IL
BOLLETTINO: DOCUMENTI DALLE CARCERI |
Roma:
LA PACE IMPERIALISTA E'
GUERRA!
(Documento allegato agli atti del processo
d'appello Moro-ter)
Crisi e guerra
«La nostra epoca, l'epoca
della borghesia, si distingue più delle altre per aver semplificato
gli antagonismi di classe. L'intera società si va scindendo sempre
più in due grandi campi nemici, in due classi direttamente contrapposte
l'una all'altra: borghesia e proletariato.»
(Marx-Engels)
1. Gli ultimi anni hanno visto intensificarsi
il dominio di classe della borghesia imperialista nel mondo intero sotto
la spinta del capitale monopolistico, che cerca di superare la crisi mai
risolta degli anni '70 con l'accelerazione del processo di concentrazione,
centralizzazione e internazionalizzazione dei capitali.
Questo processo, che porta con sé
una profonda mutazione delle forme del dominio di classe, genera, da una
parte, contraddizioni crescenti ed esplosive tra capitali già di
per sé multiproduttivi e multinazionali, tra Stati, tra aree economiche,
mettendo a nudo i limiti intrinseci dell'epoca della globalizzazione e
della interdipendenza economica; dall'altra, si risolve in un attacco
diretto alle condizioni di vita di miliardi di proletari e di interi popoli
in tutto il mondo, attraverso la politica spietata decisa e controllata
dagli organismi sovranazionali del capitalismo, dal G-7 all'ONU, al Fondo
Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale fino alla NATO.
La guerra nel Golfo è stata la dimostrazione
più chiara e visibile di questo dominio di classe intensificato
e della determinazione imperialista a non accettare alcuna messa in discussione
dei suoi interessi e del suo assetto di potere internazionale. Gli anni
'90 si sono aperti con lo scenario più logico e concreto dell'imperialismo
di questa epoca: la guerra e il rapporto di guerra che caratterizza lo
scontro oggi e, di conseguenza, gli effetti tragici del dominio della
barbarie sulla vita umana.
La potenza dell'occidente non si è
tradotta in un "nuovo ordine mondiale", ma in un periodo di
grandi sconvolgimenti, di conflitti e di instabilità crescenti.
La fine dell'ordine stabilito a Yalta si rivela più traumatica
e complessa del previsto. Se quello di Yalta è costato i morti
della II Guerra Mondiale, quello che le potenze imperialiste, USA in testa,
vanno cercando di imporre sembra che non chiederà costi minori.
Sarebbe idealistico pensarlo, d'altra parte, e lasciamo ai riformisti
e revisionisti le loro pericolose illusioni e fandonie, preferendo ricordarci
delle lezioni della storia, che ha sempre dimostrato come, crollato un
equilibrio di potere sia inevitabilmente necessaria una nuova guerra per
costruirne un altro. Da Versailles a Yalta, a...
L'imperialismo è guerra. La guerra
è sempre stato il modo attraverso cui la borghesia ha cercato di
risolvere le sue crisi scaricando in modo distruttivo sul proletariato
i costi della sua riproduzione.
C'è da aggiungere che oggi la guerra
non può certo dirsi esaurita con la vittoria della coalizione occidentale
nel Golfo, perché quest'ultimo decennio del secolo ha già
visto lo scoppiare incessante di una moltitudine di guerre nelle varie
aree geopolitiche del mondo. La guerra è tornata, di nuovo, anche
in Europa con vasti e crescenti conflitti armati e guerre civili, che
scuotono in particolare l'ex territorio yugoslavo e quello della ex Unione
Sovietica.
Questo scenario che scorre davanti a tutti
noi con quotidiana tragicità assume una fisionomia precisa e in
sviluppo proprio in quest'area che costituisce il vero centro nervoso
dell'intero pianeta, perché attraversato dall'insieme delle contraddizioni
di questa epoca. Da quella principale e oggi dominante tra proletariato
e borghesia, a quella esplosiva tra Nord e Sud, a quella generata dai
conflitti economici e politici interimperialistici già esistenti
e che tendono a svilupparsi tra le potenze mondiali nella spartizione
e dominio dell'intero pianeta.
La borghesia imperialista europea sta accelerando
i passi necessari ed irrinunciabili, pur nel loro realizzarsi contraddittorio,
per far avanzare il processo di integrazione economica, politica e militare
degli Stati europei e "farsi blocco", cioè soggetto politico
capace di stabilire politiche omogenee vincolanti al suo interno e di
proiettarsi significativamente verso il resto del mondo.
Il "1992" non vuole essere la
semplice celebrazione formale della nascita della "Unione Europea",
ma il momento della realizzazione pratica dell'insieme dei passaggi fondamentali
e di non ritorno per esserlo concretamente. In questa direzione l'"Unione
Europea" è un avanzamento del dominio di classe nell'intero
territorio continentale e della sua proiezione imperialista nelle altre
aree del mondo a cominciare da quella contigua e inscindibilmente legata
del Mediterraneo-Medio Oriente, come ha già dimostrato il suo coinvolgimento
attivo nella guerra del Golfo.
L'Europa partecipa e vuole partecipare
da protagonista al "nuovo ordine mondiale".
Per restare all'Italia basti ricordare
le azioni di guerra contro il popolo iracheno degli "eroi" Bellini
e Cocciolone e dei loro altri compari dell'aviazione un anno fa, i ponti
aerei per liberarsi dei profughi albanesi e per controllarli nel loro
paese ormai sottoposto ad un nuovo protettorato italiano, e le missioni
politiche e militari in crescendo in Yugoslavia, vero e proprio cortile
di casa di De Michelis e soci, o nel lontano Salvador.
Ovviamente le mire della "Grande Germania",
dell'Inghilterra, della Francia e della resuscitata Spagna non sono da
meno e possono contare su di un ben più rilevante patrimonio di
colonizzazione mondiale. Il "1992" vede gli Stati Europei tesi
alla conquista e allo sfruttamento delle risorse e dei popoli del mondo
come 500 anni fa.
I proletari in Europa e nel mondo intero
hanno percepito da tempo la nuova qualità dello scontro e la loro
resistenza contro strategie capitalistiche sempre più indirizzate
al profitto e sempre più distruttive non è mai cessata.
Le lotte proletarie, i processi di emancipazione e di liberazione devono
fare i conti con un avanzamento micidiale della controrivoluzione preventiva,
che ha inciso pesantemente su molte esperienze rivoluzionarie, e che cerca
di colpire anticipatamente il coagularsi di nuove. Tuttavia si possono
già individuare molti aspetti del passaggio ad una nuova epoca
rivoluzionaria segnata da uno scontro più profondo in cui le lotte
proletarie nel mondo si trovano sempre più connesse e legate contro
il nemico comune. La mobilitazione di massa e le iniziative delle forze
rivoluzionarie nelle aree dei centri imperialisti e in quelle della periferia
durante la guerra nel Golfo, ha indubbiamente contribuito a rafforzare
il terreno dell'antimperialismo e dell'internazionalismo proletario. Nella
stessa direzione si muovono le molteplici forme di resistenza proletaria
e le diverse iniziative rivoluzionarie che cominciano a colpire e sabotare
l'insieme dei processi che caratterizzano il "1992" e che sono
visti dai proletari come un punto di svolta capitalistica sotto il segno
della "deregulation" e della reazione.
Una tendenza che vede l'intensificarsi
dello sfruttamento proletario, l'ampliarsi della disoccupazione e della
marginalizzazione, il peggiorare delle condizioni di vita, l'affermarsi
di una esistenza sempre più alienata nei centri metropolitani e
l'imporsi di politiche sempre più repressive, razziste e fasciste
contro i popoli che premono alle frontiere della "fortezza Europa".
