QUADERNI DI CONTROINFORMAZIONE N.18 - FEBBRAIO 1995

CONTRO GLI ACCORDI DI SCHENGEN COSTRUIAMO UNA RETE ANTIRAZZISTA EUROPEA

Collettivo Politico di Sociologia - Napoli

PREMESSA

Erano anni che a Napoli un collettivo universitario non produceva un documento di questa natura. Difatti esso è il frutto di un dibattito che nel collettivo si è sviluppato per alcuni mesi, all'interno del quale si sono affrontate questioni tra le più varie e che ci ha consentito di stabilire una base politica comune sulla quale costruire la nostra iniziativa politica presente e futura.

Prima di tutto la riflessione e la discussione su quello che è stato il movimento studentesco napoletano dello scorso anno nel suo complesso ci ha posto dinanzi agli occhi l'arretratezza ed i grandi limiti del movimento stesso, non tanto rispetto alle sue rivendicazioni, che per la loro natura erano di tipo strettamente economiche, ma per la sostanziale incapacità di inserirle nel più generale contesto della ristrutturazione della società e quindi dell'università. Quando proprio dall'università potrebbero provenire le riflessioni più ampie sulle attuali tendenze trasformative articolate sia sul piano locale che su quello globale. Non stiamo solo parlando di una carenza di analisi teorico-generale ma anche, e soprattutto, della mancanza di progettualità politica che ne deriva.

Quindi una situazione di stallo sul piano della propositività nel medio lungo periodo, che però convive con una più o meno consistente attività organizzativa nel breve periodo, come ad esempio le numerose iniziative su varie questioni (Chiapas, prigionia politica, immigrazione etc.) o come l'elevata capacità di mobilitazione di piazza che il movimento ha dimostrato di avere nei momenti di scontro più duro dello scorso anno.

Quello che ci proponiamo come collettivo di Sociologia è di contribuire a riaprire, tra coloro che si muovono all'interno dell'università, un dibattito il più ampio possibile su tematiche generali per recuperare la progettualità e la continuità, ovvero la capacità di far sedimentare le lotte ed i loro contenuti per una crescita del movimento nel suo complesso. Un passaggio necessario questo per la ripresa di un'iniziativa politica articolata che dia un ruolo attivo nelle lotte portate avanti dal movimento antagonista, non solo studentesco, al soggetto universitario.

Questo documento vuole essere un primo nostro contributo tangibile a tale dibattito. Difatti la scelta dell'argomento è caduta su una questione che in questo momento è sentita fortemente sia fuori che dentro l'università.

Il fenomeno dell'immigrazione per la sua stessa natura ci consente di evidenziare alcuni aspetti delle trasformazioni occorse in questi anni che a nostro avviso ci sembrano fondamentali:

1 - lo spostamento di molti ambiti decisionali basilari dell'economia e della politica dal piano nazionale a quello sovranazionale (macroregionale come UE, NAFTA etc. o globale come G7, FMI BM).

2 - il mantenimento da parte dello stato nazione di margini di manovra autonoma dagli organismi sovranazionali e di come quindi la realtà economica e sociale sia frutto del rapporto dialettico che intercorre tra dimensione nazionale e sovranazionale.

3 - il movimento antagonista non può non tenere conto di tali trasformazioni e quindi deve adeguare i propri strumenti (teorici, politici, organizzativi) a tali nuovi livelli.

Per questo un'analisi del fenomeno migratorio non può essere effettuata considerando esclusivamente i suoi aspetti più "visibili".

Le condizioni di sfruttamento e miseria, a cui sono sottoposti la gran parte degli immigrati in occidente non sono che il lato più tangibile di un fenomeno più generale, che trova le sue cause nelle dinamiche di ristrutturazione del sistema economico capitalista.

per questo motivo che il lavoro si svilupperà con particolare attenzione in primo luogo alle cause economiche e sociali dei flussi migratori su scala internazionale (Effetto PUSH).

In secondo luogo all'effetto di richiamo (Effetto PULL), che i paesi sviluppati hanno sui flussi migratori internazionali in relazione alle caratteristiche del mercato del lavoro degli stessi paesi sviluppati.

In terzo luogo all'analisi della situazione legislativa che attualmente regola il fenomeno immigrazione in Italia.

La comprensione dei processi di ristrutturazione su scala planetaria rende necessario un passaggio relativo alla durissima crisi, che colpisce il sistema di produzione capitalistico iniziata a cavallo tra gli anni '60 e '70.

Napoli 31/1/1996

Collettivo di Sociologia

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LA CRISI

La crisi è un elemento fondamentale ed intimamente connesso allo sviluppo capitalistico, in quanto la borghesia, considerata sia nel suo insieme (come classe contrapposta al proletariato) sia nelle proprie lotte intestine per l'appropriazione individuale del plusvalore accumulato (inteso come parte del valore in merci creato attraverso lo sfruttamento del proletariato mondiale), tende nei periodi di recessione a distruggere le conquiste (in termini di redistribuzione più egualitaria della ricchezza socialmente prodotta) ottenute nei tempi di ripresa dalle classi lavoratrici, e a rimodellare in modo continuo la struttura stessa (produttiva, organizzativa, etc.) del sistema capitalistico in risposta alle tensioni cui esso è sottoposto, sia dai limiti del sistema d'accumulazione, sia dall'insorgenza delle rivendicazioni redistributive delle masse proletarie, che tendono a limitare il tasso di plusvalore accumulato dal sistema.

Secondo Marx la crisi, come elemento strutturalmente connesso al modo di produzione capitalistico, poteva essere di due tipi:

1 - Crisi di sproporzione tra diversi settori produttivi, p.e. tra settore dei beni durevoli e quello dei beni di consumo, che porta ad una ripartizione sproporzionata del plusvalore tra i due o più settori dell'economia e quindi impedisce il realizzo completo del plusvalore estratto e ripartito all'interno dei due settori.

2 - Crisi di sovrapproduzione (o di sotto consumo) legata alla bassa capacità recettiva del mercato rispetto alla capacità produttiva;

2a - Una tipologia diversa (analizzata dalla parte della sovraccumulazione di capitale e plusvalore) della crisi di sovrapproduzione si lega alla incapacità di investire tutto il plusvalore estratto, vuoi per aspettative negative per il futuro, vuoi per la scarsa ricettività del mercato.

La crisi di tipo ottocentesca, che si potrebbe definire come la crisi tipica del "capitalismo concorrenziale'', tende a differire da quella attuale rispetto alle dinamiche tra prezzi delle merci e livelli produttivi.

Fino alla crisi del '29, che a questo riguardo può essere considerato uno spartiacque, nei periodi di crisi, se vi era sovrapproduzione e relativa insolvenza di questa, i prezzi delle merci tendevano ad abbassarsi così da tenere costanti i rapporti tra livello dei prezzi e quello delle merci prodotte, e non portando così alla comparsa di fenomeni di tipo inflativo, che erano superati tramite l'adozione di politiche deflative sull'offerta di moneta, basate sull'idea tipica dell'economia classica (e neo-classica), che l'offerta di moneta, in quanto merce alla pari delle altre, non ha altro compito, che quello di agevolare la velocità degli scambi e che nei periodi di crisi quando si riduce la velocità degli scambi ed il valore di essi si devono diminuire sia la quantità di moneta disponibile sul mercato, sia il valore in prezzi delle merci, in modo più o meno proporzionale alla caduta del livello della produzione.

Il collegamento tipico del capitalismo concorrenziale tra livello dei prezzi e livello della produzione si rompe in seguito alla crisi del '29 portando alla comparsa di fenomeni inflativi anche in periodi di recessione. Infatti dopo l'introduzione di politiche economiche legate agli schemi teorici keynesiani (dove la moneta non è una merce come le altre ma una merce che produce ricchezza attraverso gli investimenti produttivi ed in conto capitale) si continua a privilegiare il livello della domanda del sistema e non quello dell'offerta.

La dinamica dei prezzi diviene infatti autonoma rispetto a quella della produzione creando possibili situazioni di compresenza di dinamiche inflative e periodi di recessione, resi ancora più acuti dalle lotte scatenate dalle masse proletarie per mantenere intatto il proprio potere di acquisto, innescando la famosa spirale tra livello dei prezzi e quello dei salari.

Oltre a questa discussione rapida e veloce sulla crisi in generale per discutere sulle dinamiche attuali del fenomeno migratorio, si deve fare anche un'analisi un po' più profonda dei mutamenti avvenuti negli ultimi anni nel sistema socio-economico mondiale partendo da un'analisi del modello fordista, che è stato il modo di regolazione del capitalismo dominante dopo la fine della 2 guerra mondiale.

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IL SISTEMA FORDISTA

E' fondamentale, per capire l'attuale fase di sviluppo (e crisi) del modello della regolazione dell'accumulazione capitalistica, partire dall'analisi del modello fordista, che è stato il modello principale nel periodo seguente la II guerra mondiale.

Il fordismo, come modello di sviluppo sociale e come modo di regolazione dell'accumulazione di capitale, è un modello basato su forti rigidità, sia a livello produttivo (la catena di montaggio) sia sociale (regolazione del rapporto salariale, erogazione dei servizi-sanità, educazione) ed era caratterizzato da:

1 - Fiducia nella possibilità di uno sviluppo illimitato ed armonioso tra livello delle forze produttive e quello dei consumi e la possibilità di una relazione politica (il mitico "piano del capitale"), che unisca il loro sviluppo, aggiungendo ai livelli dei salari reali quello del salario indiretto dato dalle assicurazioni sociali garantite dalle politiche keynesiane.

2 - Contrattazione collettiva (e nazionale) del salario e delle condizioni lavorative, con conseguente rafforzamento della funzione politica delle formazioni sindacali.

3 - Adozione di politiche di welfare per garantire la riproduzione sociale di tutti i soggetti sociali, anche quelli più emarginati, allo scopo di assicurare stabilità sociale al sistema dell'accumulazione di capitale, con il conseguente aumento dei livelli di indebitamento statale (in modo particolare dopo la crisi a cavallo tra gli anni '60 e '70), e l'uso politico del bilancio statale, che vuole determinare allo stesso tempo stabilità sociale, spinta investiva e piena occupazione.

4 - Crescita del settore dei servizi, che diviene sempre più importante nel campo economico sia attraverso i servizi alla persona, che quelli all'azienda.

5 - Modificazione del rapporto tra banche ed industrie, che divengono sempre più complementari, uscendo dal modello della banca mista (investimento e deposito) tipico del modello tedesco.

6 - Mutamento della funzione dello stato nel governo della pianificazione economica (redistribuzione del reddito, riequilibrio della domanda interna, sostegno alle dinamiche economiche e agli squilibri occupazionali) che diviene una funzione più o meno "operativa", mentre prima era solo "indicativa".

7 - Creazione di modelli di partecipazione economica da parte dello stato. Nel periodo post-bellico, attraverso le politiche keynesiane ed il vantaggio della totale ricostruzione del mercato internazionale (Piani Marshall per l'Europa e Mac Arthur per il Giappone) si crea una sorta di circolo virtuoso tra aumento del tasso di accumulazione ed aumento del tasso salariale reale.

Tutto ciò porta ad una nuova fase di accumulazione basata:

A) sull'innovazione tecnologico-organizzativa, che aumenta il tasso di plusvalore relativo (ottenuto attraverso l'aumento del livello di intensità del lavoro per addetto) estorto per lavoratore;

B) sull'aumento del tasso globale di domanda da parte del sistema, attraverso l'aumento del tasso di salario reale e alla creazione (o al rafforzamento) di quel sistema di assicurazioni sociali, che si definiscono come Welfare state, che veniva finanziato attraverso politiche fiscali, "basate" su tentativi di adottare aliquote di tassazione progressive sul reddito.

La possibilità di poter attuare le politiche keynesiane, poteva esistere solo se la base fiscale tassabile fosse abbastanza ampia e ricca da poter finanziare le spese dei sistemi di Welfare, e se vi era una crescita continua ed armoniosa tra livello dei tassi di incremento di produttività e quello dei tassi salariali, per poter continuare il circolo virtuoso della fase iniziale dell'accumulazione fordista.

La politica di espansione della domanda (sia di beni, sia da parte del governo), la politica di pieno-impiego (per la parte tutelata della popolazione), e il costo economico della funzione assistenzialistica dello stato poterono coesistere (ed esistere) fino a quando si poterono assicurare livelli di occupazione tanto alti da assicurare la continuità delle politiche di pieno impiego e della stabilità del sistema. Inoltre fu possibile accettare una reale contrazione dei profitti fino a quando la reale egemonia americana non fu messa in discussione dalla competizione delle altre rinascenti economie capitaliste.

Negli anni sessanta la competizione internazionale, che era inesistente nel periodo dell'immediato dopoguerra, per lo stato di distruzione delle economie europee e giapponesi causato dalla 2 G.M., tendeva ad erodere la posizione di egemonia dell'economia USA, anche grazie agli investimenti del governo statunitense (piani di ricostruzione) e, soprattutto, grazie agli investimenti delle Imprese Multinazionali (I.M.).

Le multinazionali utilizzavano questi investimenti, sia per gli elevati tassi di profitto degli stessi, sia per avere la possibilità di spostare capitali verso l'estero allo scopo di evitare la forte imposizione fiscale, attraverso vari metodi. Infatti le I.M., in nome del proprio profitto personale, tendevano così a rompere la stabilità del sistema fordista, rifiutando di pagare i costi sociali, in termini di imposizione fiscale, e cercando anzi di spostare i propri capitali in zone dove avevano trattamenti fiscali migliori.

