha ridotto l'intervento dello Stato attraverso la diminuzione di fondi e un processo di aziendalizzazione degli enti che erogavano servizi a tutto vantaggio di quegli organismi e forme del volontariato che, sotto l'impulso neoliberista, stanno entrando a far parte di un quadro manageriale, assumendo così un ruolo importante nella gestione del conflitto sociale che queste politiche hanno innescato. [torna all'inizio della pagina]
I cambiamenti di gestione dell'economia da parte dello Stato passano anche attraverso la dismissione di imprese a capitale pubblico (IRI, ENI, Banche) che delineano un nuovo ruolo dello Stato nell'economia. Lo Stato diventa il regolatore del mercato e il suo stimolatore attraverso investimenti e ricerca. Se nel sistema keynesiano-fordista l'intervento dello Stato nell'economia si attuava attraverso la spesa pubblica (come moltiplicatore di reddito) e con la statalizzazione dei settori produttivi (vedi IRI e PSS), nella nuova fase lo Stato ha bisogno di liberalizzare tutti i settori dell'economia per eliminare le discrasie tra produzione e mercato. Si assiste in sostanza a una dismissione delle attività imprenditoriali e allo spostamento di risorse dalle spese sociali a quelle in conto capitale (fiscalizzazione degli oneri sociali, CIG, investimenti e ricerca) in un processo di ristrutturazione dell'intero sistema fondato sul monopolio pubblico e privato: -- privatizzazione delle imprese a capitale pubblico; -- smantellamento del Welfare State; -- funzionalizzazione dei servizi. La dismissione delle imprese e delle banche a capitale pubblico sancisce la fine dell'intervento dello Stato nell'economia. Lo smantellamento del Welfare State presenta diversi aspetti: a) diminuzione del deficit pubblico; b) funzionalizzazione dei servizi al capitale per eliminare gli ostacoli che rallentano il rapporto produzione/mercato; c) definizione di un sistema affinché la classe sia disposta ad accettare tutte le condizioni imposte dal capitale per accedere ai servizi sociali. Lo Stato diventa quindi regolatore e stimolatore dell'economia attraverso l'impiego di risorse pubbliche verso l'investimento (infrastrutture e agevolazioni alle imprese), la ricerca (la creazione di istituti di ricerca misti pubblici e privati) e la formazione attraverso la riforma dell'Università e dell'istruzione (partecipazione delle aziende nelle università e nel sistema scolastico in generale). Il processo di privatizzazioni è un elemento fondamentale per il riadeguamento dell'economia nazionale alla globalizzazione; per lo Stato imperialista, in questa fase, le privatizzazioni hanno una valenza che va ben al di là del problema del deficit pubblico perché rispondono alle esigenze del capitale mondiale che impone la rottura delle barriere doganali e la liberalizzazione dei mercati (vedi W.T.O.), scardinando i monopoli nazionali, espressione dei vecchi equilibri (pubblici e privati), e aprendo ai grandi capitali transnazionali. Questo non significa, evidentemente, che si affermano i piccoli capitali, ma che i grandi capitali nazionali (Mediobanca, FIAT) devono confrontarsi su tutti i mercati senza avere una posizione di monopolio nel paese di origine dei maggiori azionisti delle imprese transnazionali. In Italia esistono ancora i monopoli privati delle grandi imprese in cui la maggioranza è detenuta dai grandi gruppi finanziari italiani, benché siano presenti anche capitali transnazionali finanziari. Tuttavia il processo che si sta sviluppando in Italia, proprio per le caratteristiche del paese, è diverso da quello già realizzatosi in Gran Bretagna e negli USA. Nel 1992 inizia il primo processo di trasformazione di IRI, ENI, INA, ENEL da enti di gestione a s.p.a. ai fini della loro collocazione sul mercato. Nel 1993 viene soppresso il Ministero delle Partecipazioni Statali. Tra il '93 e il '94 vengono dismessi: Credito Italiano, Nuovo Pignone, IMI, Italgel, Cirio-Bertolli-De Rica, Comit, INA, mentre altre aziende minori vengono collocate sul mercato. Si mette così concretamente in moto il processo di privatizzazione attraverso un sistema misto di collocazione sul mercato delle azioni delle società pubbliche: da un lato l'azionariato diffuso (public company) e dall'altro il nucleo stabile ("nocciolo duro"). Nel primo caso, si stabilisce uno sbarramento per la detenzione delle azioni di una società, non vi è un azionista di maggioranza e si realizza una netta separazione tra proprietà e controllo dell'impresa. I trasferimenti di proprietà e di controllo si producono alla Borsa valori. Nell'assicurare la presenza di un azionariato diffuso assumono un ruolo fondamentale gli investitori istituzionali (fondi pensione, fondi chiusi, compagnie di assicurazione) e gli intermediari finanziari (merchant bank, società di venture capital). Il Consiglio d'Amministrazione assume più poteri e risponde del suo operato all'assemblea degli azionisti. L'indicatore di riferimento è il rendimento della quota azionaria. Nel secondo caso, si cedono le azioni a più gruppi finanziari che condizionano le scelte rispetto al resto dei soci che detengono quote azionarie minori. In realtà sia in un caso che nell'altro, in Italia, i grandi gruppi finanziari sono riusciti a prendere il controllo delle società (vedi Mediobanca-Comit). Dal luglio '92 le privatizzazioni effettuate dall'IRI ammontano complessivamente a 13.000 miliardi. Il beneficio finanziario per il gruppo risulta in realtà pari a circa 15.000 miliardi per effetto dell'alleggerimento dell'esposizione verso il sistema bancario, derivante dal deconsolidamento di alcuni dei settori privatizzati. Il piano predisposto dall'IRI prevede entro il 1996 il definitivo disimpegno dei settori delle telecomunicazioni, dei trasporti marittimi, delle costruzioni, nonché di società quali Autostrade e Aeroporti di Roma. La privatizzazione di maggiore rilievo è senza dubbio quello della STET alla quale l'IRI attribuisce una duplice finalità: da una parte quella del raggiungimento del proprio riequilibrio finanziario e dall'altra quella "di mantenere e sviluppare per il nostro paese la capacità di sostenere nelle telecomunicazioni la concorrenza globale, la sfida tecnologica e la conquista sul mercato globale di uno spazio adeguato". L'IRI, una volta vendute le aziende suddette, dovrà continuare nell'opera di riassetto di altre aziende attualmente non collocabili sul mercato al fine di privatizzarle. A quel punto verrà a cessare il ruolo storicamente svolto dall'IRI mentre il suo apparato, come capacità gestionale, economica e organizzativa potrà essere strumento per l'ulteriore privatizzazione di aziende dell'amministrazione pubblica centrale e locale e potrà essere utilizzato per dare più "efficienza" ad