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Spagna:

LA FINE DELLO SCIOPERO DELLA FAME NON E' UNA SCONFITTA

Come contributo alla riflessione ed al dibattito sullo sciopero della fame dei prigionieri politici del PCE(r) e dei GRAPO, conclusosi nel marzo scorso dopo 14 mesi di lotta ininterrotta, pubblichiamo l'intervista rilasciata da Mercedez Herranz, ex prigioniera dei GRAPO e membro del PCE(r), pubblicata nell'opuscolo "La lotta dei prigionieri politici non è finita", edito in occasione del primo anniversario della morte di José Manuel Sevillano, assassinato dal governo spagnolo di Felipe Gonzales mediante l'alimentazione forzata.

Sono passati già più di due mesi dalla fine dello sciopero della fame. Come stanno i prigionieri fisicamente e psichicamente?

Dopo uno sciopero della fame che si è protratto così a lungo, non vi è dubbio che i prigionieri, nella maggior parte dei casi, stanno fisicamente male, alcuni con lesioni irreversibili o guaribili con cure che richiederanno degli anni. Si può affermare che moltissimi di loro rimarranno malati cronici, e non solo a causa degli scioperi della fame, ma anche perché, in alcuni casi, il trattamento medico è stato ed è nefasto; al che si aggiungono condizioni di vita e di detenzione che non favoriscono certo il loro recupero. Per quanto riguarda l'aspetto psichico, possiamo assicurare che in generale esso è buono, almeno da ciò che si desume dai loro messaggi, scritti e altre forme di comunicazione con cui si sono espressi dopo la fine dello sciopero.

Dopo la fine dello sciopero, i prigionieri continuano a subire maltrattamenti o torture?

Subito dopo la fine dello sciopero, i prigionieri hanno smesso di soffrire la tortura dell'alimentazione forzata, però questa è stata sostituita, in alcuni casi, dal disinteresse per la salute dei compagni e dalla brutalità di chi si considera "vincitore" sul "vinto". Tutto l'impegno per "salvare la vita e l'integrità dei prigionieri", che hanno manifestato i nostri governanti per giustificare la tortura dell'alimentazione forzata, ora si è mostrato per quello che realmente era: la più canagliesca brutalità per rompere la resistenza dei prigionieri. La loro "umanità" si è tradotta nel fatto che molti compagni sono stati trasferiti dal letto di una infermeria alle celle di isolamento. Tuttavia, non in tutte le prigioni la risposta è stata questa, vi sono anche casi in cui, nello stesso carcere, il trattamento dei militanti di una stessa organizzazione è stato differenziato, e non proprio per caso. Mentre alcuni vengono "classificati" come molto "pericolosi", il che presuppone il regime più duro, altri sono oggetto di ricatti ed offerte di un regime di vita più "morbido", il tutto al chiaro scopo di dividere i prigionieri e di metterli gli uni contro gli altri. Però, come è già stato chiaramente dimostrato, se non hanno raggiunto questo scopo con le cattive, figuriamoci se lo raggiungeranno con delle "caramelle avvelenate".

E' cambiata la situazione per quanto riguarda le visite dei famigliari e degli avvocati? Risulta più facile tenere contatti coi prigionieri?

Su questo terreno la situazione non solo non è cambiata, ma in molti casi è peggiorata. Vi sono prigionieri ai quali hanno limitato le visite ai famigliari diretti, vale a dire genitori e fratelli, le comunicazioni con altro tipo di famigliari od amici o vengono negate tassativamente o è necessaria una preventiva autorizzazione delle istituzioni penitenziarie per la quale si richiede l'identificazione del visitatore. Le "autorità competenti" si incaricano di studiare se questa persona è più o meno adatta per concedergli questa visita. Ciononostante il maggior problema per le visite ai prigionieri è sempre stata ed è tuttora la dispersione, perché quello che non riescono a raggiungere con i loro cavilli giuridici lo raggiungono allontanando i prigionieri dai luoghi dove risiedono le loro famiglie in modo che, nella maggior parte dei casi, si tratta di un autentico sacrificio che le modeste economie di queste famiglie non possono sopportare.