Cinquecento anni fa la "conquista
dell'America" fu l'inizio di una nuova epoca e di una politica europea
di oppressione nei confronti dei paesi e dei popoli che possedevano risorse
e ricchezze che avrebbero consentito al capitalismo nascente, e alla classe
emergente che lo sosteneva, di stabilire una colonizzazione e un dominio
mondiale.
Non solo. L'impoverimento progressivo di
quei popoli - base del progresso della "sviluppata e civile Europa"
- si accompagnò spesso al loro sterminio.
Come scrive Marx su Il Capitale: «La
scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e
la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita
nelle miniere, l'incipiente conquista e il saccheggio delle Indie Occidentali,
la trasformazione dell'Africa in una riserva di caccia commerciale delle
pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l'aurora della produzione
capitalistica. Questi procedimenti idillici sono momenti fondamentali
della accumulazione originaria.»
I dati della ricerca storica misurano la
qualità di questi "procedimenti idillici": nel 1500 la
popolazione del globo era dell'ordine di 400 milioni di abitanti, 80 dei
quali residenti in America. Cinquanta anni dopo, di questi 80 milioni
ne restavano 10. Limitando il discorso al Messico, alla vigilia della
"Conquista" la popolazione era di 25 milioni di abitanti, nel
1600 erano ridotti a un milione.
Questo è il senso storico del processo
che il capitalismo vuole celebrare con le infinite manifestazioni per
il "Quinto Centenario della scoperta dell'America". Se i paesi
europei sono ancora una volta alla testa di queste iniziative non è
per semplice spirito celebrativo quanto per rilanciare le ragioni attuali
dell'accumulazione capitalistica a vantaggio dei grandi monopoli mondiali.
Un neocolonialismo che vede protagonista la CEE nello sforzo di aggiudicarsi
risorse e spazi crescenti nello sfruttamento del Tricontinente in competizione
con i capitali statunitensi e giapponesi. La penetrazione dei capitali
europei è la forma della "Conquista" di oggi: una nuova
spartizione del mondo.
Il filo delle lotte proletarie che si vanno
intrecciando nelle diverse aree geografiche contro l'imperialismo statunitense,
europeo e giapponese sta concretizzando un nuovo internazionalismo proletario
che mette radicalmente in discussione e combatte i presupposti di fondo
su cui è nata e si è sviluppata la formazione sociale capitalistica.
Le strategie economiche e politiche che
da anni guidano la ristrutturazione capitalistica stanno producendo contraddizioni
di classe e sociali crescenti, che definiscono e misurano la guerra di
classe di questa epoca. Un processo di proletarizzazione di dimensioni
vastissime, in conseguenza del modificarsi della divisione del lavoro
a livello planetario, caratterizza la seconda metà del secolo.
L'avanzata del capitalismo ha gettato nella condizione di proletari la
maggior parte della popolazione mondiale, a cui viene progressivamente
impedita ogni possibilità di sussistenza non capitalistica. Nelle
aree del centro come in quelle della periferia, nel Nord come nel Sud
e nell'Est. Sempre più ogni essere umano si trova direttamente
di fronte alla "nuda legge del profitto", agli effetti disumani
di un processo di oppressione e distruzione dell'uomo, della natura e
dell'ambiente, di proporzioni mai viste, perché il capitalismo
interviene ormai direttamente su di essi per le sue necessità di
valorizzazione, riproduzione ed espansione.
Questo complesso di fattori giunti a completa
maturazione a questo stadio di sviluppo avanzato del capitalismo metropolitano,
non fa che espandere ed ingigantire le tensioni ed i conflitti sociali
proiettando sempre più donne e uomini in una immediata dimensione
di lotta di classe. Contemporaneamente stabilisce un terreno di connessione
oggettiva delle lotte dei proletari e dei popoli del mondo, quello contro
il sistema economico, politico e militare che si è storicamente
affermato e che ruota attorno agli USA e al nuovo dispiegamento che lo
caratterizza negli ultimi anni.
Lottare in Europa contro l'insieme di politiche
che spingono in avanti la dinamica di integrazione europea e che ad un
tempo estendono la sua proiezione imperialista nel mondo, significa avere
la consapevolezza che in Europa Occidentale, oggi più di ieri,
convergono molte delle linee di scontro tra imperialismo e rivoluzione,
tra neocolonialismo e lotte di liberazione nel mondo. Significa anche
essere concretamente a fianco della "campagna di resistenza indigena
e popolare" che i campesinos, gli indigeni e le forze rivoluzionarie
hanno lanciato contro la celebrazione del "Quinto Centenario"
per fare sentire la loro voce di fronte alla «ignominia dell'oppressione
coloniale, neocoloniale ed imperialista. Allo scopo di consolidare la
nostra identità e di rafforzare la nostra lotta di liberazione
in tutto il continente». (Dichiarazione di Quito, delle Organizzazioni
Campesino-Indigene).
2. Gli ultimi anni hanno visto approfondirsi
la crisi del capitalismo e le contraddizioni che essa ha prodotto in ogni
area del mondo, perché la crisi generatasi nei centri imperialisti
occidentali si è riversata pesantemente nel Sud e nei paesi dell'Est,
per il livello di interdipendenza dell'economia mondiale.
La borghesia imperialista oggi deve fare
i conti con una situazione generale di recessione economica e moltiplicare
gli interventi per rimettere in moto un sistema produttivo bloccato, incapace
di produrre profitti sufficienti a valorizzare l'intera massa di capitali
e di garantire un respiro adeguato, tra una crisi e l'altra, per rilanciare
l'economia. Il susseguirsi dei Vertici del G-7 ha consentito di tenere
sotto controllo gli effetti più devastanti attraverso una gestione
sovranazionale degli interventi più urgenti da adottare, scaricando
i costi più pesanti della crisi sui paesi del Sud e dell'Est. Ma
è evidente che non si è ancora realizzata una seria possibilità
di superamento della crisi in cui l'intero sistema si dibatte dagli anni
'70.
In questa situazione solo i grandi monopoli
riescono a trovare i capitali e i mercati per svilupparsi da veri pescecani
vincenti nella guerra della concorrenza. Con strategie planetarie cercano
di contrastare la caduta dei saggi di profitto, intensificando il processo
di concentrazione e di internazionalizzazione, tentando di aumentare la
massa di plusvalore attraverso continui salti tecnologici ed una riorganizzazione
planetaria della produzione. Ma ciò non basta a risolvere la crisi
di sovrapproduzione di capitali che attraversa il sistema mondiale, questi
sono interventi che tendono semplicemente a rinviare nel tempo le conseguenze
più gravi, a concentrare ulteriormente i capitali a spese di quelli
più deboli, che vengono assorbiti dai monopoli più forti,
e a scaricare i costi più pesanti sui paesi delle aree dominate.
E, in definitiva, non fa che creare le condizioni per un ulteriore calo
del saggio di profitto, e rendere la crisi sempre più complessa
e meno risolvibile, nonostante gli organismi sovranazionali che cercano
di tenerla sotto controllo con interventi di politica finanziaria concertati.
Con la crescita dei monopoli multinazionali
si accelera la caduta delle barriere nazionali e si sviluppa l'unità
e l'integrazione internazionale del capitale. Come dice Marx: «Sfruttando
il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il
consumo in tutti i paesi... ha tolto all'industria le basi nazionali».
Lo stadio monopolistico del capitalismo già analizzato da Lenin
all'inizio del secolo, ha raggiunto oggi un livello incomparabile, comportando
enormi modificazioni negli assetti di potere e nelle relazioni interne
agli Stati e tra gli Stati nel segno della globalizzazione ed interdipendenza
economica.