altre imprese, anche del settore privato. Il 21.11.95 la prima tranche dell'ENI è stata messa in vendita e collocata sui mercati nazionali e internazionali. Per la privatizzazione dei servizi di pubblica utilità il Parlamento ha approvato la legge sull'Autority che prescrive le linee-guida per la creazione di più organismi di controllo per i servizi pubblici e, al tempo stesso, prevede l'Autority per l'Energia, essenziale per la privatizzazione dell'ENEL. Le prossime Autority saranno quelle delle Telecomunicazioni (che permetterà la privatizzazione della STET), delle Poste e dei Trasporti. Queste ulteriori regolamentazioni permetteranno la liberalizzazione che porrà fine ai monopoli pubblici. All'Autority vengono trasferite quelle funzioni proprie di controllo degli organi statali e locali che segnano il passo verso lo spostamento di potere ad un organo "indipendente", per l'alleggerimento delle funzioni dello Stato, che governerà, su questo piano, le contraddizioni interborghesi. Il riadeguamento della politica economica si esprime anche attraverso la riorganizzazione del bilancio dello Stato (riduzione dei capitoli di spesa), la proposta di sostegno alle piccole e medie imprese (ricerca, esportazione, borse), la maggior autonomia della Banca Centrale, riduzioni delle manovre economiche inflattive (taglio alle spese, riduzioni di emissioni di titoli e monete). [torna all'inizio della pagina]
In Italia si è andata delineando una politica economica che, a partire dagli anni '80 (Finanziaria '86, governo Craxi), impone una politica di bilancio della spesa pubblica basata sul trasferimento dalle spese sociali (ticket sanitari, tasse universitarie, aumento prezzi dei trasporti) a quelle in conto capitale, per infrastrutture e trasferimento alle imprese (fiscalizzazione degli oneri sociali, contributi per l'innovazione e la ricerca, per l'imprenditoria giovanile, ecc.). Questa politica economica ha costituito un punto di svolta per l'economia italiana imponendo un attacco generalizzato alle condizioni di vita del proletariato per trasferire una parte del profitto ai grandi, medi e piccoli capitali italiani perché questi si potessero attrezzare per lo scontro che si andava delineando a livello internazionale tra i grandi capitali multinazionali. Negli anni '90 i grandi capitali internazionali - che premevano sull'economia mondiale per conquistarsi un'egemonia sui mercati nazionali e richiedevano che si rompessero tutti i margini di protezione delle economie nazionali - determinarono una rottura di tutti gli equilibri politici instauratisi dopo la Seconda Guerra mondiale. Questi equilibri politici si spezzarono nei paesi dell'est europeo, ma anche in quelli occidentali e, in particolare, in Italia dove attraverso Tangentopoli si posero le basi per la trasformazione dell'economia e il riadeguamento della forma Stato, anche se con un processo contraddittorio non ancora concluso. in questo contesto che in Italia la politica di Welfare State sta cambiando in un modello neoliberista basato sull'aumento dello sfruttamento per accedere ai servizi sociali, assicurati in passato attraverso le spese sociali. Lo smantellamento del Welfare State si sta delineando attraverso le riforme di settori sociali quali: sanità, previdenza, scuola e università, ministero del lavoro, trasporti, poste, beni culturali, ecc., ma anche attraverso l'incentivazione del "terzo settore" che, insieme alle famiglie, si fa carico di sostituire lo Stato nell'ambito assistenziale. La riforma sanitaria, che trasforma le USL e gli ospedali in aziende, razionalizza le risorse a loro destinate eliminando USL e ospedali non "produttivi" e istituendo l'assistenza privata all'interno degli ospedali; permette inoltre l'ingresso dei privati nel settore attraverso l'integrazione sanitaria, riorganizza il rapporto di lavoro dei dipendenti e inserisce il volontariato per l'assistenza. La riforma della scuola si attuerà attraverso l'autonomia scolastica, l'aziendalizzazione delle scuole, con conseguenti tagli alle scuole con minor numero di alunni, l'ingresso delle aziende private (fondi) nelle scelte dei programmi scolastici per la formazione, aumento dei costi di iscrizione, stage aziendali degli studenti nelle imprese, riorganizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti. Questa riforma prevede inoltre agevolazioni fiscali per le scuole private gestite dalla chiesa e altri enti che esercitano un peso ideologico nella formazione del consenso sociale. La riforma dell'università, che si realizza attraverso l'autonomia universitaria e cioè la possibilità di autonomia finanziaria per gli istituti universitari, consente l'ingresso delle imprese per la formazione e la ricerca scientifica, l'utilizzo degli studenti nelle aziende sotto forma di stage aziendali. Le conseguenze sono una riorganizzazione del rapporto di lavoro, l'aumento delle tasse universitarie, la ridefinizione degli assegni e delle borse di studio nonché l'utilizzo degli studenti nel lavoro part-time per il riordino delle attività universitarie. Nel contesto delle politiche sociali tuttavia non sono da trascurare anche altri settori che prima integravano il salario attraverso l'agevolazione delle tariffe, basti pensare alla trasformazione delle aziende di trasporto, delle poste, degli enti culturali, ecc. Le contraddizioni sociali determinate dal modello post-fordista aprono la strada allo sviluppo di settori quali il volontariato gestito da enti "non profit" o da associazioni volontarie che sostituiscono lo Stato nel Welfare State. Settori che, in questo periodo, hanno un riconoscimento politico ed economico sempre maggiore e che si attrezzano per una penetrazione sempre più massiccia all'interno della società. Infatti nel futuro questi organismi avranno contributi dallo Stato, da enti locali o dalle associazioni imprenditoriali che ne ridefiniscono la struttura (vedi proposta Assolombarda-Regione Lombardia, Facoltà di solidarietà Bocconi) in termini di efficienza e di miglioramento nella gestione delle risorse. Il disciplinamento di queste strutture consente da un lato l'utilizzo del lavoro volontario e dall'altro la canalizzazione del consenso sociale. Lo smantellamento del Welfare State pone inoltre le basi affinché le donne si facciano carico di colmare il vuoto lasciato dallo Stato nel settore dell'assistenza, considerato che nelle fasi di crisi sono le prime ad essere espulse ed escluse dal processo produttivo. Questo avviene sia nell'ambito familiare sia attraverso l'impiego nel "terzo settore" dove le donne sono la maggioranza e dove le attività delle donne proletarie vanno dall'assistenza agli anziani, agli handicappati, ai bambini... La forma Stato si riadegua