Per quanto riguarda le comunicazioni con gli avvocati, anche queste hanno subito restrizioni, in diverse forme: una è la via giudiziaria di negare il permesso di visita agli avvocati per quei prigionieri che, secondo la legge, essendo stati già giudicati e condannati, non necessitano di assistenza legale; mentre in altri casi hanno fatto ricorso al facile metodo del controllo di queste comunicazioni, controllo che tanto gli avvocati che i prigionieri si rifiutano di accettare.

La fine dello sciopero della fame

La fine dello sciopero senza aver conseguito l'obiettivo della Riunificazione, la considerate un insuccesso, una sconfitta? Ha avuto un senso la morte di Manuel Sevillano?

Non possiamo considerare la fine dello sciopero della fame come un fallimento perché, anche se l'obiettivo della Riunificazione non è stato raggiunto, sono stati quantomeno frenati i piani di sterminio che il governo intendeva attuare contro i prigionieri politici. E non solo sono stati frenati, ma in notevole misura sono stati anche sconfitti, perché dietro questa battaglia non vi era solo l'obiettivo della Riunificazione. Il governo con la dispersione e la sua intransigenza contro lo sciopero mirava a far sì che i prigionieri, resi impotenti, si scontrassero fra loro per ottenere il reinserimento, inoltre mirava ad utilizzarli come ostaggi per ricattare le loro organizzazioni all'esterno, perché queste o si fermassero o si lanciassero in una lotta suicida. E nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto. Ma la lotta non è terminata e perciò in questo momento la fine dello sciopero della fame non può che considerarsi come un passo indietro, un ripiegamento necessario, che permetta in futuro, in condizioni migliori, di riprendere la battaglia. Per quanto riguarda la domanda se ha avuto un senso la morte di Sevi, posso solo rispondere una cosa: la semplice formulazione di questo dubbio è indice di miopia politica.

Tutta la nostra storia di lotta per il socialismo è costellata di battaglie parziali e di martiri. Tutti noi abbiamo messo a repentaglio la nostra vita in determinate situazioni di lotta o in battaglia: siamo forse per questo un Movimento sconfitto? Al contrario, non abbiamo sconfitto politicamente il nemico con la nostra Resistenza? Manuel Sevillano è oggi una bandiera di lotta, di resistenza, di dignità umana e non solo per il nostro popolo, ma per tutte le forze progressiste di questo mondo che, come lui, combattono l'irrazionalità della tortura, dello sterminio, della sottomissione inumana che la borghesia imperialista vuole imporre a mezza umanità.

C'è bisogno di trovare un altro senso alla morte di Sevi?

Qual è stato il motivo principale per decidere di porre fine allo sciopero della fame, la preoccupazione per la vita dei prigionieri, o il pensiero che questo tipo di lotta in questa fase non ha avuto alcun senso?

Il Partito ha risposto a questa domanda nel comunicato che ha emesso al termine dello sciopero nel quale si dice testualmente: «In data 8 febbraio abbiamo inviato un telegramma in diverse carceri dello Stato chiedendo ai militanti del nostro Partito, che erano in sciopero della fame dal 30 novembre 1989, di cessare tale sciopero. Come si potrà capire, non è stato facile per noi prendere questa decisione. Prima di farlo abbiamo soppesato tutti i fattori che confluiscono nell'attuale situazione. In particolar modo abbiamo tenuto conto del rapido deterioramento della salute fisica in cui versano i nostri compagni prigionieri. Non era possibile prolungare oltre questo sciopero della fame senza che un buon numero di loro andasse incontro a morte sicura in poco tempo.

Noi pensiamo che non si possa chiedere di più di quanto già hanno dato questi uomini e queste donne alla causa operaia e popolare; che è stato tuttavia giusto e necessario intraprendere e prolungare lo sciopero della fame, sacrificare la salute e rischiare perfino la vita per poter denunciare la politica criminale del governo e lottare per la Riunificazione. Però c'è un limite che non si deve superare: il sacrificio non si può trasformare in qualcosa di inutile e perfino contrario ai fini che ci eravamo prefissi all'inizio dello sciopero; non può condurre ad una morte sicura e predeterminata. Crediamo che sia sufficientemente dimostrato che il governo avrebbe ceduto alle giuste rivendicazioni dei prigionieri soltanto di fronte alla morte di molti di loro; prezzo che non siamo disposti a pagare. Inoltre, riteniamo che la situazione dei prigionieri sia una questione che riguarda tutti i lavoratori e la società spagnola nel suo complesso, e che sia compito di questa impedire nel futuro la tortura nelle carceri, la politica di isolamento e di sterminio e ottenere la loro liberazione. Nel frattempo bisognerà continuare a lottare e a opporre resistenza in tutte le forme possibili, tanto dentro quanto fuori dalle carceri, evitando però di pagare un prezzo tanto alto come quello che stanno esigendo da noi. Questo è il motivo principale che ci ha indotto a chiedere di porre fine allo sciopero della fame».