A livello internazionale durante il Fordismo si viene infatti a rafforzare la divisione assiale della divisione del lavoro su scala planetaria (se si escludono i paesi dell'area socialista), che portava ad un incremento dei trasferimenti di materie prime (o materie semilavorate) e capitali dalle periferie verso il centro, e di merci lavorate dal centro alle periferie.

Questa divisione assiale del lavoro serviva ad assicurare ai paesi centrali la possibilità di poter finanziare i costi sociali del proprio modello di sviluppo (keynesiano/fordista), drenando risorse e capitali verso il centro (attraverso la legge dello Scambio Ineguale), e la fiscalizzazione dei guadagni delle imprese multinazionali.

Si crea cosi una situazione di dipendenza strutturale tra paesi centrali e periferici, che provoca una fase di (sotto)sviluppo per questi ultimi, che sono costretti ad abbandonare ogni tentativo di nazionalizzazione (o di creazione di una economia nazionale) favorendo l'espansione (che a volte avviene anche grazie a raccolte di capitali nei mercati finanziari degli stessi paesi periferici) delle I.M.

E' molto importante mettere in luce rispetto all'acuirsi della crisi del modello fordista sia il ruolo delle lotte per l'indipendenza, che avevano attraversato tutto il periodo fordista (dall'Algeria al Vietnam), sia soprattutto l'acuirsi della concorrenza internazionale per alcuni settori produttivi degli stessi paesi centrali a causa dei paesi dl nuova industrializzazione (o N.I.C.s - Newly Industrial Comers), le quali industre avevano dei costi per addetti (e quindi per unità di beni) notevolmente più bassi delle aziende dei paesi centrali appartenenti allo stesso settore produttivo.

Questo avviene perché molti paesi avevano adottato, per propria scelta(Giappone), o per imposizione internazionale (Brasile), il modello fordista in modo parziale, in particolare rispetto l'organizzazione del lavoro, ma non per quanto riguarda la regolazione del rapporto salariale e le politiche di welfare (si parla infatti secondo Lipietz per i N.I.C.s di una sorta di "fordismo periferico").

Negli anni '70 per i N.I.C.s (trainati dai paesi dell'O.P.E.C.) si crearono per la caduta della concorrenzialità dei paesi centrali, causata tra l'altro dall'aumento del costo del lavoro, dalla presenza di periodi recessivi e aspettative molto forti rispetto alla possibilità di una redistribuzione più equa della ricchezza mondiale.

Essi cercavano di controllare il mercato delle materie prime (e semilavorate) e di pagare attraverso le esportazioni di esse i debiti contratti attraverso istituzioni come FMI (Fondo Monetario Internazionale) e BM (Banca Mondiale) per la propria industrializzazione, e di avviare produzioni nazionali in sostituzione alle importazioni di beni manufatti, per i quali dipendevano dai paesi centrali.

Questo modello negli anni '70 ebbe ragione di esistere solo grazie a quella che viene definita come la "gestione socialdemocratica" della crisi (Lipietz) adottata dai paesi europei negli anni '70, che legava la ripresa non ad un sostegno all'aumento della produzione ma al sostegno dei livelli di consumi di beni, che erano importati dai N.I.C.s a causa della caduta della produttività ed alla scarsa concorrenzialità delle produzioni industriali dei paesi centrali, ed alla rilocalizzazione industriale su scala planetaria iniziata a cavallo degli anni '70.

Nell'analisi della crisi del modello fordista è un avvenimento importante l'innalzamento del prezzo del greggio deciso da parte dell'O.P.E.C. (che porta da un lato ad un ulteriore aumento dei tassi di inflazione nei paesi centrali, già colpiti dalle ripetute svalutazioni del dollaro), che fece aumentare il costo della produzione per addetto (già colpito dall'alto costo del lavoro).

Questa strategia inflativa, che già colpiva i salari reali della classe lavoratrice attraverso le varie svalutazioni a catena delle monete principali (come ci insegna la storia monetaria degli anni '60) genera (come strategia della massa lavoratrice che non vuole far abbassare ancora i livelli dei salari reali) il tentativo di annullare attraverso aumenti salariali e la richiesta di un'indicizzazione dei salari al costo della vita (che in Italia si avrà in forma blanda solo nel 1983 coll'istituzione della ormai fu Scala Mobile) gli effetti dell'inflazione, scatenando una lotta tra i livelli salariali e quello dei prezzi, che venne definita come la spirale prezzi-salari, e che era una delle cause scatenanti del rafforzamento della stagflazione (Stagnazione + Inflazione), che era vista come la causa della caduta di concorrenzialità delle economie fordiste.

Questo portò alla fine dell'intervento diretto dello Stato nell'economia nazionale ed alla ristrutturazione dell'apparato statale fordista in senso liberista (o per utilizzare un termine alla moda Neo-liberista), attraverso i tagli delle spese statali non direttamente legate al sostegno dell'accumulazione di capitale ma direttamente legate alle possibilità di sostegno per la riproduzione delle classi sociali più deboli.

L'aumento del greggio portò allo stesso tempo anche ad un perdita del livello di competitività internazionale dei N.I.C.s, perché, mentre l'aumento del prezzo del greggio causò un aumento dei prodotti manufatti (a causa delle manovre inflative), il costo delle altre materie prime restò uguale a quello del periodo precedente all'aumento del prezzo del greggio.

Il risultato di tutto fu che si costrinsero in questo modo i N.I.C.s ad indebitarsi sempre di più grazie alla forbice creatasi tra i prezzi delle materie prime e quello dei prodotti manufatti (tecnologie) necessari al sostegno dei propri processi di industrializzazione.

Non fu certamente solo l'aumento delle prezzo del greggio (che si può vedere come espressione fenomenica della crisi) a causare la crisi e la ristrutturazione del sistema mondiale dell'economia, vi furono altre cause legate ad esso (la politica di rifiuto dell'imposizione fiscale delle I.M., i costi crescenti dei modelli di welfare, le lotte per la decolonizzazione, la competizione economica internazionale fra USA, CEE e Giappone, l'instabilità economica internazionale causata dalle svalutazioni delle monete forti) che accelerarono la crisi del modello fordista.

La crisi seguente allo "shock petrolifero" fu però (nel quadro della crisi del fordismo) importantissima, poiché diede vita ad una serie di dinamiche socioeconomiche, che provocarono tra l'altro:

1 - La ristrutturazione degli apparati produttivi attraverso l'introduzione massiccia di innovazioni basate sulla tecnologia informatica, (Rivoluzione Scientifico-Tecnologica) per recuperare il calo dei profitti e quello della competitività su scala internazionale, che ebbe ripercussioni soprattutto sui livelli occupazionali e quelli retributivi (come ben esemplifica il caso italiano negli anni '70). Vi fu anche una ristrutturazione organizzativa, sia a livello di divisione interna del lavoro (con l'introduzione dei circoli di qualità e del modello toyotista, anche se ciò e è avvenuto per le economie occidentali solo negli ultimi anni), sia a livello di organizzazione spaziale del lavoro, attraverso il decentramento di singole fasi produttive, con pratiche come quello dell'indotto, ed in seguito le nuove forme di organizzazione spaziale del lavoro (Distretti industriali e l'organizzazione a rete) .

2 - Le politiche di tagli allo stato sociale e l'aumento delle spese sociali per il sostegno agli investimenti privati (la cosiddetta "Supply side economy" amata da Reagan) .

3 - L'aumento esponenziale del livello del debito dei N.I.C.s causato dalla loro perdita di competitività a livello internazionale.

4 - L'introduzione di nuovi modelli di divisione internazionale del lavoro, basati sul trasferimento del modello della catena di montaggio di una data produzione (p.e. automobili) su una scala globale delle singole produzioni, con conseguente specializzazione produttiva a livello regionale.

Questa fase di ristrutturazione globale dell'economia capitalistica, la cui entità in Italia si avverte solo negli ultimi anni per la strana commistione tra insorgenza operaia e malgoverno DC (+ PSI), ha portato la fine della fase fordista/nazionale dell'accumulazione di capitale e l'inizio di una fase di transizione basata sul concetto chiave di "FLESSIBILITÀ", che si contrappone al concetto chiave del fordismo, che è quello di "RIGIDITÀ".

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LA FASE DELL'ACCUMULAZIONE FLESSIBILE DEL CAPITALE

"Il sistema capitalistico nella fase dell'accumulazione flessibile si confronta in modo continuo con le rigidità del fordismo, e poggia su una certa flessibilità nei confronti di tutte le sue problematiche (processi produttivi, rapporto salariale, spesa sociale, etc.)" (D. Harvey, corsivo nostro).

In esso vi è la comparsa di nuovi settori produttivi (quello legato alle tecnologie informatiche come esempio chiave), di nuovi modi di essere di vecchi settori produttivi (quello dell'informazione nell'era della mondializzazione dei mass media) e di nuove configurazioni organizzativo-produttive, che ridislocano la produzione a livello mondiale e/o regionale, creando nuove regioni produttive, anche in zone prima sottosviluppate, e nuovi modi di produzione (Toyotismo, Distretti industriali, etc), e vi è soprattutto la comparsa di tassi più elevati di innovazione tecnologica, di riduzione del tempo di vita dei beni prodotti (rispetto ai beni durevoli, che erano la caratteristica tipica del fordismo), e della crescita del settore dei servizi, sia rivolti all'azienda sia rivolti alla persona.

Nell'analisi del ciclo economico ad accumulazione flessibile si deve porre l'attenzione:

A) sul tipo di crescita economica (o meglio sul tipo di ciclo), e sull'importanza della cosiddetta "economia di carta" legata alle transazioni monetarie tra i diversi poli economici;

B) sul tipo di forza lavoro impiegata (sul mercato del lavoro esistente o che si prospetta nel prossimo futuro);

C) soprattutto sui riflessi sociali di questo nuovo modello di (de)regolazione dell'accumulazione di capitale.

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A) IL CICLO ECONOMICO

Il ciclo economico nella fase ad accumulazione flessibile del capitale è caratterizzato da livelli bassi di crescita produttiva (tranne nei N.I.C.s) slegati dalla dinamica inflativa, cosicché questa crescita non tende a finanziare nuove fasi di sviluppo dell'intero sistema economico e non crea un grosso aumento del tasso occupazionale e salariale, che in percentuale resta più o meno costante.

Da un lato la ristrutturazione tecnologico organizzativa, che investe tuffi gli aspetti della vita sociale, porta all'abbassamento del costo del lavoro economizzando sia il costo del lavoro stesso sia il tempo necessario alla produzione dei dati beni e porta pure al miglioramento della possibilità di trasferimento delle varie produzioni su scala mondiale.

Il risparmio di quota di lavoro necessario e di tempo per ciclo produttivo non può essere utilizzato (ma soprattutto non si vuole utilizzare) per avviare l'espansione di nuove fasi di crescita, che servano a riassorbire Forza-Lavoro, nel ciclo produttivo, ma servono per assorbire la contrazione dei profitti, causata dalle politiche di welfare, che aveva caratterizzato la fase recessiva del ciclo fordista.

Proprio la sottoccupazione della forza lavoro è uno delle chiavi di volta dell'attuale ciclo economico, perché tramite il ricatto occupazionale, o quello della ridislocazione produttiva, gli imprenditori possono utilizzare (e costringere ad accettare) sistemi di impiego della forza lavoro basati sui modelli introdotti nella costituzione giuridica e non solo materiale della vita sociale, che si fondano sui principi della NON TUTELA e della FLESSIBILITÀ.

Tale sistema si può definire "Logistico-Manageriale" (legato ai singoli progetti di investimento, ed a alto tasso di profitto) e non "Progettuale" (legato ad progetti di investimento di lungo periodo ed a basso tasso di profitto), poiché la direzione degli investimenti è legata al tasso di profitto degli stessi e non al singolo campo di attività economico dell'azienda.

Tutto questo (il passaggio dalla fase "Progettuale" a quella "Logistico-manageriale") è legato soprattutto alla crescita del tasso di attività della cosiddetta "economia di carta" legata alla transazioni monetarie ed alle speculazioni sui titoli quotati nelle varie borse mondiali e crea situazioni di instabilità economica, poiché ogni possibile perturbazione dell'intero sistema sociale può provocare fughe di capitali verso investimenti meno pericolosi, come è accaduto in Messico nel dicembre 1994, dove a causa delle tensioni provocate dalla rivolta zapatista ci fu una fuga di capitali verso l'estero, che provocò una serie di piccole crisi a livello mondiale (causando il cosiddetto effetto "tequila").

In tale situazione diviene anche difficile collegare i differenti cicli economici delle varie economie nazionali, in quanto risulta difficile controllare i tassi di sviluppo (e della svalutazione/inflazione delle monete nazionali), come era invece possibile nel periodo fordista/keynesiano, dove i vari governi nazionali potevano intervenire sui tassi di sviluppo economico attraverso politiche inflative o deflative e concertare a livello internazionale il controllo del tasso globale.

I vari governi hanno perso la capacità di controllare i flussi economici nazionali, e quindi di regolare gli andamenti del ciclo produttivo nazionale e la redistribuzione delle ricchezze, non potendo regolare i flussi monetari globali (ed essendo loro succubi), poiché la maggior parte dei finanziamenti alle spese statali avviene attraverso il collocamento sul mercato di azioni od obbligazioni legate allo stato e che sono controllate dalla grande finanza mondiale. Questa viene aiutata dagli organismi sovranazionali (FMI-BM, G7), che cercano di creare l'ambiente giusto per gli investimenti di capitale, con i vari S.A.P. (programmi di aggiustamento strutturale), o attraverso il coordinamento globale tra le varie politiche (monetarie, del lavoro, etc.) elaborate dalle commissioni internazionali, legate al G7.