anche nell'aspetto sovrastrutturale, nel modo in cui si esprime il potere politico delegato a governare la formazione economico-sociale nell'attuale fase di sviluppo del capitale. Gli organi dello Stato che esprimevano la democrazia formale del sistema fordista-keynesiano assumono ruoli nuovi nell'assetto strategico del capitale. Il potere esecutivo sussume in sé molti poteri che prima erano detenuti dal potere legislativo, attraverso passaggi avviati negli anni '80 e oggi giunti a un livello di maturazione. Questa ristrutturazione si è espressa sinteticamente attraverso l'esautorazione del Parlamento come ambito politico decisionale, la forte esecutivizzazione, il rafforzamento dei poteri del Presidente della Repubblica, lo spostamento di gestione del potere e della fiscalità locale verso regioni e enti locali, ecc. Si è accentuato il peso del Governo nelle decisioni legislative attraverso la crescente emanazione di decreti legge, disegni di legge e ponendo la questione di fiducia sulle questioni più urgenti, facendo leva sulla crisi di Governo e sulla crisi dei partiti che non riescono ancora a darsi una forma adeguata alla nuova fase. Dopo Tangentopoli gli elementi determinanti nelle decisioni relative alla politica economica del Governo sono stati i sindacati, la Confindustria e altre forze corporative che rappresentano gli interessi della borghesia, che hanno sostituito il Parlamento nell'espressione del consenso a queste scelte. Anche le scelte in altri campi sono determinate dal potere esecutivo, facendo leva sull'urgenza e sulla snellezza dei provvedimenti; questi processi naturalmente non sono stati lineari e hanno innescato contraddizioni all'interno della borghesia. Il Governo è così diventato la camera di compressione in cui sono presenti i rappresentanti di varie fazioni della borghesia mentre il Parlamento, in quanto organo legislativo, ha progressivamente perso il suo ruolo decisionale a causa dello spostamento di potere verso gli organismi sovranazionali, il Governo, il Presidente della Repubblica, le autonomie locali, ecc. Le forze politiche di minoranza sono state ridimensionate da regolamentazioni parlamentari, (regolamentazione dell'ostruzionismo, voto palese in materia economica) e dal cambiamento del sistema elettorale per l'elezione dei parlamentari. Nello stesso tempo il ruolo assunto dal Presidente della Repubblica nell'influenzare le decisioni del Parlamento, del Governo e della Magistratura è diventato determinante nell'assetto istituzionale: quello che in passato era un ruolo solo formale si sta tendenzialmente trasformando in una nuova forma istituzionale (presidenzialismo o semipresidenzialismo). Anche nelle diverse istituzioni di autonomia locale il potere si sta complessivamente spostando verso l'organo esecutivo a scapito di quello assembleare: è il caso delle regioni, delle province e dei comuni, che in questi anni hanno visto trasformarsi il loro sistema elettorale (vedi dibattito sul federalismo). Le leggi approvate in questi anni stanno snellendo anche l'apparato burocratico: si veda l'accorpamento di Ministeri con l'abolizione di alcuni di essi, la nascita di nuovi Ministeri (Ministero della famiglia), l'istituzione dell'Antitrust e dell'Autority. Ci sono delle modifiche anche per quanto riguarda l'apparato repressivo: valgano come esempio l'invio dell'esercito in Campania, Sicilia, Calabria e Sardegna con funzioni di ordine pubblico e "lotta alla criminalità organizzata", la costituzione della Superprocura Antimafia, ecc. Nella Magistratura l'introduzione di ulteriori modifiche dopo quelle già avvenute (il nuovo Codice di Procedura Penale, l'istituzione del Giudice di pace, la Superprocura) ha dato vita a molte contraddizioni che, in questo momento, si stanno esprimendo con lo scontro tra potere politico, avvocati e Magistratura. All'interno di queste complesse trasformazioni la forma-partito va assumendo un nuovo volto, che si manifesta attraverso lo snellimento degli apparati e un rapporto diverso tra dirigenti e base, un rapporto basato sul "consenso" al programma politico attraverso i mass-media e l'eliminazione dei passaggi di consultazione della base, che caratterizzavano i partiti di massa. La figura del "leader" assume un ruolo determinante per l'espropriazione del "consenso", al programma politico basato su valutazioni congressuali si sostituiscono parametri determinati da sondaggi di opinione realizzati dai mass-media. [torna all'inizio della pagina]
Il capitale, per realizzare il ciclo di valorizzazione, ha il costante bisogno di ristrutturare la produzione attraverso l'impiego di nuovi mezzi di produzione e l'introduzione di tecnologie più avanzate. Tuttavia le nuove tecnologie e i nuovi mezzi di produzione devono essere associati a un generale processo di riorganizzazione del lavoro che ha l'obiettivo di snellire il processo produttivo, adeguandolo ai mezzi di produzione, realizzando così una maggiore intensità del lavoro e una più razionale utilizzazione della forza lavoro impiegata. L'innovazione tecnologica aumenta la capacità produttiva delle industrie finalizzate alla realizzazione dei mezzi di produzione; ciò non avviene per le industrie produttrici di beni di consumo, qui l'innovazione tecnologica determina espulsione di forza lavoro perché, in questo caso, l'innovazione del prodotto non avviene automaticamente. Negli anni '80, sull'onda della seconda crisi di sovrapproduzione di capitale, è stato avviato un processo di ristrutturazione dei mezzi di produzione attraverso l'introduzione di nuove tecnologie che ha avuto come effetto massicce espulsioni di forza-lavoro dalle fabbriche, solo parzialmente riassorbita nei nuovi settori produttivi e nel terziario. Caratteristica di quegli anni fu che le imprese destinate alla realizzazione dei mezzi di produzione innovativi automatizzarono solo i propri settori di produzione; i robot infatti vennero utilizzati nella produzione di altri robot o dei componenti elettronici, i sistemi esperti in quella degli automatismi avanzati, le procedure biotecnologiche nella fabbricazione di nuovi materiali o di nuove molecole. Le innovazioni tecnologiche, a breve termine, hanno incrementato l'impiego della forza-lavoro nei settori automobilistico, aeronautico, macchine per ufficio; per i settori tradizionali c'è stata una sostituzione della forza lavoro con le macchine (macchine specializzate in componentistica elettrica ed elettronica). Nei settori di innovazione tecnologica (produzione di macchine e impianti) si è visto, in una prima fase, un incremento di produttività. L'introduzione di quelle stesse tecnologie, all'interno delle industrie di produzione di beni di consumo ha avuto un effetto sostitutivo