I prigionieri sostenevano che lo stato spagnolo non aveva sufficiente fermezza e che nel caso qualcuno di loro fosse morto avrebbe ceduto facilmente. I fatti non smentiscono questa opinione?

No. Noi sosteniamo che questo è vero. L'"intransigenza" non sempre è manifestazione di "forza" e in questo caso concreto è proprio il contrario. Lo sciopero della fame era una sfida, non solo alla politica penitenziaria del governo, ma anche alla politica terrorista e imperialista dell'oligarchia spagnola per la quale, farla finita con l'esempio di resistenza dei prigionieri politici, era un passo preliminare e fondamentale per estendere a tutto il popolo l'esempio contrario: quello della sottomissione e della rassegnazione. E' forse questo un indizio di forza? Non è, al contrario, il timore che questo esempio di resistenza si estenda, cosa che li ha indotti a impiegare tutti i metodi possibili e immaginabili per neutralizzare la lotta dei prigionieri? Ma questa debolezza non significa che i nostri governanti fossero disposti a cedere alle prime "manifestazioni" della lotta o di fronte alla prima vittima. I prigionieri sapevano che il prezzo della Riunificazione doveva essere molto alto, proprio per la battaglia politica che si sviluppava, e c'era da aspettarsi che prima di cedere, il governo avrebbe manovrato in tutti i modi e si sarebbe adoperato per impedire questa conclusione. E cosa ha dimostrato questa esperienza? Che solo la vita di molti scioperanti l'avrebbe obbligato a cedere. Da qui l'impegno all'alimentazione forzata, preferendo il logoramento sul piano politico che questa ha comportato a quello che esso avrebbero dovuto pagare con diverse vittime sul piatto della bilancia.

Come le organizzazioni GRAPO e PCE(r) hanno comunicato ai prigionieri quando dovevano terminare lo sciopero?

Si è già data una spiegazione pubblica a questa domanda nella quale si dice, in relazione al documento della direzione del Partito: la volontà di iniziare e mantenere questa lotta è stata sempre, e non potrebbe essere diversamente, dei compagni prigionieri, e solo a loro spetta prendere le decisioni che riterranno più convenienti. La direzione del Partito si è limitata ad appoggiarli. Quando hanno deciso di resistere fino alla fine, ben sapendo che questo significava un prolungamento smisurato dello sciopero, siamo stati con loro, cercando nei limiti delle nostre forze di fornire loro tutto l'appoggio che ci è stato possibile.

Questa posizione non può però presupporre in nessun momento, e in nessuna circostanza, l'abbandono da parte della direzione del Partito della sua responsabilità nell'orientamento e nell'adozione di tutte quelle decisioni che considera più giuste per l'intero movimento e per gli stessi prigionieri. Non bisogna perdere di vista la situazione di assoluto isolamento in cui questi compagni si trovano in molti casi, per cui difficilmente sono in grado di decidere da soli la necessità di un "ripiegamento" o di un mutamento di orientamento nella lotta. Per questa stessa ragione, è giusto considerare logici i disaccordi sorti riguardo all'opportunità di porre fine allo sciopero della fame. La direzione del Partito rispetta le opinioni dei compagni e non ritiene sconveniente che siano rese pubbliche, perché in questa maniera si contribuisce a chiarire molto meglio la situazione e tutta questa importante esperienza.

Il movimento di solidarietà

Come si è sviluppata la situazione fuori? Era già diverso tempo che non si tenevano manifestazioni, azioni di solidarietà con i prigionieri...