Questo processo è tutt'altro che
lineare: l'interdipendenza non fa che sviluppare un livello più
alto di contraddizioni capitalistiche ed estendere la crisi su scala mondiale.
Sviluppa, in definitiva, la tendenza alla guerra, che è insita
oggettivamente nella stessa dialettica tra concorrenza e concentrazione
dei capitali, come unica soluzione alla crisi.
3. Alla fine degli anni '70 diventa evidente
che l'eccezionale movimento di ristrutturazione e di ridispiegamento con
cui la borghesia imperialista mira a stabilire la sua egemonia mondiale
non basta per superare la crisi.
«Quando il modello di accumulazione
capitalistica fordista e il rapporto imperialista di tipo neocolonialista
crollano, diventa chiaro agli occidentali che non ci sarà nessun
superamento durevole senza una messa in discussione fondamentale della
divisione di Yalta e senza una riunificazione-riorganizzazione del mercato
mondiale sotto il dominio dei monopoli. Rompere la contraddizione Est/Ovest,
con la sua eliminazione a medio termine superare questo vecchio ordine
considerato come limite per una nuova fase di monopolizzazione.»
(Prigionieri di Action Directe, dicembre 1991).
L'aggressività della politica di
Reagan prima e di Bush poi, che hanno spinto ad un livello mai raggiunto
la "guerra fredda" assediando letteralmente l'URSS e i paesi
del Patto di Varsavia sul piano politico, economico e militare, nasceva
da questa esigenza intrinseca del capitalismo occidentale ormai impossibilitato
a trovare soluzioni alla crisi al suo interno.
Va ribadito con chiarezza, d'altra parte,
che l'attacco del capitalismo occidentale trovava spazio nelle profonde
modificazioni che nel corso degli anni avevano cambiato il volto della
formazione sociale sovietica e il ruolo dello "Stato socialista"
con l'abbandono della lotta di classe e con la progressiva apertura al
mercato mondiale.
Le necessità poste dal processo
di industrializzazione accelerata hanno richiesto una pianificazione economica
centralizzata in funzione di una rapida accumulazione capitalistica e
hanno fondato un modello di sviluppo delle forze produttive centrato sul
capitalismo di Stato. Si è andata così formando progressivamente
una burocrazia di Stato e di partito a cui era delegato l'insieme dei
processi decisionali e il potere reale. Parallelamente si è formata
una vasta classe operaia e fasce sempre più ampie della popolazione
si sono proletarizzate entrando a far parte della struttura produttiva
capitalistica. La continua mobilitazione interna contro l'aggressione
imperialista, la massiccia sovrastruttura ideologica e la garanzia a questa
classe proletaria di condizioni di vita "dignitose", attraverso
una serie di interventi di politica sociale, sono stati per anni elementi
fondamentali dello sviluppo del capitalismo di Stato sovietico, che hanno
potuto contenere, finché hanno retto, la dinamica in espansione
del conflitto di classe.
In questo contesto i burocrati sovietici,
e dell'intero COMECON, preso atto dell'unità del mercato mondiale,
e dell'impossibilità dell'autosufficienza dal capitalismo occidentale,
fin dagli anni '60 avevano aperto i loro paesi alle importazioni occidentali
e avevano cercato sbocchi nel mercato mondiale, dimensionandosi necessariamente
rispetto alla divisione internazionale del lavoro esistente. Avevano consentito,
inoltre, a varie multinazionali occidentali, di impiantare comparti e
segmenti di produzioni all'interno dell'Unione Sovietica e degli Stati
del COMECON. In questo modo non avevano fatto che aggravare la crisi complessiva
del sistema sovietico, finendo per importare al suo interno gli effetti
devastanti della crisi capitalistica generatasi in occidente; ponendo
così l'economia sovietica in una situazione di forte dipendenza
che la indeboliva ancora di più nei confronti delle strategie dei
monopoli occidentali e la spingeva verso un pesante indebitamento finanziario
nei confronti del FMI e della Banca Mondiale.
La competizione con il complesso militar-industriale
occidentale, portata all'estremo con il progetto statunitense delle "guerre
stellari", ha indebolito e dissestato ulteriormente l'economia sovietica
nel suo complesso.
In questo quadro i processi di efficientizzazione
e razionalizzazione produttiva, la riforma complessiva della formazione
sociale sovietica per adeguarla pienamente alle leggi del mercato capitalistico,
messi in atto con la Perestroika di Gorbaciov, non potevano certo frenare
in tempi brevi la crisi dell'URSS. Hanno approfondito, invece, le contraddizioni
all'interno dei diversi settori della borghesia di Stato e di partito
e, contemporaneamente, con il taglio delle spese sociali, la mobilità
della forza-lavoro, l'innalzamento della produttività, hanno messo
a nudo profonde contraddizioni di classe facendo saltare per sempre il
"patto classe-Stato" su cui si reggeva il sistema di potere
sovietico.
Per tutti gli anni '80 abbiamo assistito,
in URSS, al micidiale intrecciarsi degli effetti della crisi economica
e sociale interna, di cui il polarizzarsi dello scontro di classe e il
sorgere delle spinte centrifughe dei nazionalismi sono gli aspetti più
evidenti, con quelli prodotti dalla competizione/aggressione economica
degli USA e dell'intero Occidente scatenata per favorire la disgregazione
dell'area economica dell'Est e per costruire rapidamente le condizioni
per la sua completa integrazione nel mercato mondiale e per la penetrazione
incontrollata dei capitali occidentali.
Oggi il crollo dell'area COMECON e la disgregazione
dell'URSS sanciscono la fine del "bipolarismo" stabilito a Yalta
come sistema di equilibrio planetario post-Seconda Guerra Mondiale e aprono
un periodo caratterizzato da una profonda instabilità a livello
mondiale.
All'interno del territorio della ex URSS
vanno intensificandosi le dinamiche contraddittorie.
In primo luogo, il processo di riconversione
verso una economia di "libero mercato" e di privatizzazione
capitalistica delle strutture monopolistiche di Stato esistenti accelera
la tendenza all'integrazione nel sistema economico occidentale e nelle
sue istituzioni-cardine (dal FMI/BM al GATT e, seppure non a breve termine,
alla NATO e al G-7). Ciò sta portando alla completa sparizione
del sistema sociale sovietico per consentire i margini di accumulazione
necessari allo sviluppo delle imprese private e di monopoli economici
in grado di predisporsi alla competizione sull'intero mercato mondiale.
La politica che lo zar Eltsin persegue concretamente per rafforzare la
"Grande Russia" è l'aspetto più esemplare della
tendenza antiproletaria in atto.
L'estendersi della penetrazione delle multinazionali
occidentali, alla ricerca di condizioni di valorizzazione più vantaggiose
e per stabilire posizioni privilegiate di sfruttamento e controllo degli
enormi mercati dell'ex-URSS, velocizza ulteriormente la trasformazione
radicale dei rapporti di produzione favorendo lo sviluppo del processo
di concentrazione e internazionalizzazione dei capitali e, ad un tempo,
la concorrenza interimperialista. Già ora, ad esempio, l'amministrazione
USA, di fronte alle maggiori possibilità di penetrazione all'Est
aperto ai monopoli CEE e giapponesi, non esita ad ostacolare ogni intesa
che possa, anche indirettamente, favorire l'affermarsi di una "area
economica di libero scambio dall'Atlantico agli Urali" (per non parlare
dell'avanzata giapponese verso l'area asiatica dell'ex URSS...).