di manodopera, salvo che nelle imprese ad alto livello innovativo. Nei 19 paesi dell'OCSE nei settori dell'informatica, nell'elettronica di consumo e negli impianti di telecomunicazioni, nonostante i grandi investimenti pubblici e privati realizzati, l'occupazione totale è regredita di 69.000 unità; solo nella prima fase si è avuto un aumento, seguito poi da massicce perdite di posti di lavoro. Gli anni '90 hanno visto poi l'ulteriore definizione del processo di riorganizzazione quando, per contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto, il capitale ha realizzato una generale ridefinizione delle relazioni industriali, con effetti devastanti sulla composizione di classe e sul mercato del lavoro che ha accentuato drammaticamente i processi già avviati di flessibilizzazione e precarizzazione della forza-lavoro. Il passaggio al nuovo modello di organizzazione del lavoro si realizza attraverso il superamento di alcuni elementi fondanti il vecchio modello taylorista-fordista, non più adeguato alle nuove esigenze del capitale. Si tratta tuttavia di un processo ancora in atto che procede per aree e per settori e che vede convivere, talvolta all'interno della stessa fabbrica, vecchie e nuove modalità produttive. Per esempio nel settore dell'auto, un settore che è stato trainante per le nuove modalità produttive, nelle semi-periferie di recente industrializzazione (Messico, Indonesia, Brasile e, più di recente, la Cina) l'organizzazione del lavoro di tipo tradizionale è ancora molto diffusa e si presenta ancora come modello abbastanza efficace per esportare i metodi di produzione capitalistici. La produzione fordista era caratterizzata da un'organizzazione del lavoro razionalizzata e centralizzata, che si fondava sulla catena lineare secondo il principio "un uomo una mansione" e da una struttura aziendale burocratica e fortemente legata al territorio. Questo modello, all'interno del quale la rigidità soggettiva e oggettiva della classe giocava un ruolo fondamentale, si rivelava inadeguato ad affrontare le sfide poste dalla generalizzazione della crisi capitalistica, dall'accentuata concorrenza intercapitalistica e dalla necessità di abbassare i costi di produzione per restare competitivi su un mercato che aveva assunto dimensioni globali. La risposta data dalla borghesia imperialista individua nella flessibilità lo strumento-cardine su cui si articola il nuovo modello di relazioni industriali, uno strumento che, dopo una prima applicazione nella realtà di fabbrica, si è esteso in seguito a tutti i settori lavorativi. La flessibilità, che impone un modello di impiego "duttile" della forza-lavoro, può essere: numerica, e cioè utilizzazione della forza-lavoro a seconda delle necessità produttive, funzionale, intesa come facilità di spostare il personale all'interno dell'unità produttiva affidandogli mansioni diverse e infine salariale, attraverso la subordinazione del salario operaio alla produttività. Uno dei passaggi essenziali è stata la riorganizzazione del lavoro dalla catena lineare ai sistemi di montaggio modulari "in rete" o a "isole produttive". In FIAT questo processo è stato condotto per fasi e l'anello intermedio è stato individuato nel CM (cellular manifacturing), che si basa sull'organizzazione del processo produttivo per cellule, sorta di ministabilimenti autonomi ai quali viene affidata un'intera porzione del processo produttivo. Questo modulo consiste nell'utilizzo combinato di macchinari eterogenei e lavoratori polifunzionali in grado di seguire l'intera sequenza produttiva di famiglie omogenee di prodotti e si propone sostanzialmente uno snellimento dei flussi produttivi, incorporando il controllo di qualità all'interno stesso del processo produttivo. In FIAT nella "campagna per la qualità totale" è stato espulso anche un numero consistente di impiegati, quadri, dirigenti, rappresentanti proprio della tecnostruttura burocratica addetta alle funzioni di controllo, comando, programmazione, logistica, ecc. resi obsoleti dal nuovo modello produttivo. La coazione viene integrata nel processo produttivo e il sapere operaio incorporato nel processo di lavoro e attivato come controllo interno sulla qualità del prodotto. Contrariamente a quanto vanno "decantando" gli ideologi della qualità totale, nella fabbrica integrata la soggettività operaia rimane sempre una merce finalizzata alla produzione di merci e subalterna alle decisioni prese da un ristretto management. Inoltre, l'importanza che l'elemento umano ancora riveste nel modello post-fordista rende quest'ultimo particolarmente vulnerabile e lo espone a rischi che ne mettono in luce le intrinseche debolezze e contraddizioni: il just in time (scorte zero) rende vulnerabile il sistema e lo espone anche a crisi di origine periferica; l'impostazione stessa del modello produttivo rende poi il sistema dipendente dai movimenti della forza-lavoro e nel concreto sono emerse (vedi per esempio a Melfi) le grosse contraddizioni esistenti fra il livello di propaganda di impresa e la realtà produttiva che ripropone, in ultima analisi, un sistema egemonico, funzioni meramente esecutive, compressione dei tempi e parcellizzazione delle funzioni. evidente quindi che questo modello di relazioni industriali, nel quale il ruolo giocato dall'elemento umano rimane essenziale per ammissione stessa dei suoi ideologi, non è in grado di dare una risposta alla contraddizione principale di questa formazione economico-sociale che è quella tra capitale e forza-lavoro. I motivi alla base della conflittualità di classe non sono stati superati ma, al contrario, traggono nuovo impulso dalla situazione di crisi. Sono le stesse contraddizioni interne al meccanismo capitalistico che impongono al capitale, in questa fase di crisi, di riorganizzare il mercato del lavoro introducendo al suo interno forti elementi di flessibilità, nell'obiettivo di ottenere l'utilizzo più intensivo della forza-lavoro e incrementare il saggio di profitto. Le prime avvisaglie di questo processo si erano già evidenziate nei primi anni '80, ma è negli ultimi anni che si sono definiti con maggior chiarezza gli strumenti più efficaci per la realizzazione di tale obiettivo. In questa riorganizzazione, il quadro che viene a delinearsi è quello di un nucleo di lavoratori "stabili" intorno al quale si estende l'area di coloro che li integrano o li sostituiscono attraverso rapporti di lavoro flessibili. Il massiccio utilizzo dei contratti di formazione, del part-time, l'introduzione del lavoro nei week-end, il lavoro a domicilio... rispondono alla flessibilità necessaria al modello produttivo dominante, che richiede un "esercito industriale di riserva" marginale e disponibile da cui attingere a