QUADERNI DI CONTROINFORMAZIONE N. 5 - FEBBRAIO 1995

Il ritorno della dimensione proletaria
e le paure della sinistra

Possibilità e limiti delle politiche socialiste nella transizione al 21° secolo.

Un intervento di Karl-Heinz Roth su post-fordismo, toyotismo e insorgenza proletaria


Per molti mesi scienziati sociali di ogni estrazione hanno riportato dati sorprendenti che arrivano, per loro, ad un altrettanto sorprendente scoperta.
Il punto di vista prevalente era che la società si sta separando sempre più tra un terzo marginalizzato, che sono i poveri e i disoccupati, e una maggioranza ancora in grado di partecipare agli abbondanti raccolti della società orientata al successo.
E ora osservano una rapida trasformazione della società dei due terzi nella società a classe polarizzata in cui una larga base proletaria è in misura crescente messa a confronto con un assetto conservatore (di gestori privilegiati del sistema) e possessori di capitale che si arricchiscono con propensione via via più aggressiva. Essi notano anche che la tendenza è stata rafforzata dal fatto che lo stato si sta ritirando sempre più dai suoi precedenti impegni sociali nei sistemi di ridistribuzione.
Nel tentativo di definire questa tendenza, sono emersi due differenti tipi di interpretazione.
Da una parte vi è chi parla di un “ritorno” alle strutture di classe che la sociologia post-Nazi ha dichiarato da molto tempo defunte: la “forza lavoro integrata” si sta sciogliendo come neve al sole e viene sempre più sostituita dal classico “proletariato” e dal pauperismo stile 19° secolo.
Dall’altra ci sono analisi che enfatizzano il carattere di novità di questo sviluppo. Mettono a fuoco una tendenza implicita vista nel contesto globale della attuale depressione mondiale, verso forme di polarizzazione sociale che sono emerse direttamente nella transizione dai vecchi rapporti Fordisti di lavoro e di produzione ad un modello post-Fordista o modello di accumulazione “Toyotizzato”.
Una chiave di sviluppo è l’adeguamento alla struttura di classe della società giapponese; un espediente imposto dai topmanagers della cooperazione capitalista transnazionale. I precedenti meccanismi di regolazione del mercato del lavoro - dicono - inclusi i sistemi collettivi di contrattazione, sono stati cancellati.
I meccanismi statali di distribuzione orientati al welfare (stato sociale), si nota, vengono smantellati per generare una fonte di forza-lavoro drammaticamente impoverita, disponibile per ciò che perfino la direzione Daimler-Benz definisce oggi “una rivoluzione nelle aziende”.

(...)
C’è molto da dire per entrambe le interpretazioni. Per inciso, chiunque abbia seguito le correnti principali del dibattito nella storia sociale, si renderà subito conto che i recenti sviluppi nella società sono in drastica contraddizione con il miglioramento deterministico tradizionalmente proclamato dagli scienziati sociali: i 150 anni di lotta dei “ribelli” senza terra e senza denaro per diventare un proletariato industriale di lavoratori pagati, e da qui ad una “forza lavoro integrata” con assicurazione sulla malattia e pensione garantita.
Ciò che stiamo osservando adesso è un genuino ritorno della dimensione proletaria, dato che dietro il termine proletariato - un tempo usato cinicamente e sprezzantemente da generazioni di dirigenti reazionari per accomunare i lavoratori - stanno tutti quegli elementi che i venditori di forza-lavoro sperimentano ora in massa: lavori insicuri; il superamento dei “normali orari di lavoro”, improvvisi tagli salariali, e delle garanzie contro i rischi di malattia, invalidità ed età sempre più insicure.
Inoltre questo proletariato nuovamente emergente è caratterizzato anche da elementi molto specifici che contraddicono le esperienze dei secoli 19° e 20°, per la semplice ragione che non si stanno verificando agli inizi dell’industrializzazione capitalista, ma nella fase più avanzata della ristrutturazione del sistema mondiale capitalista, fortemente marcata da fenomeni di deindustrializzazione.
Cosi osserviamo, abbastanza ovviamente, i due lati della stessa moneta.

Se perfino i consulenti delle scienze sociali nei centri di potere capitalistici identificano l’emergere di un nuovo proletariato dalla destabilizzazione (deregulation) della “società dei due terzi”, certamente allora noi a sinistra dovremmo aver analizzato e discusso questa tendenza di sviluppo molto prima.
Tuttavia vi sono state sempre meno analisi di questo tipo negli anni recenti.
Io definisco tuttora “essere a sinistra” chi ha molto a che fare con le classi sociali sfruttate: a partire dalla loro situazione dovremmo derivarne strategie per l’azione indirizzate ad abolire i rapporti di sfruttamento in generale.
Vedo un grande pericolo nella crescente separazione tra il dibattito a sinistra ed i reali sviluppi della classe.
Esiste ancora un’altra ragione importante per dare un indirizzo a questo problema: molti a sinistra si trovano catapultati nei segmenti più bassi e sempre più “precari” dei mercati del lavoro sconvolti dai recenti sviluppi nel processo di proletarizzazione.
Questo è a mio avviso un fenomeno paradossale, che spiega forse le crescenti riserve della sinistra verso una classe lavoratrice risospinta nella proletarizzazione. Siamo noi stessi sempre più l’oggetto di questo processo e, proprio per questa ragione, alcuni di noi cercano di sfuggire al livello di metafore, per compensare e soffocare la minaccia concreta di impoverimento delle nostre stesse vite.
Proprio perché il processo di proletarizzazione sta dominando sempre più la nostra esperienza quotidiana, molti di noi possono reagire soltanto con l’aiuto di meccanismi di preoccupazione ad uno sviluppo che viene accettato senza riflettere.
In questi fogli voglio dimostrare che un’analisi di classe ha sempre costituito la guida migliore all’azione, facendo dei reali cambiamenti che interessano gli strati proletari il punto di partenza per la nostra strategia.
Abbiamo bisogno di una strategia nuova e funzionale in grado di offrire un’alternativa alla cultura diffusa di paura ed autoaccusatoria di una sinistra minacciata di estinzione. (....)