L'insieme di questi mutamenti della formazione
sociale sovietica si traduce in un approfondimento delle contraddizioni
di segno capitalistico e in una intensificazione della lotta di classe
in Russia e in ciascuna delle repubbliche della neonata Confederazione
di Stati Indipendenti (CSI). Il drammatico peggioramento delle condizioni
di lavoro e di vita dei proletari fino al loro puro e semplice affamamento,
il manifestarsi e il moltiplicarsi delle proteste e delle lotte proletarie
in tutta la CSI, si accompagnano ad una pesante ridefinizione autoritaria
degli Stati, degli assetti di potere nella Russia e nelle altre repubbliche,
per consentire la ristrutturazione produttiva e controllare/contenere
le esplosioni sociali che ne derivano.
Questo insieme di profonde trasformazioni
aprono all'interno della CSI un nuovo significativo scontro di classe,
di enormi proporzioni, in una situazione già sconvolta dall'espandersi
dei conflitti etnici e dall'affermarsi crescente dei nazionalismi.
Questo ingresso di milioni di uomini e
donne nella lotta di classe e il radicarsi della contraddizione tra proletariato
e borghesia nell'intero territorio dell'ex URSS, dimostra quanto il progetto
imperialista di "nuovo ordine mondiale", che dovrebbe sorgere
dalle ceneri del "bipolarismo", sia utopico e di improbabile
realizzazione.
Il crollo del "blocco dell'Est"
non significa affatto la "fine del comunismo". Tutt'altro. L'entrata
di centinaia di milioni di proletari sull'aperto terreno dello scontro
di classe riafferma ancor più l'esigenza della rivoluzione comunista
e di un rilancio dell'internazionalismo proletario.
4. Con gli anni '90 si apre un periodo
di riorganizzazione mondiale e di ridefinizione della divisione internazionale
del lavoro di difficile valutazione al momento, e di nuove contraddizioni
e competizioni capitalistiche nel quadro di un equilibrio di forze mutato
a favore dei paesi occidentali.
Questa fase è attraversata da tempo
da una contraddizione storica causata dall'agire di due fattori contrastanti.
La perdita di egemonia USA, che aggrava la crisi capitalistica in quanto
con essa viene meno il centro di un sistema di rapporti imperialisti sempre
più complessi e, nello stesso tempo, la politica militare sempre
più aggressiva degli Stati Uniti, che cercano di porre un freno
al loro declino imponendo ovunque la pax americana.
Tutto questo non fa che accrescere l'instabilità
del sistema mondiale e moltiplicare i conflitti e le spinte centrifughe:
accelerare oggettivamente la tendenza alla guerra.
Oggi gli USA stanno spingendo al massimo
livello il loro ruolo di gendarme mondiale, sia per far fronte ad ogni
possibile sviluppo progressista e/o rivoluzionario nel Sud del mondo,
sia per cercare di assestare la loro leadership in rapporto alle altre
potenze interne al sistema imperialista.
Dagli anni '70, infatti, la perdita di
egemonia USA è una spina nel fianco delle amministrazioni statunitensi,
che dai tempi di Carter e Reagan si sforzano di riconquistare una centralità
all'economia e al sistema di potere USA, contro l'emergere delle nuove
potenze Giappone e CEE. La guerra USA è una scelta generale e strategica
delle amministrazioni statunitensi perché essi sono ormai costretti
a muoversi sul terreno della guerra per riaffermare una centralità
e riconquistare un'egemonia perduta da anni.
«Per gli USA questa guerra (quella
del Golfo) è l'occasione opportuna per legare la questione del
ruolo di leadership all'interno del blocco occidentale ancora di più
alla forza militare. Nello stesso tempo con questa guerra vogliono naturalmente
risanare la loro economia sfasciata. Attualmente nel Golfo ha luogo anche
la lotta di concorrenza degli Stati-cuore imperialisti, cioè del
centro, l'uno contro l'altro, per il potere futuro e l'influenza nella
regione medio-orientale e l'egemonia all'interno del campo imperialista.»
(RAF, Commando Ciro Rizzato, 15/2/1991).
Fin dalla guerra nel Golfo, gli scopi statunitensi
sono stati espliciti. Vinta la guerra le dichiarazioni per riaffermare
l'egemonia USA sono diventare continue ed aggressive.
Da quelle dei generali del Pentagono: «L'importante
è capire che noi non smobilitiamo come dopo la Seconda Guerra Mondiale
o dopo la Corea. Il mondo è ancora un posto veramente pericoloso...
L'ultima lezione che dobbiamo trarre da questa operazione è che
è importante rimanere impegnati in tutto il mondo. Non è
il momento di tornare a casa. Dobbiamo rimanere in Europa, nel Sud-Est
asiatico, in Medioriente così come nel Pacifico.» (Colin
Powell, intervista del 18/4/1991).
A quelle di Bush di fronte alla grave recessione
interna in USA nel post-guerra: «Noi siamo l'indiscusso e rispettato
leader del mondo... La guerra fredda è finita e noi dobbiamo rimanere
impegnati oltre oceano per guidare la ristrutturazione economica, costruire
liberi mercati. Noi vinceremo la guerra della competizione economica».
(Discorso alla Nazione, febbraio '92).
Ma questa guerra alla recessione interna,
per gli USA, sembra già persa in partenza, di fronte all'avanzare
della crisi e ai disastri economici interni prodotti negli anni '80 dalle
politiche reaganiane degli armamenti e oggi dall'intervento nel Golfo.
I dati della crisi USA restano confermati nel tempo e tendono ad aggravare
tre aspetti principali.
Gli USA sono il paese con il più
elevato debito estero ed esso continua ad aumentare. Sono il paese più
colpito dalla recessione economica: le industrie statunitensi di alta
tecnologia sono sempre meno competitive rispetto a quelle giapponesi ed
europee, e controllano sempre di meno le loro quote di mercato. Nel complesso
si allarga il fossato tra USA-Giappone-RFT sul piano della crescita industriale
(il tasso di crescita dell'anno 1989/'90 è rispettivamente: -0,5%,
+ 6,8%, +5,6%!). Infine i livelli di disoccupazione e povertà all'interno
dell'impero sono in continuo aumento e tali da fare ricordare gli scenari
della depressione degli anni '30.
L'insicurezza del posto di lavoro e di
un reddito garantito ha colpito fasce crescenti della popolazione statunitense,
diffondendo un panico generalizzato in stridente contrasto con il ruolo
di superpotenza mondiale, ma comprensibile di fronte alla bancarotta di
imprese-simbolo per l'"american way of life", come PANAM, TWA,
MACI'S, e alla crisi di giganti planetari come IBM, General Motors, Ford...
Per non parlare dei timori incontrollabili generati dai ricorrenti rischi
di crolli finanziari a Wall Street! Gli afro-americani, i portoricani,
gli ispanici, i nativi americani e settori sempre più vasti di
classe operaia, sono le fasce di popolazione più direttamente colpite
tanto dalla recessione prolungata quanto dalle misure economiche adottate
dall'amministrazione Bush.
L'acuirsi della lotta di classe segna sempre
di più il conflitto sociale anche nel cuore dell'impero.
5. Il rapporto Nord-Sud oggi è un
rapporto di guerra su tutti i fronti perché le necessità
di sfruttamento delle risorse e di controllo del mercato a favore delle
strategie di espansione planetaria dei monopoli mondiali impongono di
stroncare ogni forma di potere autonomo nelle aree del Sud.
L'imperialismo occidentale non solo cerca
di impedire che si affermino le lotte di liberazione e di autodeterminazione
dei popoli e contribuisce attivamente, con le sue strategie sovranazionali
(direttive del FMI in testa), le sue operazioni speciali, alle politiche
di repressione del proletariato in ogni angolo del Tricontinente, ma non
consente più ad alcuna borghesia nazionale di raggiungere quella
soglia di potere economico-politico-militare che possa porla nelle condizioni
di svolgere un ruolo guida nell'area geopolitica in cui è inserita
e di manifestare una qualche autonomia dall'impero e dalle sue esigenze.