secondo delle esigenze, anche temporanee, delle aziende. Nei decenni precedenti questo "serbatoio di manodopera" veniva utilizzato per sostituire forza-lavoro (turn-over) e/o integrare all'interno della produzione i lavoratori in modo stabile proprio in funzione della rigidità di quel processo produttivo. La rigidità e la stabilità creavano i presupposti per una coesione tra i lavoratori, che potevano collettivamente rivendicare garanzie e conquiste per il miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita della classe. Quello che va a configurarsi oggi è un'organizzazione del lavoro strutturata sulla precarietà e sulla flessibilità dei soggetti, quindi sulla necessaria disponibilità totale e generale di questa forza-lavoro, completamente slegata e svincolata dalla concezione del lavoro come occupazione stabile e garantita.1 A subire questa trasformazione non sono solo i lavoratori dei reparti produttivi ma anche quelli dei servizi. Il cambiamento delle relazioni industriali, sancito dall'accordo del luglio '93, sta modificando, anche se lentamente, l'organizzazione del lavoro anche nella pubblica amministrazione. Infatti i contratti, siglati dai sindacati con l'ARAN (Agenzia per la Rappresentazione Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni) nella parte generale, sia economica che normativa, sono simili a quelli del settore privato, questo dimostra che le condizioni lavorative, anche se con differenze, tendono ad assomigliarsi. Ha sicuramente pesato, all'interno di questo processo, la modificazione dei rapporti di forza - e non solo sullo scenario italiano - fra borghesia imperialista e proletariato che vede quest'ultimo attestato su posizioni di debolezza. La situazione di subalternità, vissuta dalla classe in questa fase, peggiora sempre di più le sue condizioni di vita e di lavoro, che si esprimono attraverso la diminuzione dei salari (-2,1% nel '95), precarietà, flessibilità, cassa integrazione, mobilità, aumento degli infortuni sul lavoro (7.731 morti nel '95) dovuti all'aumento dei ritmi e alla mancanza di sicurezza. In Italia la tendenza alla razionalizzazione del mercato del lavoro viene ulteriormente sancita dagli accordi sul costo del lavoro del '92-'93. Il processo di riorganizzazione della produzione presuppone la ristrutturazione del mercato del lavoro su più livelli: -- primo impiego (giovani alla ricerca del primo posto di lavoro; in questo settore gli elementi più significativi delle tendenze in atto sono senz'altro il massiccio utilizzo dei contratti di formazione lavoro e l'introduzione del salario d'ingresso); -- collocamento, del quale si prevede una riforma definita all'interno del "pacchetto Treu"; -- ricollocamento (i lavoratori espulsi dai centri produttivi e, recentemente, dal terziario, vedi i licenziamenti determinati dalla ristrutturazione della IBM, Olivetti e anche delle piccole aziende, quelli in mobilità o i cassintegrati). Il mercato del lavoro, così strutturato, risponde alle esigenze del capitale che sono quelle di una maggiore flessibilità e mobilità della forza-lavoro con la conseguente eliminazione di qualsiasi residua rigidità della classe, la sua frammentazione e precarizzazione che creano un clima di concorrenza al suo interno. A fronte di ciò ci sono state delle risposte da parte della classe, che, seppur attestate su posizioni difensive, creano comunque delle contraddizioni. Pertanto la borghesia se da un lato taglia lo stato sociale, dall'altro impiega mezzi di dissuasione per ammorbidire il conflitto: per esempio con il ricorso agli ammortizzatori sociali, che negli ultimi anni sono stati impiegati in modo massiccio.2 Questa ristrutturazione ha portato ad una profonda modificazione dei contratti di lavoro: l'imprescindibile necessità del capitale di utilizzare al massimo gli impianti (in Italia si stima una percentuale di utilizzo del 93,8) ha determinato una radicale riorganizzazione dell'orario di lavoro che viene distribuito temporalmente con diverse modalità di dilatazione o di compressione. I contratti utilizzati dalle imprese, che hanno in comune l'utilizzo in modo elastico della forza lavoro, sono i contratti a termine, il flexitime...3 In Europa, l'utilizzo, nel settore dell'industria e nel terziario, della forza-lavoro nel week-end e a domicilio è abbastanza diffuso. I dati rilevati fino al '93 mettono in evidenza che l'utilizzo della forza-lavoro il sabato ammonta a 40,7% dei lavoratori dipendenti. In Italia la percentuale è alta: cioè il 56,1%, solo in Gran Bretagna il dato è più rilevante: il 56,9%. Invece per il lavoro alla domenica la media europea è del 21,3%, quella dell'Italia è del 17,5% (la più bassa in Europa). Questo fenomeno (che è aumentato negli ultimi due anni), dimostra che (visti gli ultimi accordi sindacali) i tempi di impiego della manodopera sono sempre più flessibili. Anche per quanto riguarda il lavoro a domicilio i dati rilevati fino al '93 vedono in Europa un utilizzo del 7,5% e in Italia del 3,6%. Queste percentuali sono sicuramente in difetto, visto che in alcuni settori (confezione, ecc.) viene impiegata un'enorme quantità di forza lavoro a domicilio "in nero" che non viene rilevata dalle statistiche perché fa parte dell"'economia sommersa".4 L'espulsione della forza-lavoro, sebbene funzionale alla riproduzione del sistema, pone tuttavia una serie di problemi, sia in termini di contraddizioni sociali sia, per quanto riguarda l'investimento di capitali, per incrementare l'estrazione di plusvalore dal lavoro vivo. La borghesia tenta di risolvere queste contraddizioni utilizzando varie strategie. Sono due le strade principali seguite dai paesi europei: da una parte rendere più flessibile il mercato del lavoro, dall'altra istruire un'adeguata formazione per i lavoratori che svolgeranno lavori specializzati. In molti paesi si stanno siglando contratti che prevedono riduzioni dei tempi di lavoro e del salario; turnazioni della forza lavoro concentrate in periodi della settimana per utilizzare tutti i 6 o 7 giorni, turni di lavoro notturno, il part-time. L'utilizzo del lavoro part-time sta guadagnando terreno: nel '94 la media è stata del 15% del totale della forza-lavoro. Nei paesi europei, con molti accordi collettivi, il salario reale si determina a livello dell'impresa e c'è una riduzione dei salari minimi, riduzione di oneri sociali per le imprese, ad esempio anche attraverso tassazioni ecologiche. In Germania, grazie alla concertazione sociale tra Governo, Associazione degli Industriali del settore automobilistico e IG-Metall, si è giunti alla definizione di un accordo che dovrebbe creare 2 milioni di posti di lavoro e che ricalca il modello Volkswagen e cioè: riduzione delle ore di lavoro