L’apparizione della società a classe aperta a partire dagli ‘80

Il caso dell’Italia
Nell’estate del 1980, dopo le ferie aziendali, la direzione della fabbrica d’auto Fiat licenziò 24.000 dipendenti a Torino, inserendoli in uno speciale schema appositamente creato e finanziato con un “fondo di integrazione” (Cassa Integrazione) del governo inizialmente limitato ad un periodo di 18 mesi con compensazione governativa per i salari perduti.
I lavoratori Fiat reagirono con un duro sciopero che, all’inizio, venne sostenuto dai sindacati metalmeccanici.
Nel corso dei 35 giorni di sciopero, la conflittualità si insinuò nel nocciolo duro della forza lavoro. Dopo che i colletti bianchi Fiat indirono una manifestazione antisciopero il 14 ottobre, il più forte sindacato dei metalmeccanici, la FIOM, trovò l’accordo nel corso di un incontro che si chiuse con le dimissioni dei suoi stessi membri.
Questa sconfitta volse rapidamente in una disfatta. Verso la metà degli anni 80 la forza lavoro Fiat era dimezzata, e lo schema di integrazione sviluppato in una serie di istituzioni repressive permanenti.
La brillante operazione del padrone della Fiat Agnelli rivelò come il segnale di partenza per lo smantellamento del potere del sindacato radicato nelle commissioni interne ai posti di lavoro degli “operai massa” e per la distruzione della militanza dei lavoratori, che si era fortemente radicata in tutta Italia fin dalla fine dei ‘60.
Ispirato dal modello Fiat, il decentramento si diffuse alle più importanti aziende e portò con sé la rottura della precedente solidità della forza lavoro.
Tentativi di bloccare questo sviluppo per mezzo di “ronde proletarie” vennero stroncati nel corso di una brutale campagna di repressione politica. L’Italia attraversò un decennio di repressione politica e sociale estremamente dura.
Finora le conseguenze per la classe operaia, il movimento autonomo dei lavoratori e per i sindacati hanno avuto una scarsa attenzione all’estero.
Il dispotismo Fordista venne consolidato nei posti di lavoro dal rinnovamento tecnologico e, grazie al decentramento diffuso all’intero apparato di produzione, questo dispotismo poté insinuarsi giù fino alle tradizionali officine artigiane.
Tutti i settori dei tre segmenti della piramide lavorativa (settore pubblico; settore privato con inclusi i rapporti di lavoro formali delle grandi e medie attività come di quelle familiari ed artigiane; ed il settore della sottoccupazione) vennero sottoposti ad una drastica riorganizzazione dei lavoratori regolari, che vennero ancor più discriminati a causa della loro militanza o per ridotta efficienza.
La rete di sicurezza sociale venne erosa ed i sottoccupati furono smistati sulla base dei nuovi schemi di lavoro dei settori pubblico e privato.
I sindacati cambiarono accettando la rottura dello stato assistenziale (welfare state).
Una nuova struttura fu costituita di minuscole attività e lavoratori autonomi (“lavoro autonomo’” come analizzato da Sergio Bologna). Alla fine degli anni ‘80 il loro numero era cresciuto fino a 6 o 7 milioni, permeando interamente la gerarchia del movimento del lavoro e rendendola più flessibile in ogni direzione.
Alla fine dei ‘90 fu ancora la direzione Fiat, dopo un decennio di drammatica ristrutturazione, a prendere l’iniziativa.
Prendendo pieno vantaggio dalla nuova situazione, questa volta Fiat è stata influenzata dal modello di sfruttamento verticale dell’industria giapponese, cioè riformando i rapporti tra centri di cooperazione, fornitori e i più piccoli produttori (la “produzione flessibile” e la “fornitura flessibile” del toyotismo.

Il Messico
Tra il 1980 e il 1982 l’economia mista del Messico cadde in una grave crisi debitoria e alla fine andò fuori controllo.
Dato che tutte le misure del governo per contenere la fuga di capitali erano fallite, nel 1982 lo stato annunciò che era in bancarotta.
L’ “internazionale” neo-liberista dei mercati finanziari (FMI e Banca Mondiale) impose il primo “big-bang”, destrutturando un’intera economia. Il governo effettuò una politica di bilancio restrittiva (risparmi, tagli alla spesa, ecc.) e iniziò la privatizzazione delle imprese di stato.
La crescita zero fu scelta quale prezzo per riguadagnare il controllo sul debito estero del paese. Venne dato accesso senza limiti al capitale estero nei mercati domestici. L’unico settore finanziato fu quello del mercato privato all’esportazione.
Verso la metà degli anni 80 queste misure individuali arrivarono al punto di formare assieme una politica organizzata di “costi concorrenziali e vantaggi di posizione” nella quale il fattore più importante nell’attrarre nuovi investimenti stranieri si dimostrò essere l’impiego della forza lavoro al prezzo più basso possibile.
Il salario minimo ufficiale ed il tasso di sconto (union rate) caddero entrambi del 56% in termini reali tra il 1980 ed il 1991.
La disoccupazione di massa fu accoppiata ad un adeguato smantellamento dello stato assistenziale, che finì con la privatizzazione dei servizi sanitari e scolastici.
Oggi, 41 dei 91 milioni di Messicani vivono al di sotto della soglia ufficiale di povertà, 7 milioni dei quali vivono in condizioni di bisogno disperato.
Il solo settore rimasto in crescita sono state le “maquilladoras” cioè le zone di libera produzione che sono state consolidate soprattutto lungo il confine con gli USA. Il 90% di queste sono in mano ad imprese statunitensi e contano sugli introiti dell’80% del volume dell’export messicano.
Questa nuova zona a bassi salari fabbrica prodotti intermedi per le imprese USA, sulla base dello sfruttamento intensivo del lavoro e di alto inquinamento ambientale.
I lavoratori (70% dei quali sono donne ad un’età media molto al di sotto di quella della classe operaia della fallimentare industria del settore pubblico) vengono fisicamente rovinati dalle condizioni terroristiche di lavoro.
Lo stesso accade per la comunità più allargata, i cui figli ed anziani cadono vittime di un inquinamento crescente di terra ed acqua.(...)


Globalizzazione del sistema mondiale capitalistico e proletarizzazione globale

Come i succitati esempi mostrano, la ristrutturazione delle condizioni di occupazione è proceduta, nel corso degli anni 80, da diversi punti di partenza.
In Italia un’impresa ha indicato la tendenza nel riformulare i rapporti di classe dall’inizio del secolo ed è stata questa stessa società che è riuscita a distruggere le conquiste di 12 anni di lotte dei lavoratori.
In Messico sono state le istituzioni finanziarie internazionali a por fine ad un percorso corporativista di industrializzazione1, basato su di un forte settore statale teso a superare la dipendenza dall’import e rompere l’unico aspetto rilevante del paese nel servire i mercati internazionali delle materie prime.
In Francia, ad esempio, possiamo notare ancora una diversa situazione. Qui, il tentativo post-keynesiano di stabilizzare l’economia da parte del governo socialista eletto da poco era inteso ad assicurare uno spazio più vasto di manovra per la politica nazionale di fronte alla strategia emergente di destabilizzazione (deregulation) dei mercati finanziari internazionali e delle valute. Il tentativo era destinato al fallimento fin dall’inizio.
In tutti questi casi, tuttavia, le conseguenze per la politica sociale e del lavoro sono state del tutto identiche: l’apertura dei mercati del lavoro e la rimozione dei meccanismi regolatori ha aperto la strada ad una drammatica ristrutturazione e riproletarizzazione della classe lavoratrice.
Il risultato è una marginalizzazione di tutti gli strumenti precedentemente usati per puntellare lo status quo delle politiche di classe, in ogni caso: corporativismo (Messico), attività di selezione e controllo (Italia) e statismo assistenziale (Francia). Inoltre in più settori i lavoratori sono stati costretti ad accettare dolorosi tagli in quelle garanzie sociali elementari per le quali avevano combattuto e che avevano riguadagnato fin dal 1940, soprattutto nei ‘60: normale orario di lavoro, 40 ore settimanali, stabilità dei salari, assistenza garantita dallo stato per compensare la perdita della capacità lavorativa per età o malattia.
Il capitalismo sovraccumulato dei mercati finanziari globali2 ha trovato più punti per attaccare i mercati di lavoro stabili e “scardinarli”, spingendo da parte le politiche basate sulle alte retribuzioni ed orientate all’integrazione e all’assistenzialismo statale, come pure i contratti negoziati dal sindacato e gli storni sociali.
Poiché gli investimenti divenivano sempre meno vantaggiosi nel ciclo precedente, il capitale - nella sua forma più aggressiva, quella monetaria - ha cominciato allora una ricerca globale di condizioni di miglior valorizzazione3. In molti settori il lavoro è stato reso “flessibile”, sospinto nel mercato libero e progressivamente impoverito.
Gli esempi nazionali succitati sono solo una parte del movimento mondiale di ristruturazione - un movimento che ha lasciato segni evidenti anche in quelle economie che, alla fine degli anni 80, non erano ancora state costrette ad affrontare questi drammatici cambiamenti.