Se il modello imperialista della "guerra
a bassa intensità" aveva già portato alle occupazioni
militari di Grenada, Panama, all'assedio decennale del Nicaragua sandinista
fino al suo crollo, all'intervento in Salvador contro la guerriglia e
alla "guerra alla droga" come modello operativo contro le lotte
di liberazione in Perù, Colombia e in tutta l'America Latina, la
guerra contro l'Irak degli USA e della coalizione occidentale sotto l'ombrello
ONU, chiarisce il nuovo significato del diritto internazionale e del "nuovo
ordine mondiale" che si vuole costruire.
La sconfitta dell'Irak deve costituire
un monito e una lezione per tutti i paesi del Tricontinente e per le borghesie
nazionali arrivate al potere nei diversi paesi con la dissoluzione degli
imperi coloniali.
Di fronte ai processi di ricompradorizzazione,
di pacificazione forzata e di guerra messi in atto dall'imperialismo in
ogni area del mondo deve diventare chiaro ad ogni borghesia nazionale
che nessuna opposizione verrà più tollerata. Le borghesie
nazionali non solo non riescono più a mantenere un ruolo progressista
verso il cambiamento, ma devono trasformarsi direttamente in cinghie di
trasmissione degli interessi imperialistici nei paesi del Tricontinente.
Questa nuova realtà dello scontro
pone milioni di proletari del Sud direttamente a contatto con la dimensione
internazionale del loro nemico - nulla è più chiaro dell'esempio
fornito dalla guerra nel Golfo - e crea le condizioni oggettive di un
antagonismo sempre più forte contro l'imperialismo e il suo sistema
di sfruttamento, affamamento e distruzione del Sud.
Nell'area mediorientale, in particolare,
l'aggressione imperialista ha come scopo quello di frantumare anche la
sola idea della Nazione Araba, costruendo divisioni e schieramenti contrapposti
all'interno delle borghesie arabe fino al consolidamento di un fronte
di alleanze con l'imperialismo statunitense ed europeo.
Nello stesso tempo USA e CEE hanno riaffermato
il ruolo strategico, in funzione occidentale, dell'entità sionista
nell'intera area con continui aumenti degli aiuti economici e militari
e con l'aperto sostegno politico a livello internazionale. Parallelamente
hanno affidato alla Turchia un ruolo-cardine nella regione, dotandola
di strumenti e basi militari che la rendono un vero avamposto della NATO
anche negli interventi contro i popoli del Medio Oriente.
Con questo significativo salto di qualità
l'imperialismo cerca di stabilizzare l'area mediorientale liquidando il
ruolo della rivoluzione palestinese, controllando l'espandersi della lotta
di liberazione del popolo curdo e facendo arretrare l'intero fronte della
lotta del popolo arabo.
Ma si trova sempre più di fronte
al carattere esplosivo delle contraddizioni aperte dalle questioni palestinese
e curda, diventate ormai i principali catalizzatori delle aspirazioni
antimperialiste nella regione, e dell'estendersi delle lotte proletarie
in molti paesi arabi.
La strategia di guerra contro il Sud è
guidata dagli USA, ma vede necessariamente un ruolo attivo della CEE e
del Giappone, che non possono non partecipare alla creazione del "nuovo
ordine mondiale" per le loro esigenze strategiche. Pur nelle divergenze
di interessi, essi sono uniti agli USA nella guerra imperialista contro
il Sud del mondo. Ieri contro l'Irak, oggi contro la Libia...
Questo scenario definisce nettamente il
ruolo dell'"Unione Europea" e della stessa Italia, e ha già
portato a nuove e concrete decisioni e ridislocazioni dei centri di comando
e delle forze NATO, in quanto è la strategia dell'alleanza ad essere
cambiata, diventando planetaria, dotandosi di una forza di rapido intervento
capace di essere protagonista a fianco degli USA nelle "operazioni
di polizia internazionale" in particolare contro il Sud. Intorno
agli USA i gendarmi del mondo si sono moltiplicati e vanno attrezzandosi
per il futuro come dimostra il dibattito in corso in Europa e in Giappone
per dotarsi di una politica e di una forza militare autonoma.
La nuova epoca aperta dalla fine del "bipolarismo"
e segnata dal persistere della crisi di egemonia USA, vede una profonda
ridefinizione degli assetti di potere e delle strategie imperialiste mondiali,
come dimostrano le decisioni che i vertici del G-7 sono costretti ad adottare
per adeguarsi ai cambiamenti in atto. Con il vertice di Londra (luglio
'91) «il G-7 si è evoluto in una specie di direttorio politico
globale di Europa, USA, Canada, Giappone... Il mondo si sta muovendo verso
un nuovo tipo di superpotenza; una coalizione la quale riconosce che nessuno,
inclusi gli USA, è in grado di risolvere i problemi contando esclusivamente
sul proprio peso. Ma non lo possono fare neppure le Nazioni Unite senza
una potente e determinata leadership.» (International Herald Tribune,
25/7/'91). Questo direttorio mondiale sta agendo di fatto da tempo ed
ha trasformato l'ONU in un suo braccio politico e il "diritto internazionale"
in uno strumento di legittimazione di ogni intervento. Lo si è
visto con le risoluzioni ONU adottate prima, durante e dopo la guerra
del Golfo e con quelle che sono state decise recentemente contro la Libia.
Si è affermata così - come dice De Michelis - «la
grande idea-forza, il vero concetto nuovo di questo scorcio di secolo...
sospendere la sovranità (di uno Stato) se essa è esercitata
in modo criminale».
In questo modo la vocazione principale
dell'ONU diventa il diritto di ingerenza negli affari interni di singoli
Stati e di intervento "a fini umanitari", fino all'idea di predisporre
una "forza militare internazionale" sempre pronta, come è
emerso nel Consiglio di Sicurezza del febbraio '92, che ha visto la prima
significativa presenza della Russia, aspirante nuova potenza al posto
della scomparsa URSS. Su queste basi e con questi strumenti l'imperialismo
ha costruito le premesse per intensificare ed estendere la guerra al Sud.
Nell'epoca dell'interdipendenza planetaria
il diritto imperialista di ingerenza ed intervento è generalizzato:
«L'idea statunitense del nuovo ordine mondiale è che ogni
situazione in ogni parte del mondo porterà a tensioni in altri
paesi della stessa regione e da qui comporterà disordine nel mondo.
Così gli USA hanno avanzato certi principi per ristabilire l'ordine
nel mondo. » (Forward, luglio 1991).
6. La spinta alla mondializzazione dell'economia
come risposta alla crisi capitalistica ha portato ad un mondo caratterizzato
da processi di globalizzazione ed interdipendenza economica, che attraversano
ormai ogni area del centro e della periferia generando violentissime contraddizioni
a livello planetario. Dentro questo orizzonte si sviluppa la tendenza
alla concentrazione e internazionalizzazione dei capitali portando all'estremo
la concorrenza tra monopoli multinazionali e multiproduttivi e la polarizzazione
tra ricchezza e miseria, tra borghesia e proletariato. Un processo che
non fa che alimentare le contraddizioni e moltiplicare gli scontri interimperialistici
nel mondo intero.
Oggi assistiamo ad una tappa intermedia
- molto più avanzata di quella analizzata da Lenin - di questa
spinta alla mondializzazione: la regionalizzazione, cioè l'aggregazione
economica in aree continentali per creare le condizioni attraverso cui
i capitali più forti si uniscono, costruendo monopoli regionali
continentali, per raggiungere le dimensioni necessarie a vincere la concorrenza
e a valorizzarsi. Questo è il punto di equilibrio attualmente raggiunto
dal capitalismo per sopravvivere alla crisi, ma è anche un processo
che in prospettiva aggraverà e moltiplicherà i conflitti
e gli scontri tra i diversi blocchi regionali, alimentando ancora di più
la tendenza alla guerra, di fronte alla crisi dell'intero sistema e alla
competizione spietata tra monopoli economici regionali con urgenza di
profitto e di mercato sempre più grandi.