straordinario, apertura di "conti ore" di lavoro in più, moderazione salariale (aumenti tra l'1,1 e il 2%), riduzione da parte del governo delle spese statali e dei contributi sociali, accesso più facile, per le piccole e medie imprese, al credito e agevolazioni fiscali. Il contratto Volkswagen è basato sulla flessibilità assicurata da una programmazione annuale del lavoro all'interno di un "corridoio" di 28,8/38,8 ore settimanali, dal lunedì al venerdì, dalla programmazione dei sabati lavorativi, dal lavoro straordinario durante la settimana e anche il sabato (lo straordinario viene pagato il 30% in più delle ore ordinarie rispetto al 50% in più pagato in precedenza), dall'orario flessibile di lavoro nei settori indiretti non legati ai turni. Il pagamento del salario sarà per 28,8 ore, l'operaio della Volkswagen potrà utilizzare in tre modi le ore di lavoro in più: farsele pagare nell'arco di un anno, ottenere "tempo libero", oppure versare il corrispettivo sul suo fondo pensionistico. Le pause sono ridotte da 5 a 2,5 minuti per ogni ora, per i settori non produttivi 1,2 ore in più a settimana non retribuite. Inoltre si prevede entro il 2000 una riduzione di personale da 100.000 a 87.000 unità attraverso il blocco del turn-over e i prepensionamenti. L'accordo siglato alla Pirelli di Bollate (una delle più importanti industrie del settore gomme-auto nel mondo situata nell'hinterland milanese) tra sindacati e impresa, prevede: la produzione a ciclo continuo e quindi a 21 turni lavorativi, 4 giorni di lavoro (compresa la domenica) e 2 di riposo su 3 turni di 8 ore, assunzione di 60 addetti con contratto di formazione-lavoro e lavoratori in lista di mobilità. Gli attacchi assestati dal capitale con la piena collaborazione dei sindacati confederali, approfondiscono sempre di più le condizioni di sfruttamento della classe. Questa, pur continuando a manifestare la propria resistenza, non riesce a trovare uno sbocco unitario alle lotte e mobilitazioni messe in campo. Concorrono a ciò fattori d'ordine diverso ma principalmente la notevole frammentazione del corpo di classe, l'assenza di un'istanza di ricomposizione politica nonché gli effetti della concertazione sociale che, attraverso le politiche di raffreddamento e la legge 146 contro lo sciopero nel pubblico impiego, hanno ingabbiato il conflitto stesso. [torna all'inizio della pagina]
Alla luce dei processi sinteticamente delineati, e che configurano un quadro di affermazione e consolidamento delle politiche neoliberiste, sembra emergere anche una qualità nuova che caratterizza in questa fase il ruolo del sindacato confederale. All'inizio degli anni '80, successivamente alla svolta dell'EUR, la contraddizione fra le politiche adottate dai vertici confederali e la base dei lavoratori si è andata gradualmente accentuando fino a svuotare le confederazioni sindacali di un ruolo effettivo di rappresentanza e difesa degli interessi di classe. Non si può d'altro canto sottovalutare che, con l'esaurirsi della fase di espansione capitalistica (chiusasi a metà degli anni '70), sono andate deteriorandosi le stesse basi strutturali su cui poggiavano le politiche riformiste, ponendo in crisi il ruolo di mediazione del conflitto tradizionalmente svolto dal sindacato. E la crisi stessa, infatti, che elimina ogni possibilità e spazio reale alle politiche socialdemocratiche che erano state funzionali al mantenimento della stabilità sociale nell'occidente capitalistico durante tutta la fase di espansione e sviluppo successiva al secondo conflitto mondiale. Allora lo sviluppo economico improntato sul modello di crescita fordista richiedeva il sostegno rappresentato dalle politiche keynesiane sul versante della domanda e c'erano spazi di agibilità per l'attuazione di politiche riformiste che, attraverso la mediazione e la contrattazione, erano funzionali al meccanismo di accumulazione. E stata dunque la dinamica strutturale della crisi di sovrapproduzione di capitale, con la tendenza alla caduta dei margini di profitto, a imporre nuove politiche di ristrutturazione produttiva che hanno oggettivamente compresso, quasi fino ad annullarli, gli spazi di agibilità delle politiche di mediazione dei sindacati. Di fatto la perdita del ruolo di difesa degli interessi di classe da parte del sindacato risulta speculare alla sua assunzione di un ruolo di cogestione delle politiche neoliberiste grazie alle quali Confindustria ed esecutivi vanno imponendo nuove relazioni industriali incentrate sulla riduzione del lavoro vivo, sul progressivo aumento di produttività, flessibilità e mobilità dei lavoratori, ecc. Nel quadro di tali politiche lo stabilimento FIAT di Melfi costituisce a tutt'oggi l'applicazione più compiuta del nuovo paradigma produttivo post-fordista in Italia. La stessa localizzazione degli impianti in un'area periferica rispetto alle grandi concentrazioni industriali è funzionale all'intento di determinare una condizione di isolamento di quella struttura produttiva ai fini di minimizzare le "possibilità di contagio della lotta di classe" (secondo l'immagine dei "prati verdi" cara ai dirigenti FIAT). Il cambiamento della natura di classe del sindacato, nient'affatto nuovo ma ormai giunto a un livello notevole di maturazione, si è sviluppato parallelamente alla trasformazione dei partiti della sinistra istituzionale che, nel corso degli anni '80, dal riformismo sono approdati alla liberaldemocrazia, diventando in tal modo soggetti attivi nello sviluppo e nell'applicazione delle politiche neoliberiste. Nei processi di modificazione degli assetti istituzionali l'adesione al neoliberismo che riflette peraltro una dinamica presente in tutti i paesi occidentali - ha significato per la sinistra parlamentare, e in particolare per il PDS, l'assunzione di una responsabilità diretta nel processo di riforme istituzionali che ha condotto alla nuova legge elettorale, con il passaggio dal sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario. Tali modificazioni dovrebbero prefigurare anche per l'Italia un quadro istituzionale integrato al modello occidentale di "democrazia compiuta", vale a dire eliminazione virtuale di qualsiasi opposizione di classe, gestione autoritaria del consenso e pacificazione sociale. D'altra parte il processo di globalizzazione capitalistica comporta una recrudescenza delle contraddizioni fra le diverse frazioni di capitale transnazionale, contraddizioni che tendono a restringere i margini di manovra dei singoli gruppi imperialisti spingendoli a scaricare sulla classe operaia e sul proletariato i costi della crisi. Lo scenario in cui si muove il processo di integrazione europea riflette chiaramente la coesistenza di due tendenze: una alla coesione del polo