Solo attraverso le transazioni monetarie (legate alle dinamiche di svalutazione-inflazione delle monete nazionali dipendenti a loro volta dall'andamento dei vari cicli produttivi, che permettono la distribuzione di capitali attraverso speculazioni sui cambi) si potrebbe avere una sincronizzazione dei flussi delle maggiori potenze economiche (USA, Germania, Giappone), che permetterebbe ad esse la costituzione di una fase comune di regolazione dell'accumulazione di capitale, mentre già si è raggiunto, a livello globale, l'accordo sulle politiche sociali da adottare.

Un'altra delle caratteristiche principali dell'attuale fase, è quella che gli studiosi chiamano la "nuova crisi del debito", scoppiata intorno alla metà del 1982 con la dichiarazione di insolvibilità dei debiti internazionali, da parte del Messico prima, del Brasile poi.

Da questo avvenimento che gli studiosi fanno partire la rifondazione dei rapporti economici tra paesi centrali e periferici e della funzione politica del FMI BM, che si lega al nuovo ruolo politico-economico dei cosiddetti N.I.C.s .

Se prima i N.I.C.s erano quasi sempre solo paesi da cui drenare risorse, attraverso gli interessi sui debiti contratti con il FMI per sostenere il proprio sviluppo industriale, ora questi paesi sono divenuti luoghi ove delocalizzare produzioni, magari direttamente collegate alle materie prime presenti in loco, e sfruttare in modo intensivo l'ambiente, etc. Questi sono divenuti paesi dove le I.M. possono liberamente investire ed accaparrare ogni aspetto valorizzabile.

Negli anni '70 gli interessi sui debiti contratti nel periodo della crescita aumentavano sempre di più e continuavano a rappresentare per i paesi periferici una mannaia, di cui però a livello internazionale si teneva poco conto. Ciò avveniva perché i governi dei paesi centrali delegavano ai N.I.C.s la funzione stabilizzatrice (soprattutto contro "l'infezione comunista") e il compito di favorire l'afflusso continuo di materie prime verso il centro.

L'unione tra la crisi del modello fordista/keynesiano, l'insolvenza internazionale di molti N.I.C.s, la fine del modello di stabilizzazione internazionale creato dagli USA per favorire l'ascesa del capitalismo su scala globale, crea anche la fine dell'illusione dell'industrializzazione del terzo mondo e di un suo sviluppo endogeno, non controllato da parte dei paesi centrali, e la fine dell'idea di una transizione umana al capitalismo diversa dalla pianificazione socialista (la mitica terza via tra Capitalismo e Socialismo).

Negli anni '60 ed in parte negli anni '70 il FMI aveva principalmente il compito di regolare i conti internazionali (favorendo il deflusso di capitali verso il centro, e mostrando nei dati di far affluire risorse dal centro verso i paesi periferici), e di tenere sotto il controllo le economie di quei paesi (anche dell'area del blocco socialista vedi Cecoslovacchia-). Dopo la crisi del debito, o meglio la sua nuova forma, al FMI è stato affidato il compito di divenire una sorta di guardiano sovranazionale, trincerato dietro l'oggettività e l'obiettività del proprio ruolo di analisi e controllo, delle politiche sociali, economiche, dei paesi periferici.

Esso deve garantire la creazione di un giusto ambiente politico (ultra-liberista) per assicurare l'afflusso degli investitori dall'estero, ma anche la riduzione in termini brevi della quota dei debiti contratti, attraverso la terapia shock dei S.A.P. (piani di aggiustamento strutturale), che prevedono tagli alla spesa sociale, sgravi fiscali per gli investitori in particolare stranieri, abolizione di ogni divieto sulla completa mercificazione di ogni aspetto economicamente valorizzabile (in termini marxiani), contemporaneamente distruggendo i modelli di produzione tradizionali di tipo comunitario e favorendo la concentrazione monopolistica della terra (legata quasi sempre al modello della monocoltura in agricoltura dipendente dagli investitori esteri, che lavorano per il mercato mondiale), anche la dipendenza delle importazioni di cibo, che a loro volta possono in alcuni casi, anche se elargiti come doni da parte delle O.N.G., o dei vari programmi internazionali di cooperazione allo sviluppo distruggere i modelli produttivi tradizionali.

I S.A.P., insieme all'aumento della dipendenza internazionale per l'approvvigionamento di cibo possono, riducendo le spese per la prevenzione medica, far peggiorare le condizioni di vita di queste popolazioni ed in modo particolare dei soggetti deboli (donne, bambini ed anziani) e possono, coi tagli alle spese per l'istruzione pubblica o l'aumento dei costi per poterne usufruire, far cadere i livelli di alfabetizzazione di questi paesi.

Dall'altra parte questi S.A.P. hanno fallito il proprio scopo, come le manovre di tagli alle spese sociali condotte nei paesi centrali, non riuscendo a far diminuire la quota del debito globale, che in molti paesi, in modo particolare quelli più grandi (vedi Nigeria), è cresciuta ancora per l'ammontare degli interessi semplici e composti sui debiti precedentemente ottenuti. Ma anche e soprattutto per il passaggio del possesso dei debiti in mano agli investitori privati, che ha acuito ancora di più la situazione debitoria dei paesi periferici, e costringendo il FMI a varare un piano di aiuti (il Piano Brady), che ha spinto molti paesi periferici ad indebitarsi di nuovo (questa volta con il FMI) per poter pagare i debiti e inoltre costringendoli ad adottare i S.A.P. per poter avere accesso al finanziamento. Tutto ciò ha portato come unico risultato la caduta vertiginosa delle già misere condizioni di vita delle popolazioni dei paesi periferici.

Bisogna però chiedersi se il ruolo strategico dei S.A.P. fosse quello della riduzione del debito internazionale o quello della preparazione di ambienti di investimento tranquilli (più o meno pacificati? in modo particolare attraverso la repressione militare. che si è acuita in questi ultimi anni in molti N.I.C.s) per gli investitori internazionali? soprattutto riguardo la creazione di forza lavoro proletarizzata e schiavizzata a bassissimo costo attraverso la distruzione di tutti i modelli produttivi di tipo comunitario che .garantivano livelli di sussistenza per tutta la popolazione. I S.A.P., con i loro effetti di totale distruzione sui livelli di vita dei paesi periferici, sono forse uno degli aspetti di spinta (effetto PUSH) più forti dell'emigrazione internazionale di questi ultimi anni, che ha visto i flussi migratori dirigersi pure verso paesi, come l'Italia o la Spagna (visti come momento di passaggio verso altri paesi considerati più ricchi), che erano tradizionalmente paesi di emigrazione e non di immigrazione, e che ha visto quest'ultima, volontaria e cosciente, di forza lavoro specializzata e qualificata, costretta all'inurbazione dall'abolizione dei diritti consuetudinari, che garantivano l'uso comunitario della terra.

Nell'attuale fase del ciclo economico bisogna anche tener conto della creazione di sistemi produttivi sovranazionali, vedi la creazione ad arte del N.A.F.T.A. (North American Free Trade Agreement), o quella del Sud est asiatico, o la ristrutturazione di modelli sovranazionali (vedi UE).

Essi sono il tentativo da parte dei vari stati nazionali di creare zone produttive franche, dove poter sviluppare una omogeneità riguardo tutti gli aspetti della vita sociale, politica ed economica, nel tentativo di garantire un'uguaglianza soprattutto nelle condizioni di de-regolamentazione dell'accumulazione di capitale, e rendere più semplici (e profittevoli) le possibilità di investimento per il capitale transnazionale.

Nell'analisi dell'attuale fase economica è fondamentale parlare della bozza accordo per la creazione del W.T.O. (World Trade Organization) sulla regolazione dei rapporti produttivi e dell'accordo G.A.T.T. (General Agreement on Tariff and Trade - accordo generale sulle tariffe doganali ed il commercio), che lo ha preceduto.

Il G.A.T.T., nato come accordo temporaneo tra pochi paesi che sarebbe stato in seguito sostituito da un accordo generale chiamato I.T.O. (International Trade Organization), che non fu mai steso, aveva lo scopo di lasciare sviluppare il "libero commercio" ed abolire tariffe e dazi doganali, abolendo tutte le politiche protezioniste, che limitano il commercio internazionale.

Il G.A.T.T. si basa su tre principi ben definiti:

1 - Principio della non discriminazione, cioè dell'estensione dei vantaggi concessi tramite un trattato commerciale ad una nazione, anche alle restanti nazioni.

2 - Principio del trattamento nazionale, cioè che non debbano esistere differenze nel trattamento tra prodotti nazionali ed esteri.

3- Principio della lealtà negli scambi, cioè non devono esistere politiche di Dumping (discriminazione tra il prezzo per l'estero e quello nazionale per un dato prodotto), o iniziative di sovvenzioni alle esportazioni.

Il G.A.T.T. dopo una lunga serie di incontri è stato sostituito dal W.T.O., che mostra sensibili diversità. Negli accordi W.T.O. sono state incluse le "proprietà intellettuali", regolarizzando su scala globale problemi come quello del Copyright e della produzione intellettuale, che non riguarda solo le invenzioni, cioè l'ulteriore aumento della dipendenza tecnologica e finanziaria dei paesi poveri, rna anche la possibilità per un individuo o un gruppo industriale di brevettare sostanze di provenienza naturale o modelli produttivi tradizionali, costringendo le popolazioni a pagare per l'uso di materie prime, che nei loro paesi si trovano in abbondanza. Il W.T.O., contrariamente al G.A.T.T., le cui sanzioni erano legate solo alla sezione produttiva dove era sorta la controversia, ha anche la capacità di applicare sanzioni complessive ai paesi che non rispettano gli accordi. Ancora, il W.T.O. include la liberalizzazione, ed il libero movimento, di tutti i tipi di lavoro terziario (dal turismo alla produzione culturale e/o di informazioni), legato al settore dei servizi, visto come componente particolarmente importate dei modelli produttivi contemporanei e futuri.

Importantissima sempre nell'ambito degli accordi W.T.O. è l'imposizione negli accordi economici mondiali delle cosiddette clausole Ambientali e Sociali. Queste sono parti di accordi di cooperazione economica tra paesi, che impongono in modo molto "umanitario" la salvaguardia ambientale e la lotta allo sfruttamento delle categorie sociali deboli, in modo particolare per "impedire lo sfruttamento del lavoro minorile" (ben sapendo che per molte economie dei paesi poveri, questi rappresentano insieme alle donne la maggior parte della forza lavoro attiva).

Queste clausole in realtà sono tentativi di mettere ancora di più il freno alle economie tradizionali ed a quelle dei paesi poveri, dimenticandosi prima della diversità culturale (la concezione dell'infanzia e della salvaguardia ambientale non è uguale in tutto il mondo e quella occidentale, rispetto a questi due aspetti, è una concezione "eccentrica" rispetto al contesto) ma soprattutto facendo aumentare ancora di più per quanto riguarda la "tutela ambientale" (che non riguarda poi gli scarichi di rifiuti tossici utilizzando i paesi poveri o le zone sottosviluppate dei paesi centrali come l'Italia meridionale - come pattumiere del mondo, come ben ci ricorda la storia della Karin B e delle scorie tossiche sotterrate in Nigeria) la dipendenza tecnologica, e quindi economica, mettendo fuori causa produzioni nocive sì per l'ambiente, come quelli utilizzanti C.F.C. (cioè il gas colpevole del buco dell'ozono, insieme agli scarichi dei Jet) ma soprattutto, che non servono più alle economie dei paesi centrali. Mettendo fuori legge il lavoro minorile, si fa abbassare ancora di più il costo del lavoro e si innalzano sia lo sfruttamento cui sono sottoposti i minori, sia allo stesso tempo i profitti delle I.M.

Gli accordi W.T.O., seppur manchevoli in parti pur importanti come quelli sull'agricoltura, sono rilevanti poiché sembrano prospettare uno scenario in cui si cerca di ottenere la più completa libertà di movimento per fattori produttivi, come capitali e merci, ma non si parla dell'altro fattore produttivo importantissimo, che è poi la determinante chiave del costo di produzione, cioè la FORZA LAVORO.

La mobilità della forza lavoro tra i paesi centrali è vista come qualcosa di positivo (vedi accordi di Shengen per quanto riguarda l'Europa unita), mentre quella tra forza lavoro dei paesi periferici e quella dei paesi centrali rispetto ai movimenti di merci e capitali, non solo non è auspicata ma, stando a tutte le politiche sull'immigrazione (ancora gi accordi di Shengen), osteggiata completamente non per puro calcolo elettorale o per becero razzismo, ma perché i paesi centrali vogliono impedire deflussi di uomini atti al lavoro verso zone più ricche dove dovrebbero essere pagati ben più di quanto verrebbero pagati in patria, facendo così salire i costi di produzione.

E' in questa luce rigidamente economicistica che si devono leggere, più che le varie leggi nazionali contro l'emigrazione, gli accordi mastri di Schengen, che riflettono in modo emblematico questo dualismo tra gli inclusi nella fortezza Europa e gli esclusi da essa. Non bisogna comunque del tutto tralasciare, nelle leggi nazionali anti immigrazione, la forte presenza dei deliri razzisti derivanti dalle forze neoconservatrici nel caso italiano Lega nord ed AN/MSI e della lotta elettorale di altre forze politiche anche quelle progressiste come ci dimostra l'operato del PDS nella discussione parlamentare sulla legge Nespoli per conquistare ampi strati delle classi medie e/o sottoproletarie minacciati dalla crisi economica, viste come importante sponda elettorale.