Ciò significa, semplicemente, che
la dinamica unitaria che spinge ed accelera i processi di aggregazione
economica continentale e regionale approfondisce, contemporaneamente,
la dinamica contraddittoria all'interno del sistema capitalistico, per
la proiezione planetaria dei monopoli, degli Stati e dei blocchi regionali.
Già oggi la battaglia da tempo in atto a livello del GATT (Accordo
Generale sulle Tariffe Doganali e Commerciali) mette a nudo le reciproche
politiche protezionistiche a livello di area e, quindi, la vera e propria
guerra economica che si va addensando. Come altrettanto evidente è
l'aggressività dei monopoli più forti, e degli Stati che
li sostengono, al di là delle loro aree di riferimento e mercato.
Queste sono soprattutto delle piattaforme/fortezze dentro cui rafforzarsi
per proiettarsi con più successo verso l'esterno.
La tendenza a superare la crisi con la
costituzione di "blocchi regionali", in realtà, ripropone
ad un livello diverso e più alto la contraddizione tra forze produttive
e rapporti di produzione. Se da una parte la regionalizzazione porta con
sé il superamento delle forme di dominio e di rapporti produttivi
ad ambito nazionale, dall'altra crea un'altra gabbia per le forze produttive,
destinata a trasformarsi in una nuova catena per il loro sviluppo. Di
fatto è l'impronta "cosmopolita", mondiale, data alla
produzione dalla borghesia fin dal sorgere del capitalismo, che non accetta
barriere di alcun genere alla sua espansione. L'ambito regionale, in prospettiva,
si rivela altrettanto asfittico e limitante di quello nazionale, per le
stesse politiche protezionistiche e di difesa adottate a livello di area!!
Alla fine, irrimediabilmente, «questi rapporti (di produzione) da
forme di sviluppo delle forze produttive si convertono in loro catene.»
(Marx).
Assieme al consolidarsi e potenziarsi nel
corso degli anni del polo economico-politico-militare europeo, con la
sua proiezione naturale nell'area mediorientale-mediterranea-africana,
ha preso vita la formazione di un'area di libero scambio nel Nord-America,
dall'Alaska al Messico, attorno agli USA, con proiezione nell'area Caraibica
e Latino-americana, come anche un terzo processo nel Sud-Est Asiatico
intorno al Giappone, con proiezione nell'intera area dell'Oceano Pacifico.
Questo potente processo di concentrazione
in poli economici regionali investe l'intero centro imperialista e assesta
la tendenza in atto alla definizione di un'area del dollaro intorno agli
USA, di una dello yen attorno al Giappone e di una terza dell'ECU intorno
all'"Unione Europea". Essi si presentano come i principali processi
di stabilizzazione del nuovo ordine economico e della nuova divisione
internazionale del lavoro.
Anche nelle aree del Tricontinente hanno
cominciato a prendere forma diversi processi di aggregazione in blocchi
economici regionali. Da quello nell'area mediterranea dell'"Unione
del Maghreb Arabo" (HUMA), a quello nell'America Latina del MERCOSUR,
a quello nell'area del Sud-Est Asiatico attorno all'Indonesia.
Questa tendenza alla regionalizzazione
si rivela dominante a questo stadio dello sviluppo capitalistico.
Il polo imperialista europeo
«La borghesia sopprime
sempre più il frazionamento dei mezzi di produzione, della proprietà
e della popolazione. Essa ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato
i mezzi di produzione e concentrato la proprietà in poche mani.
Ne è risultata come conseguenza necessaria la centralizzazione
politica, province indipendenti, quasi appena collegate tra loro da vicoli
federali, province con interessi, leggi, governi e dogane diversi, sono
state strette in una sola nazione, con un solo governo, una sola legge,
un solo interesse nazionale di classe, un solo confine doganale».
Gli anni '90 si aprono in un clima di grande
instabilità, determinata dalla fine del "bipolarismo",
dall'approfondirsi della crisi di egemonia USA e dalla recessione economica
che ormai investe l'intero mondo capitalistico.
In questo contesto, il processo di integrazione
economica che ha portato in questi anni alla costituzione del "Mercato
Unico Europeo", subisce una ulteriore accelerazione verso l'unione
economica e politica.
Come la costruzione del "Mercato Unico"
ha dato forte impulso alla integrazione europea, determinando il trasferimento/centralizzazione
di molti poteri dagli Stati-nazione verso strutture e organismi sovranazionali,
la nuova tappa, l'"Unione Economica e Politica Europea", intensifica
il processo di ridispiegamento del sistema di potere borghese sia all'interno
dell'Europa che sullo scenario mondiale.
Negli organismi CEE che in tutti questi
anni hanno assolto il compito di coordinare le diverse politiche economiche
dei singoli Stati, si sono venuti a sviluppare nuovi assetti politici
istituzionali, che a loro volta hanno determinato profonde modificazioni
su questo piano in tutti i 12 paesi della CEE.
A dare corpo a questo processo sono i passaggi
concreti - che caratterizzano il formarsi del polo imperialista europeo
- per dotarsi di una politica industriale e commerciale comune, di una
unione economica e monetaria, di una politica interna e di "sicurezza
sociale", di una politica estera e difesa comuni.
La realizzazione di questi passaggi e di
questi obiettivi segna l'attuale fase del processo di integrazione comunitaria
dei 12 Stati europei, e della loro proiezione imperialista in ogni area
del mondo.
1. La crisi capitalistica è sempre
anche crisi delle forme economiche, politiche e militari di dominio. Quanto
più si sviluppa il processo di integrazione/omogeneizzazione della
formazione economico-sociale europea, tanto più la funzione degli
Stati nazionali subisce profonde modificazioni. La crisi-sviluppo del
modo di produzione capitalistico ha rotto la separazione tra le diverse
formazioni sociali nazionali europee. Ha dato luogo a fenomeni economici,
politici e sociali che non possono più essere regolamentati, diretti
e governati in ambito nazionale.
Alla fine degli anni '70, questo problema
si impone in modo improrogabile e dirompente;
Sull'asse franco-tedesco si accelera la
fase dell'integrazione europea. Si costituisce il "Sistema Monetario
Europeo", e si avvia concretamente la fase del "Mercato Unico"
che, passando per l'"Atto Unico" dell'84, si concluderà
entro la fine del 1992.
Queste scelte danno respiro strategico
alle politiche industriali e finanziarie dei grandi trust oligopolistici
multinazionali, facendo convergere intorno ad essi, ai loro processi di
ristrutturazione e di rilancio del profitto, tutte le risorse e le politiche
economiche e sociali degli Stati europei. Ciò determina profonde
trasformazioni nel rapporto capitale-lavoro, nella pubblica amministrazione,
nella spesa pubblica, nel sistema legislativo, ecc., in tutti i paesi
CEE, tese a garantire il massimo profitto e ad imporre una nuova qualità
del dominio di classe.
La costituzione del "Mercato Unico",
è anche la risposta della borghesia imperialista europea alla svolta
"neoliberista" che, a partire dalla politica dell'amministrazione
USA negli anni '80 ha teso ad affermarsi in tutto il sistema capitalistico
mondiale, per far fronte all'aggravarsi della crisi economica.
Per i grandi troust monopolistici multinazionali
diviene di vitale importanza poter agire incontrastati e senza vincoli
sull'intero mercato capitalistico mondiale, così da potersi comunque
garantire un tasso di crescita, seppure su basi sempre più ristrette.