europeo per partecipare al processo di globalizzazione, l'altra alla divisione fra paesi forti e paesi deboli all'interno del polo stesso. In campo sociale l'annullamento delle politiche riformiste implica un'accentuazione della pressione esercitata dalle singole frazioni di capitale sulla classe operaia e il proletariato, sottoposti a un costante attacco alle condizioni di lavoro e riproduzione. Come abbiamo già cercato di mettere in evidenza, la situazione italiana mantiene specifici caratteri di anomalia dovuti per un verso all'instabilità della gestione economica e politica da parte dei diversi gruppi della borghesia imperialista italiana (e dei governi che si sono succeduti nel corso degli anni) e per l'altro alle risposte che il movimento di classe ha dato, di volta in volta, alle politiche antiproletarie. In altre parole, la borghesia italiana non è riuscita nel suo intento di pacificazione della classe e di azzeramento dell'antagonismo proletario: i processi di lotta e di autorganizzazione della classe operaia e di altri settori consistenti di lavoratori si sono succeduti, manovra dopo manovra, attacco dopo attacco, nel tentativo di respingere i colpi delle politiche liberiste e di difendere le conquiste sociali ottenute in decenni di battaglie di classe. Si può affermare che il contesto di classe italiano non ha mai permesso fino in fondo la cooptazione operaia alle scelte padronali e che, in tutte le fasi, il rapporto capitale/lavoro si è caratterizzato per l'opposizione agli attacchi che venivano mossi alle conquiste dei lavoratori. Dalle contestazioni di massa al sindacato confederale che hanno caratterizzato le lotte dell'autunno 1992 - sviluppatesi in un contesto anche europeo di proteste operaie e proletarie contro il generale peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro imposte da Maastricht - alle decine di blocchi, picchetti, manifestazioni spontanee o organizzate, è andato sviluppandosi un diffuso movimento di reazione all'attacco padronale in cui la composizione operaia è stata senza dubbio determinante. All'interno di tale movimento la critica al sindacato ha costituito, e costituisce, un filo rosso che lega le diverse fasi delle lotte e che trova la sua rappresentazione più compiuta nella manifestazione di Firenze dell'autunno '93: la classe operaia e i lavoratori colpiti dalle manovre economiche hanno individuato, in quella come in altre occasioni, nei vertici sindacali, sostenitori di tali politiche, la loro diretta controparte. A partire dalla metà degli anni '80, all'interno del movimento di classe, iniziano peraltro a coagularsi alcune forme organizzate che costituiranno i primi COBAS nel settore pubblico dei servizi e successivamente all'interno stesso delle grandi fabbriche. I comitati di lotta formatisi nelle grandi fabbriche (Alfa di Arese, Pomigliano, Ansaldo di Napoli, FIAT di Torino, ecc.) rappresentano il collante e il catalizzatore delle lotte contro le manovre antiproletarie del governo e dei sindacati confederali. Accanto a queste prime forme di autorganizzazione prendono corpo altre esperienze organizzative come le RdB, la CUB (FLMU, ecc.). L'insieme delle espressioni di lotta, autorganizzate e non, definisce un movimento economico-rivendicativo che si forma intorno alla difesa delle condizioni di riproduzione della classe attaccate dal capitale e delle conquiste effettuate in passati cicli di lotta. La contestazione del movimento di classe, riducendo progressivamente il livello di rappresentanza e legittimazione del sindacato confederale, ha chiarito sempre meglio il ruolo di questa istituzione, costringendo i vertici confederali a tentare un'operazione di rilegittimazione prima attraverso i Consigli unitari, successivamente con le RSU. Questi organismi, costituiti dal ceto politico e quindi non espressione diretta dei lavoratori, hanno cercato di rilanciare un percorso di "sinistra" sindacale, scontrandosi tuttavia con l'impossibilità di misurarsi realmente con lo scontro di classe in atto e di offrire risposte concrete e praticabili alle richieste poste dalla base operaia. Il processo al cui interno maturano tali fenomeni, pur essendo alquanto contraddittorio dentro il sindacato e nelle sue relazioni con la classe, ha espresso movimenti di lotta anche molto radicali e prolungati, come la lotta condotta dagli operai dell'Enichem di Crotone. Di fronte all'ipotesi di CIG a zero ore per 333 dipendenti unilateralmente decisa dall'azienda, i lavoratori occupano lo stabilimento e incendiano i depositi Enichem in una mobilitazione che coinvolge l'intera comunità mentre i media scatenano una campagna di condanna di quegli episodi, espressione dell"'intemperanza operaia e meridionale". La campagna ottiene tuttavia l'effetto contrario a quello perseguito dal momento che una serie di manifestazioni analoghe si susseguono, a catena, su tutto il territorio nazionale (Oto Melara, Sardegna). La vicenda dell'Enichem di Crotone costituisce senza dubbio uno degli esempi più significativi degli effetti prodotti dalla politica liquidazionista e opportunista del sindacato: infatti l'accordo siglato dopo settimane di mobilitazione non sposta di una virgola gli obiettivi aziendali e utilizza un insieme di misure tipiche della fase di ristrutturazione: CIG, contratto di solidarietà e mobilità lunga (63 CIG, 220 contratti di solidarietà, 80 lavoratori in mobilità lunga). Altrettanto significativo è stato il ciclo di lotte contro la riforma del sistema previdenziale, lotte sviluppatesi dall'autunno '94 fino alla primavera del '95. Questo ciclo di lotte, che ha avuto nella grande manifestazione del 13 novembre '94 il suo punto di mobilitazione più alto, ha ribadito l'impossibilità di dare uno sbocco positivo alle richieste avanzate dai lavoratori se non si mette radicalmente in discussione il quadro generale in cui si collocano le politiche economico-sociali dei governi espressi dai gruppi della borghesia imperialista. Mentre da una parte questi movimenti economico-rivendicativi rappresentano indubbiamente un elemento positivo in quanto espressione dell'aggregazione e dell'opposizione di classe alle politiche della borghesia imperialista, dall'altra essi non possono che mostrare i loro limiti nel superamento di una logica settoriale incapace di spezzare il quadro generale delle compatibilità e di rappresentare gli interessi generali della classe. Questi cicli di lotte esprimono in definitiva la contraddizione dell'attuale fase politica, che vede l'accentuazione delle contraddizioni nei paesi imperialisti, e quindi un'oggettiva polarizzazione dello scontro di classe e, parallelamente, un rallentamento dell'attività rivoluzionaria su scala internazionale. Per affrontare la