Collasso del Socialismo di stato

Questi sviluppi hanno trovato ulteriore fondamentale spinta sulla scia del collasso del socialismo di stato nell’Europa dell’Est nel 1990/91.
La destabilizzazione neo-liberista è andata avanti fino a diventare buonsenso comune a tutte le élites politiche portate al potere dai cambiamenti avvenuti in Europa dell’est e sudest. Nelle loro mani e sotto la guida separata delle istituzioni finanziarie internazionali la destabilizzazione (deregulation) neo-liberista ha germogliato una filosofia della distruzione rapida e completa di tutte le strutture economiche di Stato*.
La destabilizzazione non è stata legata ad alcun programma di riorganizzazione industriale.(...)
Il capitalismo globalizzato integrerà cinicamente i lavoratori altamente specializzati scaricati dalle imprese di stato in fallimento nell’Europa dell’est nei più bassi ranghi della sua scala di basse retribuzioni, ora in funzione a dimensione globale. E, per creare un esercito industriale di riserva di disponibilità idealmente illimitata, il capitale farà ogni cosa possibile per costringere la grande maggioranza dei “nuovi dipendenti” - ora in lotta per il loro sostentamento sui mercati dell’occupazione di tutto il mondo - ad accettare lo stato permanente di “lavoratori autonomi”.
In seguito agli sviluppi in Europa Orientale, i lavoratori autonomi sono venuti a costituire un nuovo tipo di forza lavoro globalmente disponibile con capacità superiori alla media. Questi lavoratori stanno già eseguendo quantità enormi di lavoro, una parte crescente del quale è lavoro non pagato.(...).
Prima dei cambiamenti in Europa Orientale nel 90/91, era ancora molto dibattuta la questione se la teoria dell’offerta del monetarismo neo-liberista offre più di una semplice legittimazione ideologica alle politiche di riorganizzazione e radicalizzazione globale dei termini di sfruttamento.
Questa questione ora è decisa: l’esperienza nell’Europa Orientale indica chiaramente che il neo-liberismo porta niente di più che alla distruzione di tutte le strutture economiche che incontra allo scopo di ottimizzare le strategie di valorizzazione perseguite dal capitale mondiale - strategie che si autodefiniscono con finalità di autoregolazione e che non richiedono ulteriore controllo economico.
La conseguenza definitiva sarà un nuovo unico proletariato in un unico mondo capitalista. Le vecchie differenze strutturali tra primo, secondo e terzo mondo stanno sparendo poiché i tre piani vengono sempre più livellati verso il basso, interconnessi e coordinati.
Allo stesso tempo osserviamo, entro i mercati del lavoro orizzontalmente intrecciati, una gerarchizzazione verticale progettata dalla “Triade” (Giappone-Estremo Oriente, Nord America ed Europa Occidentale). Da queste tre basi territoriali il capitale sta modellando il proletariato mondiale emergente.
Tuttavia le nuove interfacce della Triade non forniranno speciale protezione alle rispettive classi lavoratrici. Le organizzazioni di classe dei lavoratori tenderanno a perdere ogni possibile vantaggio derivante da speciale adattamenti basati sui blocchi nazionali o di mercato dato che lo stato (nazionale o sovrannazionale) non può più giocare il ruolo di “intermediario” o di partner sociale che mantiene lo status quo attraverso il compromesso.(...)



(*) Monetarismo neo-liberista: la teoria che l’economia dovrà tendere ad un equilibrio se viene tenuto uno stretto controllo sull’offerta di capitali e la spesa pubblica. L’idea è che la quantità di merci e servizi (offerta) incontra la quantità di denaro (domanda) così da prevenire l’inflazione. Il monetarismo ha modificato l’ideologia ufficiale nella “economia dell’offerta”, cioè la destabilizzazione (deregulation) dell’industria, forte riduzione delle retribuzioni minime e della fornitura dei servizi di stato (welfare), taglio della tassazione sui capitali per migliorarne la redditività - in opposizione alle misure orientate alla domanda (crescita attraverso l’aumento del potere d’acquisto sostenuta dai sindacati e dalla socialdemocrazia (vedi Keynesismo).


Nuovo modello di accumulazione


Sulla base di questa nuova struttura di potere il capitale ha affermato ora un nuovo modello di accumulazione mondiale.
I suoi fautori denunciano la rigidità del vecchio modello Fordista di produzione, troppo statico e ancorato alle alte retribuzioni.
Dall’inizio degli anni 90 le decisioni di investimento strategico delle società transnazionali non sono più caratterizzate da un approccio Fordista ma dalla filosofia della redditività “post-Fordista” della Toyota, emersa in Giappone dopo la sanguinosa soppressione dei sindacati-Sanyo negli anni 50.
I settori in precedenza largamente basati su alte retribuzioni vengono scomposti in “comunità corporative” terroristicamente e socialmente integrate ai centri di produzione e sviluppo delle 600 società transnazionali che richiedono non più del 15-20% di lavoratori salariati.
A partire da questi centri tecnologici, vengono sviluppate piramidi di lavoro dipendente, ognuna con una gerarchia di rapporti di sfruttamento alla cui base stanno le officine ed i reparti in cui il lavoro costretto (forzato) viene eseguito da gruppi marginali (etnici o criminalizzati).
Il ruolo di riserva passiva e di fonte (risorsa) produttiva per tutti i livelli della “produzione flessibile” viene giocato dai “lavoratori autonomi”, nelle cosiddette economie-ombra, che provvedono al trasferimento verso l’alto di tecnologia povera ed al collegamento verso il basso con un esteso scenario fatto di sottoccupazione e disoccupazione strutturale.
Se tuttavia,entro queste nuove piramidi di sfruttamento costituite dalle transnazionali, dovessero sorgere frizioni o conflitti, allora - con l’aiuto delle nuove tecnologie di comunicazione e dei metodi di produzione (specialmente produzione integrata di computer) - la fascia orizzontale delle basse retribuzioni, estesa in ogni continente, verrebbe rimessa in gioco.
Swissair per esempio ha rilocalizzato il proprio dipartimento contabile dall’area di Zurigo all’India.
Le multinazionali hardware statunitensi stanno chiudendo interi reparti di sviluppo a Silicon Valley per accaparrarsi lo staff associato agli istituti di ricerca fisica di Mosca ad un cinquantesimo del salario americano.
Così, nemmeno i settori altamente qualificati della piramide del lavoro vengono risparmiati dalle conseguenze della destabilizzazione e ristrutturazione dei mercati del lavoro.
Il ritorno ed il “ridarsi” di una dimensione proletaria sta pertanto affermandosi nel contesto di un cambiamento strutturale dell’intero sistema mondo.
Il nuovo proletariato risulta dalla trasformazione e dal livellamento verso il basso dei differenti stadi di sviluppo connessi allo sviluppo capitalista.
Se questa trasformazione fallisce il risultato sarà la deindustrializzazione e pauperizzazione di interi subcontinenti e ci sarà un ulteriore degrado delle zone economiche relativamente stabili, che già sono degradate nel corso degli anni 70 ed 80.
Il post-fordismo, tuttavia, non è un modello di deindustrializzazione, ma equivale ad una radicalizzazione globale dei rapporti capitalistici. Quale risultato della prima destabilizzazione (deregulation) e dei cambiamenti strutturali esso ha generalizzato la caccia globale alla forza lavoro a basso costo in una misura fino ad ora sconosciuta.
Il post-Fordismo/Toyotismo rappresenta il tentativo attuale dei mercati finanziari internazionali di espandere l’unica forma nella quale il capitale in contrasto con la sua forma monetaria ed assistenziale - può veramente crescere, cioè la fase della produzione.
Lo scopo è quello di far crescere ovunque il livello preteso di redditività del capitale produttivo soprattutto aumentando l’appropriazione sul lavoro non pagato.