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B) LA POSSIBILE CONFIGURAZIONE DEL MERCATO DEL LAVORO

Una delle caratteristiche principali dell'attuale fase economica è la scomparsa tendenziale della figura del lavoratore dipendente (più o meno) tutelato, che era la figura predominante del mondo del lavoro nella fase fordista, e da cui derivava, grazie alle contrattazioni collettive, la forza delle varie formazioni sindacali, e la sua sostituzione con un figura lavorativa non tutelata e costretta allo sfruttamento più duro, per poter esistere.

Si passa da un modello ad alto sfruttamento di lavoro fisico ma a bassa intensità di investimento di capitale per addetto, ad un modello ad alto sfruttamento di lavoro fisico, ma a intensità variabile di investimenti di capitale per addetto, poiché attualmente vi sono aziende ad alto tasso di investimento tecnologico organizzativo ed aziende a bassissimo tasso di investimento per addetto ed ad alto tasso di sfruttamento di lavoro fisico. Questa nuova figura nasce in modo particolare in presenza di forti livelli di ristrutturazione produttiva seguiti dalla creazione di modelli basati sulla piccola e media industria deregolata.

La caratteristica comune di questi nuovi modelli di organizzazione produttiva è la presenza di forza lavoro non tutelata e supersfruttata, tranne che nei punti più alti della catena produttiva (i lavoratori con funzioni creative e/o manageriali, quelli che S. Reich chiama "Analisti Simbolici").

In questa fase la maggior parte della massa dei lavoratori (sia "manuali", che "intellettuali", in modo particolare gli impiegati dei livelli bassi od intermedi che non hanno funzioni creative ma esecutive, cioè i cosiddetti "lavoratori ripetitivi") è in tendenza destinata ad avere continue esperienze di lavoro temporaneo, part time, sottopagato e non tutelato, lavoro nero, mentre solo una piccola parte resterà tutelata, ed anzi aumenterà la propria importanza.

Oltre a questo dualismo all'interno del mondo del lavoro dipendente vi sarà anche un gran numero di lavoratori autonomi, legati ad esperienze di autoimprenditoria, cui le aziende si rivolgeranno per evitare di pagare i costi previdenziali e quindi abbassare i costi di produzione, ma anche per mantenere un adeguato livello di flessibilità produttiva.

Il mercato del lavoro (in modo particolare nei paesi centrali) in futuro sarà diviso in :

1 - Un nucleo ristretto di lavoratori fissi, legati a mansioni manageriali o creative.

2 - Un grande nucleo di lavoratori a nero, a lavoro temporaneo o part time (categorie diverse ma non differenti in pratica).

3 - Un nucleo di lavoratori autonomi, usciti dal mondo del lavoro per scelta o perché cacciati dalla ristrutturazione e trasformati in forza lavoro de salarizzata e non tutelata.

4 - Un nucleo molto numeroso di forza lavoro schiavizzata, formata da immigrati provenienti dalle zone deboli del mondo e/o provenienti dalle zone povere dei paesi centrali, o da forza lavoro espulsa dal ciclo produttivo e che svolgeva mansioni ormai non più richieste (i cosiddetti "invendibili").

Il dualismo più accentuato nel prossimo futuro all'interno del mercato del lavoro sarà quello tra i cosiddetti "analisti simbolici", che saranno legati a mansioni di tipo manageriali e potranno in un certo qual modo scegliere le proprie opportunità di impiego, poiché lavoreranno in quelle parti del processo produttivo in cui la forza lavoro (in questo caso mentale) ancora non è stata sostituita dall'impiego di macchine telematiche, ed i lavoratori "ripetitivi", che diverranno sempre più lavoratori non tutelati e supersfruttati, che svolgono mansioni che possono essere sostituite dall'impiego di tecnologie informatiche che permetteranno il risparmio di forza lavoro; ed inoltre tra questi due settori e quello dei novelli "dannati della terra", che saranno costretti a barcamenarsi tra la marginalità sociale l'illegalità e l'ingresso saltuario nel mondo del lavoro. Infatti non sempre il mercato del lavoro neo schiavistico è formato solo attraverso la forza lavoro immigrata, ma lo è anche da forza lavoro locale (o nazionale) costretta ad accettare livelli salariali molto bassi a causa della ristrutturazione, come succede nel meridione italiano (vedi Napoli) o nelle grandi metropoli mondiali (Los Angeles, Londra, Parigi, etc.), o a causa della dequalificazione professionale, che colpisce in modo particolare i lavoratori dei cicli più bassi del modello produttivo fordista.

Per quanto riguarda la forza lavoro immigrata, sia nei mercati del lavoro dei paesi centrali, sia in quelli dei paesi periferici, si può fare uso del modello della stratificazione del mercato del lavoro. Secondo questo modello la forza lavoro immigrata (o marginale) non deve essere considerata sostitutiva di quella autoctona, sia perché viene posta sui gradini più bassi della gerarchia del mercato del lavoro (come accade in molti paesi come la Francia, Germania ed Inghilterra), sia perché la loro permanenza nel paese dove avviene l'immigrazione è di tipo temporaneo.

Questo modello teorico, che risente della matrice fordista tipica dell'epoca in cui è stato elaborato, da cui emerge il mito del "Vù cumprà", cioè dell'impiego della forza lavoro immigrata solo nei cosiddetti lavori "sporchi", mette però in evidenza a livello teorico una realtà empirica evidente sia nei mercati del lavoro dei paesi centrali, che in parte di quello dei paesi sottosviluppati, che è la stratificazione etnica e non solo professionale del mercato del lavoro.

Come si vede dalle recenti indagini la forza lavoro immigrata è una forza lavoro ad alto contenuto di Skills (attitudini), che non viene utilizzata solo in mansioni dequalificate (anche se vi sono i soliti casi noti degli ingegneri nucleari che vendono accendini o fazzoletti ai semafori delle nostre cittadini), ma vengono anche utilizzati in produzioni ad alti contenuti di Skills professionali, per continuare ad abbattere i costi di produzione ed anche il potere contrattuale della forza lavoro autoctona.

Il modello della segmentazione del mercato del lavoro presenta quest'ultimo scomposto in:

1 - un mercato primario per la forza lavoro autoctona tutelata;

2 - un mercato informale (o secondario) per la forza lavoro immigrata e/o non tutelata.

Il mercato informale della forza lavoro (dove si trova anche forza lavoro proveniente dalle zone sottosviluppate) garantisce al mercato del lavoro di assorbire certe rigidità del mercato primario (almeno nell'epoca fordista), ed interessa anche varie branche produttive di tipo artigianale o legato alla figura dell'Autoimprenditore (immigrato o autoctono), caratterizzate non necessariamente da bassi livelli di reddito ma da bassi livelli di tutela ed elevata mobilità lavorativa.

In questa fase nelle economie centrali la definizione tra mercato primario e secondario, da quando è iniziata la pratica dell'indotto (la rilocalizzazione di parti della produzione su scala locale ad imprese artigianali), e quella della subfornitura dipendente (rapporto produttivo tra grandi imprese e quelle artigianali su scala globale), tende a scemare ancora di più anche perché il tipo di forza lavoro impiegata nei due tipi di imprese tende a rassomigliarsi in modo più accentuato che in passato, e vi è il tentativo di rendere tutta la forza lavoro (anche quella legata al mercato primario) non tutelata e tende ad acuirsi ancor di più la tensione tra forza lavoro marginale, quella tutelata e quella immigrata, dando vita a fenomeni di recrudescenza razzista e fascista, rappresentati dai deliri neo-etnici tipici delle varie formazioni politiche regionaliste (Lega nord per l'Italia) e dai vari partiti neofascisti, che imperversano sulla scena politica mondiale. Tale modello serve a spiegare in modo più dettagliato la formazione tra segmenti etnici diversi del mercato del lavoro ed i loro rapporti sia esterni che interni.

Infatti la maggior parte degli studi sul mercato del lavoro nelle metropoli americane mettono in evidenza come all'interno dei mercati del lavoro locali si formino non solo comunità etniche di lavoratori, ma (come succede a New York) si forma una vera e propria divisione su base etnica del lavoro su base geografico-territoriale e soprattutto sulla base di una data attività economica in comune.

Difatti a New York il legame tra attività economica e localizzazione geografico-territoriale è molto stretto ed è legato anche alla natura etnica dei flussi di capitali, per esempio i capitali cinesi saranno investiti nel quartiere cinese dove predomina come attività la confezione di vestiti).

A livello del mercato del lavoro nei paesi periferici si può dire che esiste una polarizzazione tra l'attività manageriale ed il resto delle attività lavorative non tutelate, sia perché legate a condizioni lavorative schiavistiche (come nelle imprese delocalizzate), o perché minacciate dall'attacco alle condizioni tradizionali di riproduzione della forza-lavoro, che spinge enormi masse di popolazione all'urbanizzazione, attraverso il fenomeno definito delle "New Enclosures", che colpisce per esempio in modo massiccio le popolazioni africane.

Ma esiste una stratificazione etnica del mercato del lavoro, legata al mantenimento dello status quo coloniale, dove alcune etnie erano poste al primo posto della scala sociale, come e accaduto in Kenya per i Kikuyu, e come accade oggi in Ruanda.

In tutti i paesi occidentali le politiche del lavoro, introdotte o che si cerca di introdurre, tendono ad immettere anche nei settori ancora tutelati elementi di deregolamentazione dei rapporti lavorativi non di rado seguiti da abbassamenti dei livelli salariali, attraverso la concertazione sindacale ed il ricatto della competizione globale o della possibilità di ridislocamento dell'attività produttiva.

La ridislocazione produttiva su scala locale e mondiale, che non vuol certo dire minor concentrazione capitalistica, anzi la concentrazione del comando della produzione si addensa sempre più nelle mani delle I.M., porta contemporaneamente ad un globale indebolimento della capacità contrattuale dei lavoratori dipendenti tutelati, alla creazione di posti di lavoro temporanei e/o non tutelati, alla distruzione di ogni forma di sicurezza sociale, legata sia a modelli comunitari di messa in comune del reddito sia a politiche di welfare.

Ciò accade perché le capacità decisionali sui livelli produttivi e salariali, legati nel periodo fordista alle politiche di ogni singolo stato nazionale, sono stati estirpati da questo attraverso la concorrenza economica internazionale e i condizionamenti politici internazionali di organismi come FMI-BM e G.7, o a livello europeo UE o Maastricht.

Nell'attuale sistema economico i posti di lavoro tendono ad essere sempre a basso tasso di investimento di capitale per addetto ed a grande livello di sfruttamento per addetto e soprattutto sono lavori interinali, per cui il livello dei tassi occupazionali anche se cresce nel breve periodo (cioè a livello congiunturale), nel lungo periodo resta costante (anzi cala per la continua estromissione di forza lavoro tutelata dai processi produttivi), non riuscendo ad assorbire tutta la disoccupazione esistente nel sistema.

Quest'ultimo convive con alti tassi di disoccupazione strutturale e non frizionale, cioè legata alla scarsa mobilità dei lavoratori da un settore all'altro, come poteva accadere nella fase fordista, dove si utilizzavano operai semispecializzati per mansioni dequalificate.

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C) L'ORGANIZZAZIONE DELLA PRODUZIONE

Nella fase attuale dello sviluppo capitalistico non si può cercare di scorgere un modello predominante nell'organizzazione della produzione (materiale ed immateriale), difatti vari modelli coesistono anche nella stessa area e nella stessa unità produttiva.

Si può pero fare una discussione sul rapporto tra i modelli di sviluppo locale (ad esempio distretti industriali) e quelli globali, ma soprattutto sui rapporti tra queste due dimensioni produttive spaziali.

Infatti molte volte o si esagera col porre in primo piano l'aspetto globale e la quasi totale dipendenza dei modelli produttivi locali (Teoria della Divisione Internazionale del Lavoro), o viceversa si mette in evidenza la totale autonomia dei modelli di sviluppo endogeno, ma si dimenticano le compatibilità imposte dal mercato mondiale rispetto allo sviluppo economico dei modelli endogeni.

La teoria della divisione internazionale del lavoro nella sua versione originaria mostra una divisione spaziale della produzione su scala mondiale basata su un modello centro-periferia, costruito sulle esperienze della delocalizzazione industriale dai paesi centrali verso i paesi periferici. D'altra parte i teorici dello sviluppo endogeno mettono in evidenza la peculiarità delle date regioni, viste non come singoli agglomerati di entità produttive, ma come comunità (riprendendo il concetto di Distretto Produttivo) dove è la comunità sociale che permette l'evoluzione economica.

Alcuni economisti (Sabel e Piore) partono addirittura dal concetto di "Distretto industriale" per parlare di un nuovo modello di organizzazione della produzione basato sul concetto della "Specializzazione flessibile", da contrapporsi al modello fordista, dimenticando sia la possibilità della strutturazione di gerarchie mondiali tra diverse strutture produttive regionali, sia le intersezioni tra diversi tipi di organizzazione spaziale della produzione.

Così quando si parla di rapporti tra diverse regioni produttive e diversi modelli di organizzazione della produzione si devono cercare di capire, sia chi controlla la direzione dei flussi produttivi tra (e dentro) le varie regioni produttive (cioè se esiste una gerarchizzazione del mercato mondiale, o dentro le varie regioni produttive), sia il tipo di rapporti tra varie regioni produttive.