E' certo che ultimamente le azioni di solidarietà con i prigionieri erano in gran parte scemate e questa tendenza a scemare aveva cominciato a manifestarsi già da alcuni mesi, cioé da quando l'alimentazione forzata, il silenzio dell'informazione, e la repressione contro il movimento di solidarietà avevano cominciato a sortire gli effetti desiderati dal governo. Prolungare la lotta non mirava solo alla resa dei prigionieri, ma anche a disperdere il Movimento, a disorientarlo e finalmente a paralizzarlo. E bisogna riconoscere che in parte il governo vi è riuscito. Però solo in parte. Perché in una lotta così prolungata è impossibile, giorno dopo giorno, mantenere un livello di mobilitazione permanente. Al contrario, è logico che ci si "fermi" in alcuni momenti per tornare più tardi ad "alzare la testa".

Qual è il motivo, secondo voi, per cui la gente e altri gruppi esterni non hanno risposto con sufficiente solidarietà?

A questo proposito dobbiamo dire che la risposta di molta gente è stata maggiore di quella che ci potevamo aspettare all'inizio della lotta. Questo non significa che avevamo una predisposizione al pessimismo. Semplicemente, eravamo realisti e sapevamo che dar vita a delle mobilitazioni "di massa" in appoggio di prigionieri indicati tuttora come i "peggiori", denigrati oltre ogni limite dalla propaganda ufficiale e riformista, difendere pubblicamente, di fronte alla minaccia statale, la bandiera dei prigionieri politici, è qualcosa che non avrebbero fatto "milioni" di persone; non per questo però abbiamo incrociato le braccia.

Quando iniziò lo sciopero della fame, le forze del Movimento di solidarietà erano scarse, e non si potè che concentrarle in azioni di denuncia, come l'occupazione da parte dei famigliari della sede della Croce Rossa, in modo da rompere il silenzio imposto su questa lotta. Mentre un altro nucleo di attivisti, vicini ai prigionieri in sciopero, concentrò la sua attività nella creazione di circoli di appoggio e nell'avvicinamento ad altri movimenti e organizzazioni che, in diverse forme, mostravano solidarietà alla lotta dei prigionieri. E furono molte le manifestazioni e le azioni che si realizzarono insieme ad altri organismi nel periodo più critico della lotta.

Però, come abbiamo già detto, il prolungamento dello sciopero ha ridotto, poco a poco, il livello di partecipazione e di mobilitazione, allontanando dapprima i più dubbiosi, fino a riportarlo allo stesso rapporto di forza con cui eravamo partiti all'inizio. Questo però non ha reso affatto inutile la lotta che abbiamo condotto, perché ha favorito il nostro avvicinamento a molti altri settori in lotta, e la conoscenza e l'appoggio reciproco. E questo è un passo molto importante, perché solo stando in mezzo a tutto il movimento possiamo ottenere che esso faccia propria la lotta dei prigionieri, che assuma come una delle sue principali rivendicazioni, non solo che non li si torturino e non li si annientino più nelle prigioni, ma anche quello che è il nostro obiettivo fondamentale: la loro completa liberazione.

In futuro

I prigionieri dicono che vogliono continuare a lottare. Quali possibilità vedete voi per questa lotta? Come si possono ottenere dei risultati, in una situazione come quella in cui si trovano?

Nell'attuale situazione, si impone una lotta individuale di ciascun prigioniero, in base alle condizioni concrete in cui si trova; ma si tratta tuttavia di una lotta di resistenza tendente, soprattutto, a mantenere alta la bandiera della loro dignità ed integrità come prigionieri politici. Questo a livello di collettivo, non come individui isolati. Questo si concretizza nel respingere i ricatti che vengono loro tesi, il trattamento umiliante che cercano di imporre loro, il che già significa, per molti di loro, far fronte all'isolamento totale e ai maltrattamenti, alla negazione dei loro diritti più elementari, come quello della comunicazione con il mondo esterno in tutte le sue forme... Però questa situazione, non vi è dubbio, non durerà a lungo, solo il tempo necessario perché le condizioni cambino e si possa tornare a fare lo sciopero della fame, arma che, malgrado l'alimentazione forzata, continua ad essere la più forte in mano ai prigionieri politici.

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