Gli sviluppi nella Repubblica Federale prima e dopo l’annessione della DDR

Anche la Repubblica Federale ha preso parte alla ristrutturazione globale nel corso degli anni 80, anche se all’inizio non vi furono radicali sconvolgimenti.
Il punto di partenza per il cambiamento è stata la disoccupazione di massa strutturale, che è continuata ad un livello piuttosto alto nonostante l’effetto del boom del 1983/84.
Sotto il mantello di ciò che sembravano normali affari nelle relazioni industriali (normali accordi collettivi, ecc.), le aziende intrapresero processi via via crescenti di produzione esterni alla sfera di influenza del sindacato e del normale orario di lavoro ed iniziarono a ricostituire all’estero settori a lavoro intensivo per “lavorazioni a contratto”.
La normale giornata lavorativa si presenta sempre meno nella sua forma definita per condizioni sociali ed occupazionali.
In aggiunta, la privatizzazione delle società a proprietà statale della metà degli ‘80 ha tolto molte forme di privilegio al “lavoro nel settore pubblico”.
In più, un ruolo molto importante è stato giocato dai cambiamenti delle politiche sul mercato del lavoro che hanno via via reso più confusa ogni distinzione tra occupazione e disoccupazione ed ha fissato nuove misure per il contenimento della disoccupazione (il governo ha stabilito piani per la creazione di lavoro, iniziative di riqualificazione, ecc.).
Infine, il trasferimento da parte dello stato di elementi di salario indiretto via via diminuito: il tasso di assistenza sociale (il rapporto tra benefici sociali e prodotto sociale) è caduto ancora sotto il livello del 30% alla fine del 92, mentre i contributi nella busta paga salivano rapidamente.4
Il risultato d’insieme è stato una graduale erosione delle condizioni di occupazione a tutti i livelli della struttura, anche se, formalmente, queste sono rimaste integre.
Nel 1984/85 i sindacati riuscirono perfino a bloccare temporaneamente i progetti delle associazioni dei datori di lavoro contrattando complessi modelli di partecipazione (partecipazione, co-determinazione, “umanizzazione” del lavoro) nel contesto di una ristrutturazione dei settori ad alta tecnologia e ad alta retribuzione.
Ma mentre la direzione ed i dirigenti sindacali cercavano di coprire il processo di trasformazione strisciante sotto il velo della collaborazione sociale, una “Commissione per la Destabilizzazione” (deregulation) si metteva al lavoro per conto del governo federale fin dalla metà degli ‘80 con lo scopo di accelerare l’inizio dell’adeguamento del mercato del lavoro della Germania Ovest al processo di destabilizzazione globale.

Il passaggio più evidente ed irreversibile risultò dapprima l’annessione della DDR, la cui economia nazionale venne rapidamente distrutta nell’autunno del ‘90 con l’uso di strumenti di politica monetaria.
Parallelo a questo sviluppo venne imposto il modello di sviluppo della Treuand-Anstalt (l’agenzia governativa di amministrazione responsabile della vendita delle imprese dei “nuovi Lander”), un modello di destabilizzazione che fino ad allora era stato applicato in modo piuttosto indeciso.
Come la DDR si disintegrò, un’orgia di privatizzazioni neo-liberiste venne immessa - evidentemente come funzione sperimentale per l’intera economia tedesca.
Per impedire che la ribellione sociale andasse fuori controllo, il processo di deindustrializzazione dispiegato su di un vasto fronte venne accompagnato ad un uso estensivo di strumenti di politica di regolazione del mercato del lavoro.
Come nel caso delle “Reaganomics” degli ‘80, che combinarono la destabilizzazione dell’economia USA con un finanziamento del debito attraverso il boom degli armamenti, il governo conservatore tedesco appoggiò al suo progetto di distruzione economica neo-liberista un’espansione del credito per ragioni di politica occupazionale.
Questa strategia, che ha raggiunto da tempo i limiti della propria sopravvivenza, è una combinazione di destabilizzazione geograficamente contenuta e di disposizioni keynesiane per la creazione e lo sviluppo dell’occupazione.
Può essere definita “Kohlonomics”.

(…)
Da una popolazione lavorativa di circa 10 milioni nella precedente DDR quasi la metà sono diventati disoccupati e 4 milioni di lavoratori dipendono ora completamente o parzialmente dai finanziamenti statali della Germania Ovest per le misure volte all’occupazione.
Ufficialmente questa “stazione di rifornimento” economico serve in “funzione di ponte” nella politica occupazionale governativa. Il lavoro industrialmente qualificato viene tenuto in riserva finché l’economia di automantenimento non riprenda in maniera favorevole così da assorbirlo come previsto dalla politica di privatizzazione.
All’inizio del 1992 circa 2 milioni di cittadini dell’ex DDR hanno terminato il loro lavoro a tempo breve, inserendosi in corsi ulteriori di qualificazione e riqualificazione,o aggregandosi ai piani per la creazione di nuova occupazione,o andando in prepensionamento. Nel frattempo il numero totale coinvolto è raddoppiato e gli strumenti di medio termine per stabilire speciali disposizioni di contenimento del lavoro in eccesso (qualificazione, riqualificazione, agenzie di creazione lavoro, ecc.) hanno dovuto essere rafforzati.

(…)
Le società ed imprese private in attesa della privatizzazione hanno preso un approccio molto selettivo alla perdita del lavoro.
Chi viene più brutalmente colpito sono le donne, anziani lavoratori,giovani non qualificati e lavoratori stranieri. Ciò che emerge è un mercato del lavoro di riserva flessibilizzato con introiti che sono la metà di quelli dell’Ovest.
(…)
Ora il risultato dell’annessione della DDR è che perfino la Germania ha al suo interno ghetti di deindustrializzazione (come in Francia), combinati con zone di povertà di massa (come in Italia e Messico), e tutto questo col retroterra di un mercato del lavoro in riserva gonfio di sottoccupati - un mercato nel quale i lavoratori vengono sottoposti a pressione crescente in conseguenza dell’insediarsi in Europa Orientale di zone a bassa retribuzione.
Nell’anno dell’ “unificazione” la Germania si è trovata catapultata improvvisamente - ma nel proprio modo specifico - nella strategia di destabilizzazione del sistema mondiale capitalista. La Germania è già diventata casa per 4 milioni di lavoratori regolari, 3,5 milioni di disoccupati ufficiali (2,3 milioni all’Ovest, 1,2 nella Germania Est) e 3,7 milioni di sottoccupati “parcheggiati” nei progetti di riqualificazione e creazione di nuova occupazione.