Ma vanno individuate anche le possibilità delle istituzioni (locali, regionali, statali) di creare sostegni (fiscali, doganali, infrastrutturali, investimenti in capitale umano) alla crescita delle economie regionali nella competizione mondiale colle altre economie regionali.

Sia che si tratti di modelli di accumulazione flessibile, dove le I.M. dirigono i flussi di capitali verso gli investimenti più profittevoli, sia che si tratti di sistemi di accumulazione tradizionale, sia se siano riunite in una gerarchia-mondiale o in regioni a sviluppo endogeno, nella attuale fase dello sviluppo capitalistico le regioni tendono a porsi come modello produttivo principe (transnazionale) esterno allo stato, del quale gradiscono non l'invadenza nella pianificazione economica e sociale, ma solo politiche di sostegno all'accumulazione, garantendo tipologie di rapporto salariale di tipo flessibile e non tutelato, politiche di sgravi fiscali, e sostegno all'espansione internazionale delle singole regioni produttive.

Anche sul fatto di non controllare (e tassare) la ricchezza prodotta, sia dalle aziende nazionali che da quelle estere, si basa l'attuale crisi dello stato-nazione, figura principe del modo di regolazione fordista.

Si possono scorgere però vari modelli, che analiticamente divideremo, come il distretto industriale, l'impresa a rete, la divisione internazionale del lavoro, etc .

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D) IL DISTRETTO INDUSTRIALE

Il modello produttivo del distretto industriale sorge intorno alla meta degli anni '70, anche come risposta alla ristrutturazione e alla perdita di concorrenza delle grandi industrie.

Le piccole imprese erano viste come dei "subfornitori dipendenti" delle grandi industrie, che ridislocavano, risparmiando sui costi di produzione e indebolendo la conflittualità operaia, fasi della produzione su scala locale formando il cosiddetto "indotto", di cui è esempio tipico la Torino a cavallo tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80.

Le piccole imprese lavoravano tradizionalmente per il mercato locale, ma nella fase della subfornitura dipendente iniziarono a lavorare indirettamente per il mercato nazionale. Erano imprese, che potevano avere tassi di innovazione tecnologico organizzativo uguali se non superiori a quello delle grandi industrie, ma avevano il vantaggio di una maggiore specializzazione flessibile della produzione ed economie di scala più piccole.

Nello stesso periodo in alcune zone di vecchia industrializzazione e di forte presenza della logica cooperativa si organizzarono i vari distretti industriali.

Il distretto industriale, che può essere indicato come un'unità socioeconomica, dove vi è una forte commistione tra la comunità sociale e quella produttiva, è caratterizzato da una forte omogeneità tra le varie imprese, che sono sempre legate al prodotto tipico del distretto anche se solo indirettamente, come un'impresa di servizi contabili o finanziari.

Le varie imprese si trovano così ad essere legate ad una fase produttiva intermedia e solo indirettamente legata al mercato (locale, nazionale, mondiale) o anche a quella finale oppure sono solo imprese di "collocamento", che ottengono ed assegnano i lavori su commissione.

Caratteristica importante del distretto industriale è la concorrenza orizzontale tra imprese dello stesso tipo e la cooperazione tra imprese legate a diverse fasi della produzione.

Questo modello produttivo caratterizzato dal decentramento della produzione e dalla cooperazione di svariate migliaia di piccole imprese, è stato indicato da molte parti come un'alternativa alla produzione di massa e come una specie di altra via da opporre al dominio capitalista, anche perché era calato in una struttura sociale fatta di forte presenza ed organizzazione dei servizi sociali e dei servizi di sostegno alle varie imprese (in questi distretti il sostegno alle imprese non è solo di tipo finanziario, ma soprattutto di formazione professionale per il personale e di sostegno strategico alle imprese fornendo informazioni dettagliate sulle possibilità di mercato e sulle varie procedure di innovazione tecnologica).

Questo modello non ha retto alla competizione mondiale ed ha mostrato i propri limiti, anche perché la grande impresa si è profondamente rinnovata a livello tecnologico organizzativo raggiungendo la possibilità di poter adottare modelli flessibili di produzione anche su piccola scala.

In questi distretti industriali sono aumentate in percentuale, rispetto alle imprese che lavoravano per il mercato finale, le imprese di tipo contoterziste, e molte imprese "finali" si sono convertite a lavorare per l'indotto.

Inoltre è aumentata anche in una fase di espansione economica la mortalità delle aziende, e soprattutto la dipendenza dal mercato esterno e dalle grandi imprese, che utilizzano le strategie introdotte dai distretti industriali per decentrare la produzione e per abbassare i costi di produzione.

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E) L'IMPRESA A RETE

L'impresa a rete è una tipologia di organizzazione produttiva basata sulla presenza di una azienda leader (Benetton, Luxottica) e di una serie di aziende contoterziste (per la maggior parte di piccole dimensioni), che lavorano sotto il comando dell'azienda leader, che decide la qualità e la quantità dei flussi produttivi innervanti la struttura dell'azienda a rete, e che si preoccupa poi dei problemi di commercializzazione dei prodotti.

Nell'impresa a rete, per esempio del triveneto, in questi anni le aziende leader, che si erano sviluppate solo dal punto di vista finanziario e dal punto di vista commerciale, mostrano la tendenza anche a creare una gerarchia all'interno della rete, avviando rapporti privilegiati solo con alcune aziende (magari fondate da dirigenti dell'azienda madre), che sembrano essere cooptate nell'azienda, mentre le altre miriadi di imprese del settore prima collegate alla rete sono lasciate in balia del mercato, ed inoltre le aziende leader mostrano anche di voler aumentare il livello di produzione diretta, rispetto al passato.

L'impresa a rete può dare vita ad un'organizzazione su scala locale regionale, legata ad un mercato più o meno locale, o su scala globale, come suggerisce il mutamento del modo di essere dell'impresa multinazionale che tende a divenire "impresa globale" che da organizzazione monolitica e verticale diviene un'azienda verticale innervata da una rete di unità autonome legate a produzioni flessibili, il cui collegamento sarà dato dall'appartenenza alla stessa azienda.

La principale caratteristica delle imprese a rete è la flessibilità riguardo il mondo del lavoro, la produzione e rispetto al mercato.

1 - La flessibilità rispetto al mondo del lavoro si giova infatti dell'esistenza di forza lavoro flessibile non tutelata, per poterla utilizzare liberamente con contratti di formazione lavoro o a termine, in modo da massimizzare la produttività e al contempo sfavorire la creazione di una forza lavoro sindacalizzata e/o antagonista, anche grazie alla conduzione di tipo paternalistico della maggior parte delle aziende.

Notevole è la presenza di forza lavoro autonoma, sia se si pensa alla presenza numericamente marginale dei classici professionisti (dediti a lavori di consulenza), sia se si indica come lavoratore autonomo quel lavoratore che, uscito dalla fabbrica per propria scelta o perché espulso dalle varie ristrutturazioni produttive, non è altro che forza lavoro operaia desalarizzata e non tutelata, perché continua a svolgere "autonomamente" le mansioni di quando era operaio tutelato rimanendo comunque interno al ciclo produttivo, e continuando a sottostare ai ritmi imposti dall'azienda (in modo particolare se è un lavoratore "mono-cliente").

Nell'impresa a rete vi è un utilizzo massiccio di forza lavoro immigrata, che è sottoposta a ritmi di lavoro intensificati con livelli di retribuzione molto bassi.

Quest'unione tra lavoro autonomo, imprese di piccola dimensione, utilizzo part-time di forza lavoro, e sfruttamento della forza lavoro immigrata è una delle cause del successo del boom economico dell'impresa a rete.

2 - La flessibilità rispetto alla produzione si basa sull'informatizzazione dei processi produttivi e sull'importanza della comunicazione all'interno dei nuovi modelli di organizzazione del processo produttivo e del rapporto con il mercato produttivo.

L'informatizzazione della produzione e l'importanza del fattore comunicativo non sono la stessa cosa, poiché si possono innovare linee produttive senza arrivare a modificazioni del modo di circolazione della comunicazione all'interno dell'azienda, come è capitato nelle grandi industrie italiane verso la metà degli anni '70 dove si innovarono profondamente le linee di montaggio con l'introduzione delle prime linee informatizzate in una struttura rigidamente fordista.

Mentre parlare di centralità della circolazione della comunicazione all'interno della struttura produttiva della singola azienda, o delle reti di aziende collegate tra loro, significa parlare di una rivoluzione nell'organizzazione del lavoro aziendale, che avviene anche attraverso l'introduzione delle nuove tecnologie informatiche.

Si cerca di superare la rigidità, che caratterizzava le aziende fordiste, creando una contrapposizione netta tra lavoro creativo-organizzativo e lavoro manuale e tra il management (burocrazia) e la forza lavoro operaia, nei nuovi modelli organizzativi del lavoro (vedi il Toyotismo e i cosiddetti "circoli di qualità").

Introducendo inoltre metodi che cercano di rendere la comunicazione più o meno flessibile tra management e operai, rendendo questi "centrali" nell'organizzazione dei flussi produttivi e rendendoli decisionali rispetto ai problemi immediati che sorgono rispetto alla produzione.

Mentre in precedenza l'innovazione tecnologica nelle grandi fabbriche non era seguita da un diversa organizzazione dei modelli produttivi, che rimanevano rigidamente fordisti, la crisi delle grandi aziende legata anche alla crisi delle grandi economie di scala ha portato all'innovazione del lavoro organizzativo ed all'introduzione di nuovi modelli produttivi, che rendono "partecipi" gli operai al lavoro ed introducono modelli produttivi su scala ridotta flessibili rispetto al mercato.

Nei nuovi modelli di organizzazione della produzione la funzione comunicativa tende ad essere una funzione centrale ed ad essere l'elemento fondante dello scambio di informazioni sia all'interno dell'azienda che all'esterno (con il mercato, le aziende concorrenti e gli altri nodi della rete produttiva) e organizza sia i flussi produttivi locali, sia quelli regionali che quelli internazionali (in particolare nei nuovi modelli di organizzazione strategica delle aziende multinazionali), garantendo la trasmissione degli input informativi tra i nodi della rete.

La comunicazione è il fondamento di quel settore produttivo legato alla creazione, gestione e trasmissione degli input informativi. Questo avviene sia a livello di informatizzazione delle linee produttive, sia a livello di trasmissione delle informazioni e dei livelli decisionali tra componenti delle aziende (fermo restando che i manager decidono per tutti), oppure al livello di circolazione di informazioni (tramite i mezzi di comunicazione più disparati) tra le aziende che formano i nodi della rete produttiva.

3 - La flessibilità rispetto al mercato è legata sia alla flessibilità produttiva, sia alla flessibilità rispetto agli impulsi del mercato, basata sulla conoscenza del mercato stesso attraverso studi di marketing o addirittura, attraverso l'uso di tecniche pubblicitarie, la possibilità di creare mercati di "bisogni indotti".

L'azienda così produce secondo gli input del mercato (se produce per il mercato) o dell'azienda leader, che decide i flussi produttivi tra le varie aziende della rete.

La configurazione a rete riassume in sé l'evoluzione di modelli di organizzazione del lavoro più diversi, poiché si basa sulla caratteristica della flessibilità rispetto ad ogni fase della produzione, che è la caratteristica principale dei nuovi modelli di organizzazione capitalistica.

In essa (l'impresa a rete) si fondono sia la funzione (e la figura) del lavoratore artigianale di tipo classico, sia quella del lavoratore autonomo (magari ex-operaio) monocliente, che possono essere figure non-conflittuali rispetto all'organizzazione della produzione poiché credono di essere i "padroni" del loro lavoro.

Nella configurazione a rete vi è anche la figura del cosiddetto "imprenditore politico", cioè quell'imprenditore che invece di gestire la produzione diretta della propria azienda, lo fa attivando i vari nodi della rete produttiva e facendo uso di tecniche pubblicitarie per vendere sia il prodotto (come fa O. Toscani per la Benetton) sia il nome del prodotto, attraverso la pratica del Franchising, cioè la concessione ad alcune aziende del proprio logo con in cambio la certezza, che essa compri e venda i prodotti dell'azienda proprietaria del logo (di nuovo la Benetton come esempio).

L' "imprenditoria politica" si può estendere come categoria su un campo più vasto, se vista come "capacità di regolare flussi produttivi su tutta la linea produttiva", e può anche essere vista come una delle future funzioni fondamentali del management delle I.M., legate non alla produzione in senso stretto ma al tasso di profitto di un dato investimento.

Oltre alla configurazione a rete ed al distretto industriale, come modello produttivo regionale italiano, esiste anche una marea di piccole e medie aziende, spesso anche a carattere artigianale, che lavorano per il mercato locale, o hanno sviluppato produzioni molto specializzate, che li inseriscono anche in dinamiche produttive internazionali, o lavorano come sub-fornitori dipendenti di aziende più grandi.

Se in precedenza la flessibilità produttiva e la specializzazione (come si è visto anche nel caso del distretto industriale) aveva avvantaggiato queste piccole imprese rispetto alle grandi imprese, ora i mutamenti produttivo-organizzativo delle grandi imprese, che hanno portato alla esternalizzazione di varie fasi della produzione, hanno reso più flessibile la produzione, e più flessibile la trasmissione di informazioni all'interno del ciclo produttivo, riducendo i differenziali di produttività e profittabilità rispetto alle aziende piccole e medio-piccole.

L'innovazione tecnologica e la difficoltà delle aziende a ottenere crediti per poter attuare queste modificazioni tecnologiche, hanno acuito la subalternità di queste piccole e medie imprese rispetto alle grandi imprese ed hanno dato vita a momenti di forte concentrazione tecnologica (e finanziaria), creando una relazione di committenza tra le imprese medio-grandi e quelle piccole, che sono ritornate al ruolo di sub-fornitore dipendente, creando anche un rapporto di conflittualità a livello rappresentativo tra piccole e grandi imprese.