questione dell'attuale movimento di classe in Italia e valutare correttamente i rapporti di forza esistenti, è indispensabile, a nostro avviso, mettere in evidenza alcuni passaggi che hanno caratterizzato lo sviluppo dello scontro di classe nel nostro paese negli anni '70 e '80. In Italia nel contesto delle lotte operaie dell'autunno caldo del '69 le avanguardie dell'autonomia di classe hanno dato vita a un progetto politico complessivo che si era posto l'obiettivo della presa del potere politico e dell'apertura di una fase di transizione al socialismo. Tale progetto, centrato sulla rottura teorico-politica con le posizioni opportuniste del revisionismo, si articolava su una serie di punti che rispondevano alla lettura più avanzata delle contraddizioni presenti in quella fase politica sullo scenario nazionale e internazionale. Per tutti gli anni '70 e in parte negli anni '80 quest'avanguardia rivoluzionaria, attraverso una strategia adeguata al livello più alto delle contraddizioni che andavano evidenziandosi, ha esercitato un'influenza determinante sugli sviluppi dello scontro di classe in Italia. E innegabile che il grado di maturità raggiunto dal livello dello scontro ha sedimentato un patrimonio che nella sua complessità e radicalità influenzerà lo sviluppo del movimento di classe nel nostro paese e nello stesso tempo condizionerà nel futuro i modelli di gestione del conflitto da parte dello Stato. Una conferma del carattere profondamente strategico di quella esperienza si è avuta negli anni '80 quando il progressivo smantellamento della composizione dell'unità di classe (necessario ai fini della riorganizzazione delle relazioni industriali e politiche dettate dalla crisi) fu condotto, da parte della borghesia imperialista, attraverso l'eliminazione delle avanguardie rivoluzionarie (ricorso alla tortura, eliminazione fisica, carcerazione speciale) allo scopo di cancellare qualsiasi anello di congiunzione che mantenesse unito il proletariato al suo percorso storico. Infatti, solo con una classe frantumata e sulla difensiva, la borghesia imperialista italiana avrebbe potuto attuare i processi di ristrutturazione con costi minimi determinati dal ridimensionamento del conflitto di classe. Nel nostro paese le avanguardie rivoluzionarie sono riuscite a mantenere aperto lo scontro per circa vent'anni, articolandolo nel corso di più fasi politiche fino alla fase che abbiamo appena delineato, una fase caratterizzata da un'offensiva a tutto campo della borghesia imperialista. Tuttavia, per un insieme complesso e intrecciato di fattori riconducibili da un lato all'oggettivo modificarsi dello scenario internazionale e nazionale e dall'altro a problemi soggettivi dovuti alla difficoltà ad agire come avanguardia in un contesto generale qualitativamente diverso (nonostante fossero stati individuati alcuni elementi strategici quali il salto di globalizzazione, la collocazione internazionale dell'attività rivoluzionaria, ecc.), il movimento rivoluzionario ha subito nell'attuale fase un pesante ridimensionamento. Questo fattore, unitamente ad altri, contribuisce alla definizione dell'attuale stato dei rapporti di forza e delle relazioni fra le classi nel nostro paese. Ciò che appare evidente oggi nei centri imperialisti, e nello specifico in Italia, è la sfasatura fra il progressivo peggioramento delle condizioni economiche, politiche e sociali che investono la classe nel suo insieme e le difficoltà ad avviare una ripresa del movimento di classe su contenuti politico-strategici. Sono molteplici quindi i fattori, soggettivi e oggettivi, che concorrono a determinare l'attuale quadro dei rapporti di forza fra le classi in Italia. Di questi, due ci sembrano tuttavia particolarmente indicativi: l'indebolimento dell'avanguardia rivoluzionaria, che ha determinato una situazione di disgregazione e di perdita di riferimenti strategici per l'intero movimento di classe e ne ha ridotto gli spazi di autonomia e i complessi processi di riorganizzazione del lavoro che segnano il passaggio dall'organizzazione fordista-taylorista del lavoro al nuovo paradigma produttivo che definiamo, per convenzione, post-fordista. La riorganizzazione del lavoro e, conseguentemente, delle relazioni industriali costituisce senza dubbio l'elemento essenziale dei processi di trasformazione dei sistemi produttivi di cui la riduzione del lavoro vivo rappresenta l'anello fondamentale. Questa, con la flessibilità e la mobilità della forza-lavoro, determina un graduale processo di scomposizione e la frammentazione del corpo di classe. In una situazione in cui il dibattito di movimento si presenta frazionato e con evidenti difficoltà di circolazione, il primo passaggio da affrontare è senza dubbio quello di stringere le fila della discussione con l'obiettivo di individuare, nel confronto fra le diverse componenti politiche, alcune idee-forza che mettano a fuoco i nodi teorico-politici indispensabili per avviare oggi un processo di ricomposizione delle avanguardie, un obiettivo che ci sembra essenziale e al quale riteniamo si debba iniziare a lavorare. Crediamo che gli elementi fondamentali da cui partire siano la riaffermazione della centralità della classe operaia in rapporto all'intero corpo del proletariato e l'assunzione della dimensione internazionale dei processi rivoluzionari in questa fase. Quanto al primo aspetto va sottolineata la necessità di effettuare un'analisi puntuale dell'attuale composizione di classe che, sulla base degli strumenti teorico-politici del metodo materialista-dialettico, riesca ad enucleare le trasformazioni determinate nel corpo di classe dalla nuova organizzazione del lavoro. Si tratta di un passaggio essenziale per la definizione degli elementi fondanti un futuro programma rivoluzionario. Non si è infatti ancora prodotta, come patrimonio complessivo del movimento di classe funzionale alla ripresa dell'attività proletaria e rivoluzionaria, un'analisi compiuta delle profonde trasformazioni indotte sul corpo di classe dalle dinamiche di riorganizzazione produttive, sociali, politiche e culturali. E questo senza dubbio uno dei nodi da sciogliere per giungere all'individuazione degli elementi fondanti un programma politico che consenta la ripresa di una reale opposizione di classe ai progetti di ristrutturazione della borghesia imperialista. La ricomposizione delle avanguardie costituisce quindi il primo, essenziale gradino del processo di riaggregazione dell'autonomia di classe: è in questa direzione che intendiamo operare ben consapevoli che questo obiettivo di fase non esaurisce la complessità dei compiti che attendono il movimento rivoluzionario nel futuro. COMITATO INTERNAZIONALISTA OTTOBREPer contatti scrivere al |