(…)
Di fronte a tali drammatici sviluppi nei territori incorporati da poco si sono determinati impatti maggiori che nell’insieme del mercato-lavoro nazionale.
I lavoratori occupati nei centri ad alta tecnologia sono stati sottoposti a crescente pressione. Ondate di licenziamenti si sono accompagnate ad epurazioni deliberate nei settori della fornitura di componenti e ad un ampio attacco all’istituto della normale settimana lavorativa.
Condizioni di lavoro precario ed irregolare stanno diventando la norma in più settori.
Nel servizio postale il 70% di tutti gli occupati lavora ora a tempo parziale.
Ci sono 2,3 milioni di occupati sottopagati, ad orario ridotto, condizioni che impediscono la richiesta di assistenza e previdenza sociale.
Il 20% di tutti gli studenti sono essenzialmente lavoratori salariati senza tutela.
Gli editori dei giornali tedeschi utilizzano ora più del 60% della loro manodopera sulla base di contratti individuali.
In agricoltura e nell’edilizia i rapporti di lavoro stagionali, sottopagati e con lavoratori emigrati sono diventati la norma.
Agenzie per lavori temporanei e di subappalto del lavoro sono sorte ovunque, specializzate nel tappare le falle create dalle ristrutturazioni nei diversi rami dall’industria, contribuiscono al taglio dei salari.
La maggior parte delle statistiche ufficiali non fa cenno sulla vastità del boom nei cosiddetti segmenti del lavoro saltuario.
Un velo di disinformazione ancora più fitto permea la forma più recente di dipendenza dal salario: i lavoratori autonomi, che non sono assolutamente registrati.
In Germania Ovest l’inizio del loro impiego può datarsi attorno ai primi anni 80, quando un numero crescente di disoccupati e di lavoratori con precarie condizioni di occupazione lasciarono il mercato del lavoro ufficiale per cercarsi una nicchia come “lavoratori autonomi”.
Più del 50% delle attività commerciali regolarmente registrate sono fallite dopo i primi 5 anni, ma queste persone hanno acquisito allora lo stato di mini-imprese economicamente dipendenti i cui guadagni restano nella zona grigia, cioè con tendenza media allo standard minimo ufficiale di vita. Il loro numero è aumentato per gli sviluppi successivi all’annessione della DDR.

(…)
Questi lavoratori autonomi, assieme ai lavoratori saltuari, pervadono ora l’intera piramide del mercato del lavoro segmentato, sia in Germania Ovest che nell’Est. Oggettivamente essi esprimono la tendenza generale nel post-Fordismo all’erosione del carattere salariale del lavoro, allo status autonomo del lavoro e alla rimozione dei rischi sociali associati al lavoro permanente nel rapporto lavoratore-datore di lavoro. Anche in Germania la tendenza è che il lavoro autonomo divenga la forma dominante di lavoro al livello di lavoro subordinato di fabbrica nei rapporti di produzione post-Fordisti.
Nel perseguire questa strategia il capitale trae vantaggio da un importante aspetto soggettivo nel cambiamento della cultura del lavoro: il bisogno di autonomia individuale della gente, per attività di lavoro autodeterminate e per una maggiore scelta nei modelli di orario lavorativo.
Quei lavoratori autonomi che hanno optato per, o sono stati costretti a lasciare le strutture stabili di occupazione regolare hanno spesso capacità superiori alla media e godono di buoni collegamenti con una serie di schemi e di “spazi parcheggio” per il lavoro qualificato nel campo dell’istruzione e della tecnica.
Ciononostante essi stessi si trovano costantemente messi a confronto con l’insidia della povertà.
Così ci ritroviamo qui con un sistema di produzione che ha il potere sociale di contenere queste nuove forme di lavoro permanentemente intorno al margine del livello di sussistenza, ed allo stesso tempo in grado di prendere indiretto vantaggio dall’alta motivazione individuale dei soggetti nel processo lavorativo - indipendentemente dal fatto che essi siano esclusi dall’andamento delle entrate e dalle garanzie sociali che vengono invece fornite al personale centrale nell’esecuzione del lavoro di gruppo nei reparti fondamentali delle imprese maggiori e nelle società privilegiate.
(…)


Post-fordismo/toyotismo come segmento stato nazione dei rapporti globali di classe

1 - La strategia del capitale
Il modello Giapponese è già arrivato nelle sale dei consigli di amministrazione delle grandi e medie società tedesche.
E’ partito da alcuni dei gruppi maggiori - in particolare VW, Opel, Krupp ed alcune società di informatica - sperimentandosi con il “lavoro di gruppo”.
Il modello è stato applicato a sempre più numerosi settori dell’economia.
I dirigenti stanno imparando come applicare il “Toyotismo” attraverso viaggi studio, congressi internazionali, discussioni sul famoso studio del 1991 del Massachusetts Institute of Technology, l’esame delle imitazioni Fiat e del “trasferimento di impianti” Anglo-Tedesco da parte di produttori d’auto giapponesi.
Ora questo è caratteristico dell’intera cultura corporativa in Germania.
Il focolaio iniziale venne dall’aumento di produttività per le attrattive di “partecipazione” di un’elite di lavoratori di gruppo ben pagati riuniti insieme in “comunità aziendali”.
Controllo della produzione e della qualità vengono riuniti in un unico processo, i problemi di produzione vengono risolti discutendo e provando sul luogo, e le gerarchie d’organizzazione su base rigida dei reparti amministrativi vengono smantellate e sostituite da sistemi di “produzione flessibile”.
Nel contesto della recessione la direzione aziendale ha studiato con cura la riorganizzazione dell’intero sistema di offerta, rimodellandolo in una nuova catena di sfruttamento.
Tre quarti della capacità totale di produzione è ora appaltata ai “livelli inferiori” e messa in funzione attraverso consegne “just in time” (nel tempo adatto) lungo la catena di produttori e magazzini di stoccaggio.
Ovunque vi sia resistenza ai dettami di questo regime di produzione, il capitale può rispondere appoggiandosi alla concorrenza internazionale a bassi salari.
I nuovi conglomerati corporativi guadagnano ai loro centri di sviluppo e produzione un controllo crescente sulla produzione tecnologica informale delle squadre di lavoro.
Questo viene raggiunto con un’estensione attenta dell’autorità.
I circoli di qualità sono uno strumento per raggiungere “balzi quantitativi” in produttività, come parte della battaglia per centrare obiettivi di produzione crescente.
Crollati dal punto di vista fordista gli scopi del lavoro, il dispotismo della vecchia fabbrica viene cerimoniosamente seppellito in nome dei rapidi avanzamenti nei profili di prestazione di squadra. Lo scopo è dimezzare i tempi di produzione ed i costi dei materiali per i nuovi prodotti, riducendo allo stesso tempo in realtà il tasso di investimento in macchinari ed attrezzatura.
Drasticamente ridotti i livelli di scorta (giacenza), con la perdita continua di personale produttivo ed amministrativo ci si presume di raddoppiare il rendimento.
Tutto questo è possibile se la forza-lavoro si identifica con gli obiettivi corporativi ad un grado fino ad ora sconosciuto.
Dai livelli più alti fino alle squadre di lavoro in catena di montaggio, ognuno dovrebbe adesso “pensare che l’azienda si auto-regoli”, accettando i livelli di paga dell’azienda e individuando i comitati d’azienda e i mediatori d’azienda come le forme esclusive di direzione e mediazione del conflitto.
Come in Giappone, l’intenzione è quella di creare un’accettazione intrinseca e senza lamentele nei confronti dell’estrazione completa di ogni componente fisica, mentale e cognitiva dal processo lavorativo.
La nuova gerarchia sta anche prendendo forma nei segmenti d’offerta servendo i vari conglomerati corporati.
Nella “offerta (produzione) flessibile” viene tracciata una distinzione tra produttori (fornitori) di sistema, produttori di serie e sottoproduttori (sottofornitori).
Nel caso di fornitori di sistema c’é, in generale, una tendenza a copiare il modello della comunità aziendale d’integrazione, posta al centro, che offre per esempio garanzie relativamente stabili su paghe ed occupazione.
Nei segmenti subordinati, tuttavia, le richieste formulate dalle corporazioni-guida per i bassi costi e le richieste del “just in time” possono essere raggiunte in linea di massima con i lavori “non protetti”: week-end lavorativi, contratti a part-time sottopagati per periodi di picco, sistemi a doppio-triplo turno senza paga extra, elusione dei costi indiretti di salario spostando più sezioni di forza lavoro dal sistema di sicurezza sociale, e lavoratori a basso salario senza alcun diritto, reclutati dall’ultimissima ondata migratoria. Il settore trasporti inoltre viene incorporato nella catena della produzione flessibilizzata con responsabilità sulla determinazione dei tempi (timing) e sullo stoccaggio.
Le piccole e medie imprese di trasporto vengono ora caratterizzate da condizioni di lavoro barbariche.
Vi farò ora brevemente vedere come, sull’esempio di Daimler-Benz, la ristrutturazione viene imposta nella pratica.
Dapprima l’impresa tiene una serie di conferenze durante le quali vengono impartite ai “top managers” le nuove “linee di guida” della Toyotizzazione, che culminano con una grande conferenza a Berlino con 1900 partecipanti (al motto: “L’impresa si sta ripensando”).
Parallelamente vengono tenuti degli incontri con il personale per introdurre il “nuovo modello”. Vengono indicati i concetti relativi a questi eventi, illustrati con l’aiuto di “moderatori” esterni, concetti che ricevono poi il benvenuto propagandistico da parte dei dipendenti Daimler-Benz nei rispettivi impianti del gruppo.
Così la ristrutturazione toyotista si ripercuote non solo nei confronti dei dipendenti delle ditte fornitrici.
Questo è emerso nel corso dell’accordo recentemente annunciato e concordato dal personale della Mercedes-Benz officine autocarri a Worth. Il consiglio di fabbrica ed il sindacato metalmeccanico IG vengono sottoposti a forte pressione con la minaccia della chiusura di interi stabilimenti nel caso di un rifiuto dell’accordo. La direzione afferma di poter riaprire l’impianto con una joint-venture nella Repubblica Ceca.
Tutti i tempi di prestazione del lavoro vengono tagliati del 20%. Il lavoro di gruppo imposto quale metodo predominante di produzione.
Nel “continuo processo di miglioramento” ogni squadra ha dovuto sottoporsi ad un aumento della produttività annua del 7% e concordare sul sistema a tre turni e rilavorazione a costo-zero nel caso di bassa qualità.
Tutto questo si accompagna ad un continuo “sottodimensionamento”, con tagli del lavoro che vanno dal piano officina al settore amministrativo medio.
Parlando con i gruppi sindacali di sinistra e leggendo i pochi restanti giornali schierati a sinistra diventa chiaro che Worth non è più da tempo un caso speciale.
Dietro l’apparenza della partecipazione offerta dala Toyotizzazione possiamo intravvedere una “strategia di recupero” radicale che dispensa un ulteriore incremento nell’intensità di capitale adattandolo ad una rapida spinta del tasso di sfruttamento.
Ciò che sta avvenendo qui negli impianti incorporati sarà, tuttavia, imposto nei settori di produzione accessoria con ancor maggiore severità e con molta meno disponibilità al compromesso.
Infine, è evidente che i sindacati hanno, consapevolmente, messo in moto la propria distruzione accettando questa riorganizzazione del rapporto sociale di produzione - un accordo spesso imposto attraverso i livelli sovra-aziendali da parte dei consigli di fabbrica della corporazione.