Dall'analisi dei tre modelli di organizzazione italiani della produzione su scala regionale si vede che negli ultimi tempi per varie ragioni (costi dell'innovazione tecnologica, la difficoltà di ottenere crediti, la competizione internazionale, crisi, etc.), si è vista una modificazione in senso flessibile della produzione su ogni livello, dalla produzione di automobile (l'introduzione dei circoli di qualità e del concetto di fabbrica integrata, tipico del Toyotismo in aziende come la Fiat) alla produzione e gestione dei flussi di informazione (l'utilizzo di personale, come i giornalisti freelance, senza posto fisso), ed un aumento della gerarchizzazione produttiva, dove l'azienda forte tende a decidere dell'andamento di quel particolare settore o di quel determinato mercato locale, creando anche fenomeni di superlavoro tra gli addetti, che lavorano in percentuale dieci e più ore se tutelati, e anche 15 se illegali, quasi sempre immigrati.

Infatti uno dei miti della sinistra è quello dell'immigrato Vu Cumprà, che si arrangia solo in modo marginale se non illegale.

Invece vi sono in modo particolare tra gli immigrati di nuova generazione i frutti dello sviluppo dei paesi del terzo mondo, che invece di arricchire gli abitanti di quei paesi li costringe, liberando quote di forza lavoro dai settori tradizionali distrutti dalla modernizzazione e abolendo le norme consuetudinarie sul possesso comunitario della terra e dei prodotti da esso estratto, alla disoccupazione e all'emigrazione, ma che ha portato anche livelli di scolarizzazione e di specializzazione molto elevati che sono impiegati nelle fabbriche del centro-nord come forza lavoro ipersfruttata e sottopagata.

In particolar modo nel meridione gli immigrati che sono costretti a lavori marginali, anche di manovalanza nelle organizzazione criminali organizzate (come succede anche nelle altre grandi città italiane, vedi il caso di Torino) si scontrano, tranne nei casi di sfruttamento più becero come la raccolta di prodotti agricoli, con le esigenze di una forza lavoro marginale, che deve sottostare a livelli di sfruttamento pesantissimo, come nel caso del lavoro nero, che non di rado è commissionato da grandi imprese per abbattere i costi di produzione.

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F) LA NUOVA DIVISIONE INTERNAZIONALE DEL LAVORO

Questa teoria della gerarchizzazione della produzione mondiale nasce dallo studio delle delocalizzazioni messe in atto dalle aziende dei paesi centrali (in particolare Stati Uniti, dove il fenomeno assunse toni epocali) durante la metà degli anni '70, sia in funzione antisindacale sia (che è lo stesso) per riacquistare la perdita di competitività e profittabilità, avvenuta a causa delle varie recessioni, che avevano caratterizzato il passaggio dagli anni '60 a quelli '70.

Questa teoria viene definita come "nuova divisione internazionale del lavoro" perché si contrappone alla già descritta divisione assiale (nord-sud o centro-periferia) del lavoro tipica del fordismo, cioè Scambio di materie prime + prodotti semilavorati vs. merci finite, che serviva a garantire la possibilità di poter sostenere i costi del modello keynesiano.

Inoltre tale teoria porta ad una ridefinizione del concetto di organizzazione spaziale della produzione, legata alla formazione di economie regionali con relativa autonomizzazione delle dinamiche economiche di queste rispetto all'accumulazione regolata attraverso la pianificazione economica dello stato nella riproduzione sociale oltre che nella produzione.

Infatti lo sviluppo economico di queste regioni non segue le direttive della pianificazione statale ma gli impulsi provenienti dal mercato mondiale, che servono anche per decidere la specializzazione produttiva di una determinata regione, creando anche nuove zone di accumulazione capitalistica in regioni prima considerate sottosviluppate o almeno non centrali nelle fasi precedenti dell'accumulazione capitalistica.

Questa teoria tende a definire queste politiche di ridislocazione produttiva come una sorta di tentativo di creare una "Catena di montaggio mondiale", dove le varie fasi della produzione sono divise per varie aziende dislocate lungo tutto il globo, ed alle aziende centrali rimane il compito di assemblare i pezzi o di controllare l'andamento dei flussi produttivi e di quelli finanziari.

La ridislocazione lungo tutto il globo ha il compito di indebolire la capacità contrattuale di tutti i nodi della catena produttiva e non solo della forza operaia dei paesi centrali, e di ridurre i costi di produzione legando determinate fasi produttive alla ricchezza delle materie prime, necessarie alla produzione, presenti nei paesi dove si installa l'impianto produttivo.

Ma non sempre si è adottato il modello della mondializzazione della catena di montaggio, a volte è l'intera produzione che si ridisloca all'estero, magari in paesi dove è facile controllare da parte degli investitori stranieri l'andamento della produzione, grazie ai dettami del FMI, legato al ricatto del debito dei paesi poveri verso quelli ricchi, o grazie agli aiuti offerti dalle autorità statali o locali, affascinate dalla possibilità di potersi arricchire (il caso delle imprese "maquilladoras" poste in zone franche tra Messico ed USA con personale messicano e imprenditori americani o delle fabbriche di assemblamento di materiale hardware, che si trovano nel sud-est dell'Asia).

Uno dei meriti di questo modello è quello di indicare nella delocalizzazione industriale nei N.I.C.s sia una delle cause della caduta delle condizioni di vita delle classi povere nei paesi centrali, sia una delle cause del sottosviluppo dei paesi periferici.

Infatti la maggior parte di queste rilocalizzazioni industriali non incide se non molto parzialmente sull'assetto economico generale dei paesi in cui queste fabbriche vengono impiantate, poiché esse riguardano quasi sempre un solo aspetto della produzione ed esigono forza-lavoro giovane (per lo più donne e ragazzi), poco ribelle e soprattutto poco specializzata, che dopo un breve addestramento può infatti iniziare a lavorare a ritmi di lavoro terrificanti. Infatti per le I.M. vi è la possibilità di utilizzare forti quote di forza lavoro pronta ad impiegarsi nell'industria, mentre il personale tecnico-manageriale rimane tutto di provenienza straniera.

Ma il sistema economico generale di questi paesi, tranne per quella parte di borghesia che usufruisce della ricchezza creata da queste fabbriche, non muta anzi, in molti casi aumenta lo sfruttamento della forza lavoro che affolla le periferie delle grandi metropoli, grazie anche alla distruzione, attraverso l'importazione di beni primari e manufatti (vedi il caso dell'industria risicola del Mali distrutta dalle importazioni di riso a basso costo dagli USA, con intenti "umanitari") o attraverso interventi legislativi (basti guardare l'eliminazione del art. 27 della costituzione messicana, che garantisce diritti reali ai contadini poveri sulla terra, che occupano e coltivano), dei modelli produttivi e dei modelli di vita tradizionali.

Questo non sempre avviene perché a volte si preferiscono mantenere in vita anche artificialmente questi modelli tradizionali allo scopo di mantenere ancora più bassi i salari, poiché il salario percepito dal lavoratore che vive in un sistema di messa in comune dei redditi, e che quindi potrebbe sopravvivere anche senza il salario, è inferiore a quello di un lavoratore il cui salario costituisce l'unico strumento di sussistenza.

La teoria della divisione internazionale del lavoro da un lato mette in evidenza una realtà dell'attuale sistema produttivo (la riduzione dei costi di produzione, legata al ricatto occupazionale e salariale, che la forza lavoro dei paesi centrali subisce, con la possibilità della ridislocazione della fabbrica dove lavorano), dall'altro non mette in evidenza la possibilità che si potessero avere fenomeni di delocalizzazione produttiva su scala locale, che consentono alle grandi aziende di esternalizzare varie fasi della produzione, riducendo la rigidità della produzione e quindi i costi di produzione.

Non bisogna dimenticare che il ricatto della rilocalizzazione industriale ha portato alla crescita, anche in termini percentuali rispetto alla produzione nazionale, di settori produttivi che utilizzano lavoro non tutelato nelle stesse economie occidentali.

Questo è evidentissimo negli USA dove in alcuni poli produttivi, caratterizzati dalla forte presenza di forza lavoro illegale, in modo particolare di provenienza immigrata (New York o Los Angeles), vi è stata l'esplosione delle cosiddette Sweatshop industries (letteralmente industrie del sudore), dove vi sono ritmi di lavoro elevatissimi in difficili condizioni (e salari bassissimi), che lavorano per il mercato locale e/o con contratti di sub-appaltatura da grandi industrie.

Ma è evidente anche nelle mini industrie delle regioni del sud Italia, dove sia la forza lavoro immigrata che quella locale, sono costrette a ritmi di lavoro pesantissimi con salari bassissimi.

Questa teoria dunque mette in evidenza una delle caratteristiche principale dell'attuale fase dello sviluppo economico, che è rappresentata dalla gerarchizzazione produttiva, infatti ci si avvia verso una forte gerarchizzazione all'interno dell'economia mondiale, dove il concetto di flessibilità non avrà nessun valore rispetto alla concentrazione della proprietà dei mezzi di produzione, ma sarà la base che regolerà l'insieme (economico, politico, sociale e culturale) su cui si fonda l'attuale modello di sviluppo dell'accumulazione di capitale.

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G) I RIFLESSI SOCIALI DEL SISTEMA DI ACCUMULAZIONE FLESSIBILE

Il sistema dell'accumulazione flessibile è un sistema che presenta degli enormi costi sociali per poter continuare ad esistere, in quanto non avendo che prospettive di breve periodo, non riesce a rispondere a quelle compatibilità che esso forza, quali la distruzione di modi di vita e degli ecosistemi naturali, ma riconosce invece solo quella compatibilità che esso stesso impone ad ogni organismo sociale per poter partecipare al proprio gioco: quello del PROFITTO.

Dalle politiche di tagli alla spesa sociale, che da ormai vent'anni imperversano in tutti i paesi centrali riducendo sempre più le condizioni di vita delle classi povere, al neo liberismo selvaggio (basato anche esso su politiche di tagli sociali, legate alla crisi del debito, ma anche sulla distruzione di modelli tradizionali di vita), la logica che si impone è quella dell'APARTHEID SOCIALE, dell'esclusione delle persone non direttamente produttive per il capitale globale, che sono relegate a farsi sfruttare in modo sempre più massiccio o a sopravvivere in ambienti degradati.

Il capitalismo globale sta creando vere e proprie riserve dove mettere gli esclusi (come i nativi americani del secolo scorso); situazione ben rappresentata dallo scenario apocalittico di Los Angeles, dove i ghetti sono strutture urbane separate architettonicamente in modo netto dal resto della città.

Nei paesi europei lo scenario, che imperversa da circa vent'anni è quello della riduzione della spesa sociale e delle politiche di welfare, in tutti i campi della vita, dal sistema previdenziale a quello sanitario a quello dell'istruzione pubblica.

In altre parole si tratta della riduzione quasi totale di quelle forme di retribuzione indiretta, che la classe operaia è riuscita ad ottenere come frutto delle proprie lotte durante l'epoca del welfare state, e dell'introduzione di forme di deregolamentazione salariale e lavorativa, allo scopo di far diminuire la quota del deficit pubblico, cioè delle spese da parte dello stato in termini di spesa sociale (previdenza, salute, etc.), e del debito pubblico, cioè gli interessi che lo stato deve pagare per i prestiti contratti.

Queste politiche di tagli alla spesa sociale, oltre allo scopo di affamare la gente, non raggiungono mai il loro scopo, che è quello di ridurre il livello del debito o del deficit pubblico, per rendere i conti dello stato in pareggio o di soddisfare le condizioni di organismi tipo FMI, o di precondizioni per poter entrare in qualche organismo sovranazionale, come accade attualmente in Europa con il trattato di Maastricht per l'unione europea, che afferma che per far parte dell'unione europea l'incidenza del debito pubblico sul P.I.L. deve essere di circa il 3%, mentre quello del deficit deve essere di circa il 60% e il tasso di inflazione al 4,1.

Se confrontiamo due tabelle della commissione CEE (una del luglio '92 ed una del novembre '95), su cui sono riuniti i dati riguardo i tassi di inflazione dell'incidenza del debito pubblico sul P.I.L., e del deficit pubblico riguardo il P.I.L., e confrontiamo per esempio i dati dell'Italia vediamo, che la parte relativa al deficit pubblico che era di circa il 9% del P.I.L. è passata, in questi anni di politiche fortemente antipopolari a circa il 4,5%, mentre il tasso di inflazione, che nel '92 era del 5,2% è passato a circa il 5%, mentre l'incidenza del debito pubblico, cioè di quella parte delle spese statali relative ai pagamenti sugli interessi dei titoli di stato, che formano circa il 90-92% delle spese statali, non è diminuito affatto anzi è aumentato divenendo circa il 122% del P.I.L.

Il disegno del neoliberismo di Maastricht è quello di rendere lo stato un'azienda e comportarsi di conseguenza con tutte le sue attività, in particolare con le spese in termini di previdenza, individuando in esse la componente principale dei conti in rosso degli stati, ed è quello di rendere la propria struttura economica adatta a sostenere la competizione internazionale, favorendo quindi la classe imprenditoriale con tutti i possibili sgravi fiscali e tutte le possibili sovvenzioni alla produzione.