L'insieme di questo movimento porterà
al definitivo crollo del welfare-state. La "deregulation" economica
e sociale si estende a tutti i paesi, i quali fanno della riduzione dei
salari, dell'aumento della produttività, e della riduzione della
spesa pubblica, un fattore determinante per la competitività internazionale.
In nome del "libero mercato"
e della "difesa della concorrenza" cadono le barriere tariffarie
e i confini doganali, viene fortemente ridimensionato il ruolo e l'intervento
dell'industria pubblica a vantaggio dei trust multinazionali privati che
penetrano e divorano tutti i settori privatizzati.
La legislazione sulla concorrenza comunitaria
accelera i processi si concentrazione capitalistica a livello continentale,
annullando progressivamente qualsiasi struttura o norma che non siano
funzionali alla libera circolazione delle merci, dei capitali, e ad ottenere
il massimo profitto.
La Commissione e la Corte di Giustizia
CEE, in tutti questi anni, hanno sviluppato una vera e propria strategia
per lo smantellamento dei monopoli pubblici, dei settori protetti e della
legislazione del lavoro in tutti i paesi europei... Attualmente è
in atto una deregulation progressiva che ha aperto una breccia nei monopoli
energetici pubblici nazionali; nel campo degli apparecchi terminali, delle
telecomunicazioni e dei servizi postali, a favore degli oligopoli multinazionali
privati.
Su questo terreno in Italia si sta da tempo
giocando un aspro scontro tra partiti di regime, apparati dello Stato
e altre forze borghesi. Privatizzare le "Partecipazioni Statali"
significa infatti incidere pesantemente su uno dei pilastri che hanno
sorretto il potere dei partiti di governo - Democrazia Cristiana in testa
- dai primi anni '50 in poi.
Ma la recessione, le pressioni dei monopoli
privati, il disastro del bilancio pubblico e le direttive della CEE, hanno
portato di fatto il governo a prendere una decisione irreversibile, collocandosi
nella stessa direzione degli altri paesi europei.
La recente approvazione della legge sulle
privatizzazioni avvia la trasformazione in "Società per Azioni",
da collocare sul mercato, della maggior parte delle aziende di Stato.
Per citare le più importanti, l'IRI, l'ENI, l'EFIM, l'ENEL, le
Ferrovie, le Poste e Telecomunicazioni...
Un processo che comporta una gigantesca
ristrutturazione e "razionalizzazione" produttiva con il consueto
corollario di tagli, chiusure di stabilimenti e migliaia di licenziamenti.
La liquidazione del siderurgico pubblico
negli anni scorsi è stata una esemplare anticipazione di questa
dinamica; di come la ristrutturazione di questo settore in tutta Europa
sia stata diretta in modo centralizzato dagli organismi della CEE.
2. La costituzione del "Mercato Unico
Europeo" (come d'altra parte quella di altri mercati regionali di
libero scambio: quella tra USA-Canada-Messico e quello tra Giappone e
paesi industrializzati del Sud-Est Asiatico...) riflette la necessità
di una maggiore concentrazione dei capitali e di agire su aree economicamente
integrate e di grande ampiezza. Una dinamica tutt'altro che lineare perché
la concorrenza e concentrazione di capitali sono poli inseparabili della
stessa contraddizione.
Al di là del tanto sbandierato "libero
mercato mondiale", stiamo assistendo alla formazione di aree continentali
sempre più integrate al loro interno e sempre più protette
e aggressive verso l'esterno. All'accrescersi dell'interdipendenza economico-commerciale
tra le maggiori potenze mondiali, come USA, Europa, Giappone, corrispondono
nuove forme di protezionismo, che sfociano puntualmente in vere e proprie
guerre commerciali che investono tutti i settori produttivi.
L'esigenza di fondo che muove il processo
di costruzione dell'Unione Europea, e che allo stesso tempo ne costituisce
la specificità, risiede nel fatto che l'Europa non è una
nazione unica come gli USA, e, oltre a ciò, non c'è in Europa
un paese che abbia la forza sufficiente per imporsi da solo, in quanto
potenza egemone, come nel caso del Giappone nei confronti dell'area del
Sud-Est Asiatico.
È senza dubbio vero che la rinata
"Grande Germania" occupa in questo processo un posto fondamentale
come maggiore potenza economica europea, cosa che le fa assumere un ruolo
crescente sul piano della politica industriale e monetaria e della politica
estra comunitaria. Ma è altrettanto vero che essa non può
fare a meno di legarsi saldamente alla formazione del polo economico-politico
europeo, che solo nel suo insieme può garantire la forza e il peso
per collocarsi adeguatamente nella nuova configurazione del sistema imperialista
che si sta delineando.
Per questo, qualsiasi visione di ritorno
ad una "Europa delle Patrie", per quanto presente nelle tendenze
inevitabilmente innescate da questo grande processo, siano esse "Quarto
Reich" o altre, è in realtà in contraddizione con le
oggettive dinamiche imposte dalla crisi capitalistica.
Il soggetto che si sta consolidando in
questo contesto è, nei fatti, una vera e propria borghesia multinazionale
europea, a cui sono subordinati tutti gli interessi particolari.
Per la borghesia imperialista europea,
la costruzione del "Mercato Unico" non si può limitare
ad una "zona di libero scambio", di circolazione di merci e
capitali. Nei fatti l'Europa è già terreno di battaglia
per i maggior oligopoli multinazionali di USA e Giappone. Di qui la spinta
della borghesia imperialista europea affinché all'integrazione
economica corrisponda quella politica, ed ogni ritardo su questo terreno
rischia di far saltare l'intero processo e di frenarne la proiezione mondiale
come polo imperialista.
3. L'approfondirsi della crisi-recessione,
che a diversi livelli investe l'intero mondo capitalistico, è il
fattore fondamentale che sta cambiando gli equilibri di potere esistenti
fin dal dopoguerra tra le maggiori potenze mondiali. Essa ha determinato
il crollo del blocco COMECON, ha approfondito la crisi di egemonia degli
USA, ha ridefinito i rapporti di potere tra l'imperialismo occidentale
e le aree del Tricontinente e nell'intero assetto del dominio di classe
della borghesia verso il proletariato.
Tutto questo ha, a sua volta, contribuito
a spingere l'integrazione europea verso l'unione economica e politica.
Il vertice intergovernativo di fine '91
a Maastricht, che ha portato alla firma del nuovo trattato sull'"Unione
Europea", ha aperto la "terza fase" (dopo il Trattato di
Roma e l'Atto unico) dell'integrazione economica e politica dei paesi
CEE e ne ha accentuato la proiezione esterna ponendo questo processo come
polo di attrazione dell'Europa intera, compreso l'ex blocco orientale.
Alla progressiva omogeneizzazione della
formazione economico-sociale europea, corrisponde un processo di centralizzazione
dei poteri a livello sovranazionale che si impone oggi come movimento
dominante rispetto alla struttura di potere dell'ambito nazionale. Una
riarticolazione sempre più complessa del dominio borghese che svela,
allo stesso tempo, in maniera chiara, una svolta autoritaria nei sistemi
politici dei paesi europei, e che fa emergere più che in passato
la reale natura di classe dello Stato e della democrazia borghese, in
quanto strutture di oppressione verso il proletariato.
La crisi economica porta inevitabilmente
allo smantellamento dello "Stato sociale", al ridimensionamento
di tutte le conquiste della classe operaia e del proletariato e dunque
alla riduzione drastica di ogni spazio di autorganizzazione e di rappresentanza
autonoma di classe in tutta Europa. Sta qui, per inciso, la base principale
del crollo di ogni ipotesi e apparato riformista.
Grandi campagne di guerra psicologica borghese
da anni ammorbano l'area occidentale, sulla "fine del comunismo",
sulla "nuova era di pace", sul "nuovo ordine mondiale".