2 - La strategia del governo
Il governo conservatore affronta ora il fallimento del suo esperimento di trasformazione monetaria neo-liberista nell’ex DDR.
Il suo “ponte” di politica occupazionale - progetto per mantenere in movimento l’attività economica nella transizione dalla distruzione industriale ad una speranza di resurrezione sulle orme della destabilizzazione - si è allungato senza speranza a dismisura.
Allo stesso tempo un’ondata di speculazione monetaria internazionale ha cominciato ad erodere le fondamenta del “forte marco tedesco”, screditando così la strategia europea del blocco del marco.
Lo scopo di questa speculazione è costringere al collasso strutturale irreversibile - perfino in Germania.
A questo riguardo - tuttavia - non è chiaro se la crisi ora manifesta della “Kohlonomics” non sia infatti qualcosa che la burocrazia ministeriale di Bonn coscientemente desidera. Dopotutto, soltanto nelle condizioni di un deciso ribasso del prodotto interno lordo e nelle condizioni di una circolazione monetaria straordinaria potranno rendere accettabile una simile norma nell’intera Germania.
I progetti propagandati dalla Commissione di Destabilizzazione (deregulation) del governo federale fin dalla fine degli anni 80 sono ora maturati in decise strategie d’azione.
L’intera sfera di agenzie di collocamento, tradizionalmente monopolio dello stato, dev’essere commercializzata.
Per quanto riguarda il sistema di contrattazione salariale collettiva, i punti deboli vengono separati per rompere l’influenza dei sindacati.
In più, la scelta di privatizzare l’intero sistema di assistenza sociale, integrando il welfare nel settore del credito privato, sta guadagnando crescente consenso.
Contro questo retroterra le recenti iniziative per persuadere il governo ad andare oltre ciò che viene chiamato “consolidamento federale” (patto di solidarietà) e smantellare altri servizi sociali sembra essere il prossimo gradino tattico verso un grado di destabilizzazione precedentemente mai sentito nel quadro dei rapporti di lavoro e della politica sociale: passo dopo passo si tagliano gli accordi per la sottoccupazione (accordi per la creazione di lavoro, qualificazione e riqualificazione), si contrae il servizio sanitario, si restringono i servizi essenziali per disoccupati, malati e disabili ad ogni livello e si rimuovono gli standard di sicurezza sociale.
Il governo è deciso a far cadere il meccanismo prevalente di finanziamento del debito (deficit spending), che finanzia la sua strategia di ponte occupazionale nella ex DDR, e deviare invece verso una diretta ridistribuzione dei redditi fissi.
Presi assieme, i passi veloci del declino sociale volgono ancor più chiaramente ad uno scenario strategico: l’intero sistema sociale costituito nella Repubblica Federale sarà reso “flessibile”.
Ciò che aspetta la Germania nei suoi sforzi per rimanere industrialmente attraente per il capitale è una scala di retribuzioni che si estenda ben al di sotto dei salari minimi precedenti sia all’Est che all’Ovest e verso l’abolizione dei livelli sociali minimi.
La piramide dello sfruttamento “Toyotista” funziona correttamente nella struttura di un mercato occupazionale stile “Selvaggio West”.
Questa politica implica l’apertura completa delle strutture del mercato del lavoro e il prosciugamento dei servizi sociali. Significa perfezionare un modello di accumulazione sotto il quale più dei due-terzi del prodotto nazionale saranno alla fine creati sulla base della precarietà dei rapporti di sfruttamento.

3 - Sindacati, Socialdemocrazia e Verdi si adeguano alla linea
Discutendo sulla base del modello di partecipazione anni 80 (“umanizzazione del lavoro”), i sindacati adottano ora la strategia di offrire alle imprese ed imprese commerciali i loro servizi quali “intermediari” per le nuove comunità sui posti di lavoro del Toyotismo.
Rivendicano che il loro ruolo è essenziale per raggiungere il consenso produttivistico desiderato tra lavoratori e direzione, dato che solo il loro intervento, nel nuovo rapporto di cooperazione a livello di fabbrica ed extra potrà, dicono, continuare a garantire le armoniose relazioni di lavoro che essi hanno presidiato fino ad ora.
Allo stesso tempo tentando di avere un supporto a livello della comunità europea per-questo modello di forma “moderata” di Toyotizzazione, appellandosi ad un’ istituzionalizzazione dei consigli del lavoro Europei e dei gruppi di partecipazione a dimensione Europea.