Le politiche di tagli sociali non servono a migliorare i conti dello stato, mentre servono anzi a peggiorarli, perché da un lato non intaccano le dinamiche della creazione dei debiti statali, che sono per la maggior parte legate non alle spese sociali ma agli interessi sui debiti contratti da parte dello stato emettendo sui mercati valutari buoni del tesoro, per poter finanziare la propria politica, relativa per lo più al sostegno delle attività economiche nazionali più che al benessere dei cittadini.

Dall'altro si riducono le spese statali legate ai costi della previdenza, riducendo anche i livelli salariali delle popolazioni (intesi come unione tra salario diretto e salario indiretto, cioè i servizi, cui si ha accesso in modo più o meno gratuito), abbassando ulteriormente la base fiscale imponibile in modo diretto, inasprendo quella indiretta (sui consumi),che in percentuale colpisce più le classi povere, mentre non si pensa a tassare (per paura di creare voli di capitali indesiderati) le rendite derivanti dagli interessi dei buoni del tesoro, che hanno a volte (vedi il caso italiano) tassi tanto elevati da sembrare più allettanti degli investimenti produttivi.

Passiamo ora all'altra faccia delle politiche neo liberiste: I S.A.P.(Programmi di Aggiustamento Strutturali).

Questi S.A.P. adottati per ridurre la quota di debito contratta dai vari paesi periferici, si basano su:

1 - politiche di tagli alla spesa sociale, che portano alla completa distruzione di ogni forma di previdenza sociale in quei paesi, ed al decadimento dei sistemi sanitari e di istruzione;

2 - politiche di privatizzazione delle parti più importanti dell'economia nazionale, costretta a svendere le proprie industrie ad investitori stranieri;

3 - tagli al personale governativo, legati alla dismissione di molte attività da parte del governo;

4 - congelamento dei salari, con la politica salariale gestita dal FMI stesso e conseguente caduta del costo del lavoro;

5 - abolizione del diritto di sciopero, e soppressione legale e/o fisica dei sindacati dei lavoratori;

6 - rigide politiche deflative, legate anche ad una politica di alti tassi che porta all'afflusso di capitali dall'estero ma che deprime la domanda interna;

7 - liberalizzazione del prezzo delle merci che provoca l'aumento del costo della vita per la gran parte della popolazione ed un ulteriore aggravio delle condizioni di vita delle fasce deboli (donne, bambini, anziani);

8 - distruzione dei modelli produttivi tradizionali, in modo particolare se basati su modelli comunitari, e sostituzione con modelli produttivi monopolistici di proprietà di imprese multinazionali, basati sulla monocoltura, per l'esportazione, con conseguente aumento della dipendenza alimentare e della denutrizione della popolazione di questi paesi.

Ma il problema dei S.A.P., oltre ai tremendi costi sociali che sono ad essi legati, è quello che questi sono inutili rispetto allo scopo (fittizio) per cui sono stati inventati, ovvero la riduzione della quota di debito dei paesi periferici, che la maggior parte delle volte non diminuisce, ma anzi aumenta in modo continuo, pur se cambiano di continuo i referenti del debito. Infatti negli anni '70 erano principalmente referenti pubblici, parzialmente privati, dall'inizio degli anni '80 (in particolare dopo la crisi del '82) sono divenuti quasi tutti privati, e dal 1989 con il Piano Brady il referente principale è divenuto il FMI, poiché ai paesi debitori con il Piano Brady si concedono, in cambio dell'adozione dei S.A.P., tranche di credito che permettano ai paesi debitori il pagamento pur parziale del debito verso le banche private e divenire quindi debitore verso il FMI.

Il debito dei paesi poveri aumenta perché le esportazioni di questi paesi, essendo controllate dalle imprese multinazionali, e non aumentano la quota di ricchezza nazionale attraverso il possibile ritorno in forma di tassazione sui profitti, ma anzi la diminuiscono, poiché in molti casi ne aumentano la dipendenza alimentare come abbiamo già visto. Inoltre questi prestiti generano interessi che a loro volta continuano a generare ulteriori interessi così, come per le politiche di ristrutturazione dei paesi centrali, non si blocca il perno, cioè i buoni del tesoro o i debiti contratti, che generano il debito.

I S.A.P. provocano, come si è visto, una serie di conseguenze nefaste a livello sociale, economico ed ambientale, legate alla doppia faccia degli stessi, che da un lato dovrebbero servire a ridurre il debito dei paesi poveri verso i paesi ricchi, attraverso la riduzione dei costi delle spese sociali dei paesi periferici, e dall'altra servire a creare un ambiente stabile per gli investitori stranieri.

L'applicazione dei S.A.P. provoca invece:

1 - aumento della disoccupazione a livello mondiale (soprattutto se si considerano S.A.P. anche le politiche di tagli, che colpiscono i paesi centrali), attraverso la dismissione del personale governativo, legato ai tagli alla spesa sociale, privatizzazione delle imprese statali, distruzione delle imprese tradizionali e dei modelli di produzione tradizionali e/o comunitari, contrazione della domanda per investimenti legata agli alti tassi di interesse;

2 - diminuzione del costo del lavoro, legata alle svalutazioni monetarie, al rigido controllo della politica dei redditi da parte di funzionari del FMI ed alla concorrenza tra stati, per offrire migliori esempi di forza lavoro schiavizzata;

3 - aumento della forbice nella redistribuzione del reddito, sia a livello globale tra paesi poveri e paesi ricchi, sia tra le classi povere e quelle abbienti di ogni singola nazione;

4 - aumento del costo della vita causata dalle svalutazioni monetarie e dalla liberalizzazione dei prezzi dei beni ed alla riduzione della quota di reddito nazionale redistribuito ai poveri;

5 - aumento del tasso di povertà in tutto il mondo, legato alla presenza di produzione per l'esportazione (controllata da investitori stranieri), controllo dei livelli salariali ed alla crescente disoccupazione di molte popolazioni rurali;

6 - aggravamento della condizione delle fasce deboli (donne, bambini),che a causa della diminuzione della quota di reddito disponibile per garantire la riproduzione del nucleo familiare, e del conseguente svilimento del proprio ruolo tradizionale, devono a loro volta trovare un lavoro (e la maggior parte della forza lavoro "operaia" schiavizzata è formata proprio da donne e bambini), vedendo ulteriormente diminuita la propria figura sociale;

7 - distruzione delle piccole aziende agricole e dei modelli produttivi tradizionali attraverso l'abbassamento dei prezzi per l'estero (che favorisce la concentrazione di tipo monopolistico) e l'importazione di beni alimentari (magari attraverso programmi di aiuto alimentare, che hanno il solo ed unico scopo di ridurre le scorte del surplus della produzione agricola delle economie centrali), con il conseguente aumento della dipendenza alimentare di questi paesi, in modo particolare dai paesi centrali, che continuano ad avere il controllo delle condizioni di vita di questi paesi anche con la minaccia di possibili embarghi;

8 - massiccio degrado ambientale, legato allo sfruttamento delle risorse senza tener conto di nessun vincolo legato alla capacità di sopportazione dell'ecosistema locale e di quello globale;

9 - deterioramento dei sistemi sanitari nazionali, con annessa denutrizione e mancanza di acqua potabile, con la conseguente comparsa di malattie epidemiche vecchie e nuove (lebbra, colera, tifo, AIDS, etc.), che erano state prima debellate;

10 - diminuzione del tasso di scolarizzazione ed aumento del tasso di analfabetismo legato ai tagli alle scuole pubbliche ed all'aumento delle tasse scolastiche ed universitarie;

11 - diminuzione della capacità produttiva nelle nazioni in cui i S.A.P. sono stati adottati, per mancanza di investimenti nelle infrastrutture, negli impianti industriali, nella tecnologia e nei sistemi sanitari e scolastici;

12 - deterioramento dei sistemi democratici e dei processi di democratizzazione, poiché i S.A.P. alterano la distribuzione delle ricchezze tra la popolazione e per essere fatti accettare necessitano di un forte potere repressivo;

13 - crescita continua del debito estero, che perpetua l'incessante e continuo spostamento di risorse dalle zone povere;

14 - aumento dei tassi migratori dai paesi periferici verso quelli centrali, anche in situazione di clandestinità, a causa delle rigide politiche di controllo sugli ingressi di forza lavoro straniera, sia per ragioni elettorali (per rabbonire l'elettorato dei non garantiti dei paesi centrali) sia perché molte aziende trovano più conveniente sfruttare la forza lavoro dei paesi poveri in loco, dove questa costa di meno anche a causa dell'altissimo differenziale tra il costo della vita tra i paesi centrali e quelli periferici.

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LA LEGISLAZIONE SULL'IMMIGRAZIONE IN ITALIA

Nei primi dieci anni di immigrazione la politica migratoria in Italia si è espressa attraverso l'assenza di provvedimenti legislativi, tanto che l'unica legislazione esistente in materia era quella risalente all'epoca fascista.

Solo nel corso degli anni 80 sono stati emanati i primi provvedimenti legislativi nel nostro paese.

Si tratta delle leggi 943/19g6 e 39/1990.

La prima è titolata "Norme in materia di collocamento e trattamento dei lavoratori extracomunitari e contro le immigrazioni clandestine".

La legge introduce norme generali come la parità di trattamento e la piena eguaglianza di diritti dei lavoratori extracomunitari legalmente residenti in Italia rispetto ai lavoratori italiani, il diritto al ricongiungimento familiare, la possibilità di usufruire degli stessi servizi sanitari e sociali.

In sostanza la 943 individua tre motivi di permanenza stabile in Italia: a) ingresso per lavoro; b) ingresso per riunificazione familiare; c) ingresso per studio.

Nel primo caso l'autorizzazione all'assunzione di un cittadino extracomunitario viene rilasciata al datore di lavoro previo accertamento dell'indisponibilità di lavoratori italiani iscritti nelle liste di collocamento e aventi le stesse qualifiche professionali dell'immigrato.

In più l'azienda deve impegnarsi a non modificare il rapporto di lavoro (ad es. da tempo pieno a parziale) e a garantire il regolare pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali. L'autorizzazione al lavoro consente la possibilità di stabilire un rapporto di lavoro solo a tempo pieno.

Nel caso dei ricongiungimenti familiari la legge riconosce al lavoratore extracomunitario il diritto alla riunificazione con il coniuge e i figli minori di 18 anni, purché sia in grado di assicurare ai familiari normali condizioni di vita.

Dopo un anno di soggiorno regolare in Italia ai familiari viene permessa la possibilità di iscriversi alle liste di collocamento e di partecipare a tutte le forme di avviamento al lavoro.

Con questa legge è possibile affermare che l'immigrato, che è stato capace di regolarizzare la sua posizione, gode in linea teorica di tutti i diritti sociali e sindacali degli italiani.

Per favorire la regolarizzazione la legge prevedeva una sanatoria: tutte le persone presenti per motivi di lavoro in Italia alla data 31/12/1986 e capaci di dimostrarlo avevano diritto a un permesso di soggiorno.

La convinzione comune sottintesa in questa legge era che gli immigrati fossero attratti in Italia da una domanda di lavoro non soddisfatta dall'offerta di lavoro locale, cioè che si trattasse di immigrazione da domanda.

Era invece ignorata la possibilità che gli immigrati potessero arrivare in Italia senza alcuna prospettiva di lavoro dipendente, cioè che prevalesse l'effetto spinta, vale a dire fattori quali guerre, carestie, crisi economiche, rivolte politiche o religiose che potevano indurre un soggetto ad abbandonare forzatamente il proprio paese e a trasferirsi altrove senza nessun preciso progetto per il futuro.

La legge inoltre escludeva che gli immigrati potessero essere costretti ad arrangiarsi con precari lavori autonomi (lavavetri, venditori ambulanti).

Inoltre molti lavoratori dipendenti non poterono regolarizzare la propria posizione perché i datori di lavoro non avevano denunciato l'avvenuta assunzione per non perdere i vantaggi (supersfruttamento, mancato pagamento dei contributi e dell'assicurazione) derivanti dal rapporto di lavoro a nero.

In definitiva la maggior parte degli immigrati non è riuscita a trarre profitto dalla sanatoria, e tra quelli che hanno deciso di avvalersene, due terzi si sono dichiarati alla ricerca di un lavoro iscrivendosi al collocamento per uscire da una condizione impossibile.

La legge 943 si presenta, nella sostanza, come un provvedimento di chiusura, che si propone contemporaneamente di regolarizzare la posizione degli immigrati già presenti in Italia e di limitare i nuovi ingressi.

La chiusura verso le nuove migrazioni accomuna la 943 all'altro provvedimento legislativo, la legge 30/ 1990, nota come legge Martelli.

Il titolo della legge è "Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari già presenti nel territorio dello stato".

Questa legge non chiede più all'immigrato la capacità di dimostrare di avere un lavoro dipendente come condizione per regolarizzare la propria posizione poiché individua il cosiddetto "effetto spinta" e riconosce il fatto che una larga quota di immigrati arrivata nel nostro paese per motivi legati alle vicende dei paesi di provenienza e spesso senza un'immediata prospettiva di lavoro.

La legge 39 regola il rilascio, il rinnovo e la revoca dei permessi di soggiorno, regolamenta i casi di espulsione e predispone controlli più severi alle frontiere.

Inoltre stabilisce che possono soggiornare nel territorio dello stato gli stranieri entrati regolarmente e muniti di permesso di soggiorno, che dura due anni e può essere rinnovato. Condizione essenziale per ottenere il primo rinnovo è la dimostrazione di avere un reddito minimo, inteso come equivalente alla pensione sociale (500mila lire).