(…)
Per la fine dei ‘90 sono previsti 5 milioni di lavoratori tedeschi nelle infrastrutture relative agli accordi di creazione lavoro ed imprese di formazione.
Dato che essi saranno pagati molto meno, questo strato secondario sarà tenuto quale esercito industriale di riserva per il mercato del lavoro “primario” dei lavoratori centrali altamente retribuiti.
Sotto a loro, tuttavia, ci sarà un “mercato del lavoro terziario” nel quale tutti quelli precedentemente a carico dell’assistenza sociale, i disoccupati da lungo tempo, i disabili e gli estranei (outsiders) sociali saranno presi all’interno di un “servizio ecologico socio-culturale” (OSK-Dienst).
L’idea è che soltanto quelli che vogliono fare il lavoro offerto in questo settore beneficeranno di una rete di sicurezza di base fondata sulla redistribuzione delle tasse.
L’attribuzione del reddito dev’essere inoltre “appropriatamente” fissata sotto la media dei pagamenti per i lavoratori inseriti negli schemi di creazione e formazione al lavoro.
Lo scopo centrale del mercato del lavoro terziario è visto come prevenzione all’instabilità sociale dell’intero sistema e per sanare la notoria “diffidenza da lavoro”.
Dal momento che i fautori ufficiali del riformismo - che o è già stato distrutto o sta distruggendo esso stesso ciò che è rimasto - pensano ad una struttura dalla direzione allargata per amministrare efficientemente il settore dell’occupazione precaria - e guadagnando così posizioni privilegiate con redditi sicuri per se stessi - stanno preparando nuovi meccanismi per costringere il proletariato nel post-Fordismo, nei meccanismi a regime industriale flessibile che sono, infatti, non del tutto nuovi quando si guardi indietro alla storia di questo secolo e si riconsiderino i tentativi di regolare la disoccupazione di massa e la pauperizzazione durante la depressione degli anni 30.
La ricetta per ri-regolare un capitalismo senza freni è il lavoro forzato!
E tali iniziative stanno arrivando dall’insieme sindacato spettro social-democratico-verde di ogni parte.
A meno che noi sbagliamo lettura dei segnali e a meno che la Sinistra affronti questo fenomeno con grande tempestività, ci troveremo presto di fronte alla scelta tra due mali ugualmente disastrosi.
Da un lato le élites conservatrici stanno cercando di “sbloccare” il capitalismo tedesco e, sotto la pressione dei managers di mercato e del capitale finanziario internazionale, sperimentano la “caduta libera” dei mercati del lavoro e dell’assistenza statale - con la prospettiva di una insicurezza generalizzata, dell’impoverimento di massa e della ghettizzazione.
Dall’altro lato, vediamo gli onorevoli ex-riformisti lottare per la loro sopravvivenza istituzionale cercando di rendersi utili sviluppando sotto-sistemi alternativi di controllo su di una gerarchia di lavoro forzato.


Prospettive e limiti di un rinnovato orientamento socialista nella classe

In virtù della tendenza apparentemente irreversibile verso il crollo strutturale non vi è chiaramente spazio per l’ottimismo.
Questo è particolarmente vero per le condizioni della Germania, dove, in seguito all’annessione della DDR, sconvolgimenti sociali stanno succedendosi con estrema rapidità, causando delle modificazioni che nel corso degli anni 80 nel resto del mondo capitalista si sviluppavano in modo molto più graduale.
A partire dagli sviluppi nei “nuovi länder” il drammatico processo di pauperizzazione sta provocando violente e continue forme di protesta, che si scaricano principalmente all’interno degli strati disperati e divisi dei “nuovi poveri”.
Un movimento giovanile razzista è divenuto stabile, e mira ideologicamente all’accordo con il razzismo del governo ufficiale.
Comincia a riprodursi in forme violente il crudele egotismo della società post-Fordista dentro ai ghetti dei poveri.
L’alleanza tra picchiatori e servi pennivendoli ha già aperto una pericolosa valvola di sicurezza: la rabbia per la perdita della sicurezza sociale delle prospettive economiche si sta ridirezionando verso l’ultimissima ondata di immigranti e la comunità straniera residente da tempo, ma socialmente ancora emarginata.
Mai fino a poco tempo sarebbe stata considerata possibile questa nuova vampata di razzismo come forme di mediazione nella società classista.
Così, per la Sinistra, sta diventando sempre più difficile accettare il significato di questo nuovo proletariato nella sua totalità - per esempio includendo coscientemente quei segmenti che attualmente eliminano chiunque meno fortunato di loro.
Tuttavia il proletariato era, ed è sempre stato, il punto di riferimento principale delle politiche socialiste.
Così per quanto riguarda l’antirazzismo, rimane il fatto che qualsiasi iniziativa che ignori la questione sociale e così faccia a meno dell’abilità strategica di riferirsi in linea di principio a tutti gli strati del nuovo proletariato è condannata al fallimento.

(…)
(segue un lungo passaggio nel quale K. H. Roth sviluppa le sue proposte pratiche per creare “circoli proletari”)

La Toyotizzazione della società globale è una realtà già avviata e non sfuggiremo al suo impatto. Essa ha posto all’ordine del giorno una riproletarizzazione globale del lavoro.
Noi a sinistra dovremmo essere in relazione con il nuovo soggetto di classe emergente da questo processo e portare con noi la nostra esperienza accumulata senza tentare di egemonizzare questo soggetto.
Invece di continuare ad esaurire le nostre limitate energie in attività mentalmente ristrette senza sbocco o paralizzarci spaventandoci a vicenda con proiezioni tragiche, dovremmo raccogliere le opportunità offerte dai nuovi rapporti di classe e convergere su attività sperimentali creative mirate allo sviluppo di una prassi socialista-egalitaria.


Note dell’autore

1 Percorso (indirizzo) corporativista di industrializzazione: il governo forza il tasso dell’industrializzazione con l’aiuto di corpi che incorporano gli interessi dello stato, degli affari privati e della burocrazia sindacale.
2 Il capitalismo sovraccumulato dei mercati finanziari globali: il capitalismo ha dovunque accumulato più capitale di quanto può vantaggiosamente reinvestire in attività produttive perché il settore produttivo non può più produrre il livello richiesto i valore in più (surplus).
3 Valorizzazione: il capitale cerca costantemente l’autoespansione attraverso investimenti vantaggiosi: guadagna valore aggiuntivo controllando il processo lavorativo, estorcendo tempo di lavoro non pagato e realizzando questo surplus attraverso la vendita dei servizi.
4 Trattenute complementari alla retribuzione: tasse addizionali e contributi sociali (cioè l’attuale discussione in Germania sui nuovi contributi obbligatori per l’assicurazione sull’invalidità a lungo termine).


NOTE redazionali

Fordismo
Fordismo designa una certa forma di produzione industriale. All’inizio del secolo la catena di montaggio venne introdotta nella fabbrica di automobili Henry Ford.
Questo richiese la rottura del processo di produzione (dell’auto) in diverse operazioni, che potevano essere portate a termine indipendentemente lungo la catena di montaggio.
La divisione del lavoro che ne risultò, liberò dei margini enormi di produttività per ogni passaggio del processo produttivo. Dato che i lavoratori dovevano padroneggiare poche operazioni manuali, poterono essere assunti in gran numero dei lavoratori semi-qualificati.
Questi metodi resero possibile la produzione in serie e la produzione di massa.
Un gran numero di lavoratori vennero portati insieme in un unico posto e messi in condizioni simili, migliorando così le condizioni oggettive e soggettive per l’organizzazione della classe lavoratrice. Sfortunatamente, i capitalisti riconobbero i pericoli potenziali ed escogitarono dei modi per indebolire l’organizzazione della classe lavoratrice.
Tuttavia, l’auto stessa non poteva divenire un prodotto per il consumo di massa fintantoché il potere di acquisto delle masse non fosse stato elevato e finché non venissero cambiati i valori generali di consumo e tempo libero.
La piena occupazione e le paghe relativamente alte nei paesi industrializzati portarono a questo. Questa fu la vera trasformazione.
L’auto divenne un articolo per il consumo di massa e divenne presto il perno reale della produzione industriale.
Il principio del Fordismo ha avuto inoltre un impatto con lo sviluppo urbano.
La separazione tra casa, acquisti e lavoro, ognuno con i suoi ghetti, complessi e fabbriche relative è un risultato del concetto nell’insieme. Il declino della coscienza di classe tra i lavoratori nei paesi industrializzati ha le sue radici anche nel Fordismo.
Il Fordismo sviluppò un intero sistema di “relazioni umane” progettato per distruggere la coscienza di classe ed integrare i lavoratori: i servizi sociali, lo sport e la ricreazione aziendale, ecc, perfino i preti aziendali.

Taylorismo
Il Fordismo va compreso anche all’interno delle teorie di Frederik W.Taylor. Egli sviluppò i principi della direzione scientifica, che erano tesi a rendere il processo lavorativo indipendente dalla conoscenza ed abilità dei lavoratori.
Essi non avevano più bisogno di tempo per conoscere il processo produttivo: la tecnologia venne concentrata nella direzione, che organizzava e delegava il lavoro e determinava ogni dettaglio del processo lavorativo (studi di tempi e metodi).
L’internità del lavoratore al processo lavorativo e il suo ruolo nell’intero processo vennero in questo modo distrutti ed il lavoro divenne ancor più alienante.
Taylor inoltre progettò meccanismi di controllo e strutture aziendali per rompere il potenziale collettivo della forza lavoro ed assicurare che i lavoratori eseguissero i compiti loro assegnati, secondo il progetto.
Le tecniche tayloriste furono un prerequisito per la riuscita delle strutture Fordiste.

Post-Fordismo e Toyotismo
Il consumo di massa dei prodotti industriali introdotto dal Fordismo è entrato in uno stato di crisi fin dai ‘70. A partire da allora il termine post-Fordismo venne largamente usato.
Uno dei tentativi di risolvere la crisi del capitalismo include una trasformazione radicale della produzione in linea con i modelli Giapponesi. Questo ha portato al concetto di Toyotaismo o Toyotismo.
Toyota è una delle più grandi società. Le sue attività sono limitate alla produzione di auto; il gruppo Toyota possiede banche, compagnie commerciali e catene di vendita al dettaglio. Essa produce praticamente ogni cosa dalle auto al cibo. Questo non è per niente inusuale in Giappone.
L’articolo di Karl Heinz Roth riguarda principalmente i cambiamenti della natura della produzione industriale, analizzando soprattutto la distruzione della vecchia divisione Fordista del lavoro e le caratteristiche del consumo di massa, tipiche dei paesi occidentali industrializzati (il Fordismo non è mai realmente esistito in Giappone).
Alla Toyota, con l’uso della tecnologia avanzata e con l’impiego di un gruppo centrale di lavoratori qualificati e ben pagati, la produzione viene organizzata nella forma di squadre di lavoro.
Volvo si sperimentò in questo modo in una delle sue fabbriche svedesi molti anni addietro, ma l’esperimento fallì perché questa strategia è efficace solo come parte di un processo comune di produzione capitalista. Funziona laddove esiste una sottostruttura destabilizzata (sregolata) con diversi piani di fornitori di componenti e servizi.
L’articolo tratta del modo con cui l’approccio Toyota viene usato come concezione totale per superare la crisi capitalista globale. I principi vengono spiegati da K.H. Roth sotto i capitoli “Nuovo modello di accumulazione” e “Post-Fordismo/ Toyotismo”.

Keynesismo
L’economista inglese John Maynard Keynes era un consulente del governo britannico.
I suoi importanti scritti di politica finanziaria e di ordine economico furono pubblicati negli anni 20 e 30. Egli credeva che, in tempi di crisi capitalista, il governo poteva usare politiche finanziarie e di tasso d’interesse per portare l’economia fuori dalla depressione, espandendo il credito, alzando la domanda ed aumentando la spesa pubblica.
In aggiunta alla domanda crescente, con l’aumento del potere d’acquisto, lo stato può simulare una crescita economica finanziando la produzione di armi.
La socialdemocrazia ama usare gli argomenti del keynesismo.
Aumentando il potere d’acquisto con la spesa pubblica nella “sfera sociale” o con la co-determinazione sindacale ed il “patto sociale” basato su alte paghe questi vengono presentati come modi per ammortizzare l’impatto dei lavoratori di fronte alla crisi capitalista.
In questo modo i socialdemocratici (riformisti) sperano di salvaguardare il loro appoggio alla classe lavoratrice non mettendo mai in discussione la logica del capitalismo.
Indipendentemente dalle differenze politiche ed ideologiche tra quelli che sostenevano il finanziamento del debito pubblico (deficit spending) a quel tempo, il keynesismo fu visto come un modello per tenere in pugno la crisi economica mondiale degli anni 20 e 30 da parte degli uomini politici che con diverse vedute ideologiche stavano sostenendo il finanziamento pubblico (deficit spending).
Sotto il fascismo prese la forma di programma per l’occupazione (servizio lavorativo obbligatorio, costruzione della rete stradale con l’utilizzo di masse di lavoratori al posto di moderni macchinari, ecc.), mentre negli Stati Uniti c’era il New Deal (con i principi Fordisti applicati all’intera economia e società, cioè le “relazioni umane”).

Ristrutturazione dei rapporti di sfruttamento
A partire dall’inizio dei 70, l’obiettivo della piena occupazione viene lasciato cadere come politica ufficiale nei paesi industrializzati. Sebbene questa idea sia sempre stata una fantasia, l’avvio segnala un cambiamento nella natura del rapporto “datore di lavoro/lavoratore”.
Nell’epoca del fordismo i lavoratori (maschi) nei paesi industrializzati generalmente avevano “condizioni normali di occupazione”.
Questo significava che essi erano assunti con un contratto appropriato, con accordi di sicurezza sociale e con una prospettiva, non completamente infondata, di vivere discretamente per un dato lavoratore, fino alla pensione.
Nonostante ci fosse pur sempre un’abbondanza di vittime della razionalizzazione e disoccupazione.
Il concetto di ristrutturazione implica la diffusione di condizioni lavorative precarie/irregolari/insicure/non garantite, per esempio assunzioni con contratti a tempo determinato; l’affitto di lavoratori temporanei da subcontraenti; l’introduzione di tariffe individuali di attribuzione delle retribuzioni con ampi spazi differenziali, ecc.
Questa tendenza è agganciata al decentramento della produzione, cioè i livelli di produzione individuale vengono ricollocati nelle economie a mercato di lavoro ridotto e piccole ditte vengono commissionate per eseguire il lavoro.
Questi subcontraenti e fornitori sono obbligati a rispettare precisamente i tempi di consegna (just in time): devono fornire componenti per una data ora o perfino minuto, ed è un loro problema come riuscire a fare tutto questo.
In questo modo, i costi di magazzino possono essere ridotti, meno denaro viene legato al capitale fisso ed i rischi vengono trasferiti ai sub-contraenti.
La responsabilità per la produzione è sempre più diretta sui lavoratori stessi, mentre viene data loro meno previdenza ed assistenza a causa della denormalizzazione delle condizioni di lavoro o delle concessioni dello stato.
La previdenza sociale della maggioranza della popolazione nella società viene in modo crescente messa a rischio dallo smantellamento delle misure di protezione dei governi.


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