Anche questo provvedimento in materia di immigrazione si presenta come una legge di chiusura perché attua il criterio del "doppio trattamento": massima apertura nei confronti degli immigrati presenti e regolarizzati, chiusura nei confronti di coloro che arrivano successivamente.

Mentre la 943 lasciava al collocamento estero la responsabilità di individuare nuovi ingressi, la legge 39 esprime un punto di vista più chiaro ed articolato.

La decisione di chiusura è esplicita, come attestano alcuni articoli della legge che inaspriscono le punizioni per chi favorisce l'ingresso degli extracomunitari in violazione alle disposizioni del decreto e che impongono l'obbligo di riferire alle autorità di pubblica sicurezza della presenza degli immigrati a bordo di navi o comunque in posizione irregolare.

La legge Martelli viene emanata in un periodo particolarmente "caldo" per quanto riguarda l'immigrazione, il periodo della cosiddetta "invasione" degli albanesi, rispetto a cui le risposte delle autorità competenti e dell'opinione pubblica sono state perlomeno contraddittorie: dapprima accoglienza, visto d'ingresso e generale solidarietà, e poi (agosto 1992) concentramento in posti chiusi (lo stadio di Bari) e conseguente espulsione.

Successivamente a questi interventi di "politica delle frontiere" verso la fine del 1992 viene emanato un decreto del ministero degli Immigrazione, in base al quale gli immigrati che avevano commesso alcuni reati dovevano essere espulsi.

Comincia quindi a prendere consistenza, anche attraverso la malainformazione diffusa dai mass media, l'associazione immigrato criminale, nonostante il fatto che le statistiche sulla criminalità indicassero per l'Italia una percentuale di stranieri in carcere molto inferiore a quelle di altri paesi europei.

A questa situazione legislativa comincia a corrispondere un atteggiamento dell'opinione pubblica ben diverso da quello che si era espresso nei primi anni del fenomeno migratorio.

Prendono consistenza nei discorsi comuni termini come "assedio", "invasione" dal Nord Africa, e in generale si verifica un calo di solidarietà e simpatia nei confronti degli immigrati.

Il passaggio da questa situazione ai giorni nostri è breve.

Partiamo dal settembre 1995.

Il giorno 9 Palazzo Chigi annuncia un provvedimento restrittivo della Martelli, che prevede l'espulsione degli immigrati privi di permesso di soggiorno, l'eliminazione del ricorso al Tar e l'introduzione del reato di immigrazione clandestina.

Il 19 scoppia a Torino la protesta degli abitanti di San Salvario contro la presenza degli immigrati.

Nelle stesse ore, in commissione affari costituzionali due esponenti di AN mettono in votazione il testo base per una nuova legge sull'immigrazione, la legge Nespoli.

Questa bozza di legge sintetizza alcune tra le peggiori proposte mai avanzate in materia di immigrazione: certificato di "buona salute" e di "buona condotta" come condizioni per entrare in Italia, detenzione da 8 a 15 anni per chi agevola l'ingresso o il lavoro di stranieri irregolari (anche se non a scopo di lucro), condizioni impossibili per il ricongiungimento familiare (ad es. tre milioni per un coniuge e due figli), detenzione fino a tre anni per chi non ha il permesso di soggiorno, estensione di queste normative anche ai rifugiati politici

Il testo di legge riesce a passare in commissione grazie ai voti determinanti dei leghisti e, subito dopo, comincia la presentazione degli emendamenti al testo.

La mediazione portata avanti dal PDS con la Lega non produce risultati perché resta integro l'articolo peggiore del progetto di legge, quello relativo alle espulsioni.

Gli incidenti avvenuti a Torino tra la polizia e gli immigrati all'inizio di novembre si prestano a facili strumentalizzazioni da parte dei leghisti che, per bocca del senatore Bosso, chiedono l'istituzione di una Guardia Civile per fronteggiare gli extracomunitari e la dotazione di proiettili in gomma per la polizia.

Quando a questa demagogia razzista si associa la minaccia politica della Lega di non votare la finanziaria in caso di mancata attuazione del decreto sull'immigrazione, governo e centrosinistra annunciano il provvedimento legislativo.

Il decreto legge, emanato a metà novembre, prevede modifiche alla precedente normativa in particolare per quanto riguarda le espulsioni e la regolarizzazione degli immigrati.

Le espulsioni, a differenza del passato in cui erano richieste dall'immigrato come beneficio per sottrarsi al carcere, sono concesse su segnalazione del giudice e del questore, cioè in una situazione di massima discrezionalità.

Tra i vari tipi di espulsioni due in particolare sembrano esprimere al meglio lo spirito persecutorio che il progetto di legge Nespoli aveva incarnato: l'espulsione come "misura di sicurezza" e l'espulsione "per flagranza di reato".

Nel primo caso si tratterebbe di una misura precauzionale che si dovrebbe basare sul semplice sospetto, da parte del questore, di un coinvolgimento dell'immigrato in attività criminali. Nel secondo caso verrebbero addirittura infrante per legge alcune fondamentali garanzie della persona, come la presunzione di non colpevolezza e il diritto di partecipazione al processo.

Se è vero che il decreto introduce alcune misure positive in materia di lavoro stagionale, ricongiungimenti familiari e assistenza sanitaria, complessivamente continua ad eludere le questioni centrali che già le precedenti leggi non sono riuscite a fronteggiare.

Un esempio particolarmente eclatante è l'articolo sulle regolarizzazioni. Il decreto infatti stabilisce che la regolarizzazione per motivi di lavoro, cioè il permesso di soggiorno, è concessa, entro 120 giorni dal decreto, su richiesta del datore di lavoro o dello stesso lavoratore, previo pagamento di 6 mesi di contributi (per il lavoro a tempo indeterminato, 4 per il lavoro stagionale).

Dopo il primo mese dall'entrata in vigore del decreto meno del 5% dei circa 400mila immigrati senza permesso di soggiorno ha fatto domanda di regolarizzazione, mentre, contemporaneamente, in molte città, soprattutto del Sud Italia, si sono moltiplicati i casi di licenziamenti.

Tutto questo doveva essere prevedibile considerato il fatto che la maggioranza degli immigrati lavora a nero, cioè non ha contratto di lavoro e non riceve contributi.

Di fronte alla richiesta di regolarizzazione da parte degli immigrati alle dipendenze e per paura dei controlli, molti datori di lavoro non hanno saputo fare di meglio che licenziare in tronco.

Se lo scopo di questo articolo sulle regolarizzazioni era quello di fare emergere il lavoro nero e assicurare i contributi all'INPS il risultato è stato sicuramente pessimo.

Si deve poi aggiungere che l'introduzione del contratto di lavoro e dei contributi come condizioni per la regolarizzazione mettono fuori gioco, cioè dichiarano illegali a priori e per legge, tutti i lavoratori autonomi (basti pensare ai venditori ambulanti).

Negli stessi giorni in cui viene approvato il decreto in Italia la questione immigrazione diventa oggetto di discussione a livello internazionale. Si svolge infatti a Barcellona la Conferenza euro-mediterranea a cui partecipano tutti i paesi dell'Unione Europea e 12 dell'area arabo africana.

L'idea base che emerge dalla conferenza è la creazione di un "area di stabilità" tra il Sud e il Nord del Mediterraneo, che, attraverso lo sviluppo economico delle aree cosiddette arretrate, porti entro i 5 anni alla nascita di uno spazio di libero scambio che andrebbe dal Sahara al Mar Artico.

Di fronte a questa prospettiva i paesi europei si propongono di incrementare la cooperazione per ridurre le pressioni migratorie, ritenute fonte di instabilità per le relazioni tra gli stati.

A livello internazionale viene quindi sancito quello che per l'immigrazione in Italia abbiamo chiamato "doppio trattamento": garanzie dei diritti per chi è immigrato legalmente e massima chiusura per gli immigrati illegali.

La chiusura delle frontiere, l'inasprimento delle politiche restrittive in materia di permessi di soggiorno (anche per rifugiati politici come ad es. i profughi dalla ex Yugoslavia e i curdi) ha sicuramente una spiegazione "europea".

A partire dalla legge Martelli anche il nostro paese si è allineato, come politica migratoria, alle normative vigenti nei principali paesi europei, con l'intenzione di entrare a far parte del cosiddetto "spazio Schengen".

Si tratta, in questo caso, di un esperimento portato avanti da sette paesi (Francia, Germania, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Spagna, Portogallo) che consiste nella libera circolazione, all'interno dello spazio territoriale comune sia dei cittadini dell'Unione Europea che degli extracomunitari. L'Italia è stata esclusa da questo esperimento anche a causa delle scarse garanzie rispetto al controllo degli ingressi alle frontiere.

In quest'ottica si può spiegare, a livello italiano ed europeo, l'accanimento istituzionale nei confronti dei clandestini e le politiche di chiusura.

Appare evidente dalla conferenza di Barcellona che la gestione coordinata dell'immigrazione è un aspetto centrale per la costruzione di un'area di libero scambio, che presuppone stabilità politica e sociale.

Ritornando all'Italia, in questi giorni il decreto emanato a novembre è stato reiterato senza nessuna modifica rilevante (è stata solo spostata di 15 giorni la data ultima per richiedere il permesso di soggiorno).

A nulla sono valse le proteste delle comunità di immigrati, delle associazioni, dei collettivi, di larga parte della società civile.

Restano gli articoli indegni sulle espulsioni, dopo che era passato addirittura un emendamento, fortunatamente annullato, che prevedeva l'arresto fino a tre anni per gli immigrati privi di soggiorno. Restano le incongruenze eclatanti, come quella per cui potranno chiedere di regolarizzarsi solo gli immigrati che hanno avviato un rapporto di lavoro prima del 19 novembre.

Resta l'assurdo dell'anticipo dei contributi, della assoluta ignoranza sulla sorte dei lavoratori autonomi, dell'espulsione come misura precauzionale.

Non c'è invece alcun pronunciamento legislativo sul diritto di voto, sulle garanzie sociali (come ad esempio il diritto all'alloggio), sul lavoro nero (che tanto ha arricchito il Triveneto e ha portato il PIL nazionale alle stelle), sul diritto all'istruzione paritaria.

In una situazione di grave arretramento delle politiche sociali nel nostro paese l'immigrato appare sempre più lavoratore che persona, sempre più merce di scambio politico che soggetto di diritto.

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CONCLUSIONI

Come abbiamo visto è a partire dalla prima metà degli anni '70 che viene rafforzandosi la necessità di creare organismi internazionali che da un lato riescono a controllare sul piano politico-sociale gli effetti della crisi, e dall'altro a mettere le basi per una ripresa economica su scala globale.

Accanto alla ridefinizione del ruolo del FMI BM in questi anni nasce e si consolida il G7 come organismo nelle mani della borghesia imperialista per la gestione coordinata (per quanto è possibile) della crisi a livello di governi.

Chiunque oggi si ponga nei confronti dell'attuale stato di cose con un atteggiamento antagonista deve fare i conti con le conseguenze economiche, sociali e politiche poste dal livello di globalizzazione raggiunto.

Lottare per il miglioramento delle condizioni materiali di vita in questa fase significa impegnarsi a ricercare quegli strumenti utili per incidere realmente sugli attuali rapporti di forza tra proletariato e borghesia.

In tale ottica deve essere affrontato anche il problema immigrazione che, come abbiamo visto, è tra le contraddizioni poste dal sistema quello più direttamente accostabile al discorso sulla globalizzazione.

Pensare di risolvere il problema in un ambito esclusivamente nazionale è ancor più un'utopia che organizzare una rete antirazzista europea che coordini le attività dei vari movimenti antagonisti nazionali.

D'altra parte la mobilitazione in risposta agli attacchi che gli stati membri dell'Unione Europea stanno portando avanti contro gli immigrati, può essere un'occasione per analizzare la dinamica del rapporto dialettico che intercorre tra dimensione nazionale e sovranazionale.

In primo luogo tale dialettica è alimentata dalla contraddizione che esiste tra quelle imprese in grado di delocalizzare la loro produzione e quindi di sfruttare la forza lavoro a basso costo nei paesi sottosviluppati, e quelle che producono in un ambito territoriale nazionale (a volte anche per il mercato sovranazionale) e che quindi necessitano della stessa forza lavoro proveniente dai paesi sottosviluppati, cioè immigrata.

In secondo luogo l'intervento economico delle I.M. nel paesi del Terzo Mondo ha come conseguenza il peggioramento delle condizioni materiali di vita delle popolazioni, come abbiamo già visto.

Tale peggioramento è la causa principale dei flussi migratori, in particolare verso i paesi più sviluppati che non sono in grado di sostenerne i costi sociali e politici.

Quindi sia il decreto legge in vigore sia il progetto di legge Nespoli sono due tentativi di adeguare la legislazione italiana in merito all'immigrazione ed alla regolarizzazione del lavoro degli extracomunitari al trattato di Schengen con il doppio obbiettivo di, da un lato rallentare il flusso d'immigrazione verso l'Europa (ed è forse questo l'aspetto più rilevante), e dall'altro costringere gli extracomunitari non regolarizzati ad una "maggiore" clandestinità, quindi ad una maggiore ricattabilità sul lavoro.

Questo è il tentativo dei paesi occidentali di far prevalere la domanda di lavoro sull'offerta, ricomponendo sul piano dell'interesse economico il contrasto tra imprese transnazionali e aziende nazionali, senza però superare le contraddizioni sociali e politiche che esso comporta.

Affrontare il problema da questa angolazione ci consente di rilanciare la parola d'ordine:

Contro gli accordi di Schengen

Costruiamo una rete antirazzista europea

 

Collettivo Politico di Sociologia di Napoli

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