In realtà le dinamiche della crisi stanno rapidamente spazzando
via tutta questa cortina fumogena, mettendo allo scoperto la natura distruttiva
del capitalismo e dei suoi rapporti sociali, e allo stesso tempo, l'impossibilità
di un suo sviluppo equilibrato e pacifico.
Le lacerazioni aperte dalla crisi capitalistica
nell'assetto di potere della borghesia imperialista sono terreno di contraddizione
e dunque di lotta, di resistenza proletaria, di sviluppo dell'autonomia
di classe, di costruzione della coscienza e dell'agire rivoluzionario
a livello internazionale.
Ed è proprio attorno alla necessità
di far fronte a questa nuova qualità dello scontro che la borghesia
imperialista europea si è mossa per tutti gli anni '80 verso una
ridefinizione della sua struttura di potere a livello continentale.
Così il processo di formazione del
polo imperialista europeo, con al centro i grandi oligopoli multinazionali,
si è sviluppato in un duplice movimento: sul piano interno, verso
una maggiore integrazione/centralizzazione degli apparati di potere e
del dominio di classe, finalizzati all'esigenza di governare i conflitti
sociali nella formazione sociale europea; sul piano esterno come proiezione
delle strategie, interessi e rapporti di potere imperialisti dei paesi
CEE a livello mondiale.
È intorno all'emergere di una formazione
sociale capitalistica europea che nasce e si concretizza la ridefinizione
dell'assetto di potere della borghesia imperialista; dalla costituzione
degli organismi sovranazionali nel quadro dell'"Unione Europea",
al processo di rifondazione politico-istituzionale in atto negli stati
europei.
Lo Stato "non è altro che la
forma di organizzazione che i borghesi si danno per necessità,
tanto verso l'esterno che verso l'interno, al fine di garantire reciprocamente
la loro proprietà e i loro interessi" (Marx-Engels). I suoi
assetti istituzionali, di potere, e i piani di intervento mutano in stretta
dialettica con gli interessi della classe di cui è espressione,
questo per fare in modo che le sue strutture non si trasformino in "gabbie"
che impediscono alla borghesia di far fronte alle necessità imposte
dalla crisi economica e dal conflitto di classe.
In Europa è il processo di integrazione
che ha innescato questa dinamica in ogni stato del continente.
Così in Italia, il progetto di "riforme
istituzionali", lungi dall'esprimere solo una rideterminazione tecnica
degli apparati politico-istituzionali, implica una profonda ridefinizione
dell'assetto di potere, incorporando in questo movimento quanto su questo
piano è stato sancito in precedenza (come ad esempio le "forzature"
operate durante la guerra nel Golfo, vere e proprie sperimentazioni di
un modello di imposizione autoritaria di decisioni e scelte politiche
a tutto il paese). In sostanza una riarticolazione verticale dei poteri
e degli apparati dello Stato a partire dai centri di comando più
importanti, in primo luogo all'Esecutivo, che garantisca alla classe al
potere la possibilità di decisioni politiche rapide, in linea con
gli oneri e compiti che comporta la collocazione dell'Italia nel processo
di integrazione europea. Una scelta strategica che il potere borghese
italiano intende portare avanti in un quadro di governo delle contraddizioni
sociali dove il "consenso" delle masse non è da esso
ritenuto condizione indispensabile.
Questa dinamica ha i suoi corrispettivi
qualitativi praticamente in ogni stato europeo. Dalla Francia, dove la
retorica di Mitterand sulla VI Repubblica accompagna un concreto mutamento
politico istituzionale di cui il governo Cresson è battistrada;
alla Germania, dove è in atto, tra l'altro, una revisione costituzionale
per permettere la formalizzazione dell'interventismo militare pantedesco.
Questi mutamenti, dovendosi misurare con
condizioni preesistenti e storicamente determinate, si realizzano, nelle
situazioni specifiche, in tempi e con forme diversi da ricondurre comunque
sempre ad una unica qualità.
Il fattore dominante in questa complessa
ridefinizione del sistema di potere imperialista in Europa, sono gli interessi
dei grandi oligopoli multinazionali che ormai fanno il bello e il cattivo
tempo sull'intero continente, i processi di ristrutturazione e concentrazione
capitalistica finalizzati al rilancio dell'accumulazione, come pure la
proiezione e la salvaguardia dei loro interessi in ogni area del mondo.
4. Tre sono i pilastri si cui si basa la
nuova tappa verso l'"Unione Europea": l'"Unione Economica
e Monetaria"; la "Politica degli Interni e della Giustizia comune";
la Politica estera e di Difesa comune".
Questi tre pilastri, nella loro interazione,
rappresentano i passaggi centrali della formazione del polo imperialista
europeo. In questo la unificazione economica e monetaria precede e sollecita
il processo complessivo. C'è un nesso di distinzione dialettica
tra il momento del governo economico e monetario e l'intero riassetto
politico-istituzionale del potere politico che, dagli organismi CEE si
estende fino allo stato nazionale e alle diverse istituzioni e organismi
regionali.
4.1 L'unione economica e monetaria, dà
una ulteriore accelerazione al processo di convergenza economica perseguita
ormai da anni dalla borghesia europea per dotarsi di una Banca Centrale
e una moneta unica, entro la fine degli anni '90. Ciò determinerà
il trasferimento definitivo della "sovranità monetaria"
di ogni singolo Stato alla Banca Centrale, che opera indipendentemente
dal potere politico. Sono direttamente i grandi troust bancari-finanziari-industriali
a spingere la centralizzazione delle politiche monetarie attorno alle
loro esigenze.
Un processo iniziato negli anni '70 con
la crisi degli accordi di Bretton Woods, che nel '70 porta alla fondazione
del "Sistema Monetario Europeo (SME), e alla liberalizzazione dei
capitali aperta nel '90. Una ulteriore tappa, legata ai tempi necessari
ad una maggiore convergenza economica, è stata fissata per il gennaio
del '94, e prevede la costituzione di un "Istituto Monetario Europeo"
(IME).
Tutti questi passaggi stanno portando alla
costituzione di un sistema europeo di banche centrali imperniato sulla
Banca Europea e l'ECU come moneta unica. Una dinamica resa possibile da
una già esistente convergenza economica e monetaria realizzata
attraverso il processo di "disinflazione" degli anni '80, che
nel concreto ha significato il drastico taglio delle spese sociali in
ogni singolo Stato, e politiche di contenimento del costo del lavoro in
tutta Europa. Un attacco che oggi e per tutti gli anni 90 è condizione
per realizzare le tappe fissate dalla borghesia nella prospettiva dell'Unione
economica e monetaria.
Questo è il punto di riferimento
per la Banca d'Italia, che sta già sviluppando profonde trasformazioni
nella sua struttura per renderne irreversibile l'autonomia e predisporsi
all'interno del nascente "Sistema Europeo di Banche Centrali"
(SEBC) con al centro la futura Banca Centrale Europea.
4.2 Al processo di costruzione dell'unione
economica e politica corrisponde un riadeguamento delle strutture di potere
della borghesia. Un riadeguamento che ha la sua finalità principale
nella necessità di garantire la riproduzione dei rapporti sociali
capitalistici nel quadro attuale della crisi.
Quindi, questo nuovo assetto di potere
non si definisce solo attorno alle esigenze politiche derivanti dalla
concentrazione-centralizzazione capitalistica, ma trova la sua ragione
d'essere anche nel governo delle contraddizioni e dello scontro di classe.
A ciò corrisponde la necessità
di una politica degli Interni e della Giustizia comune a livello europeo,
e un complesso di trasformazioni politico-istituzionali dello Stato in
ogni paese.
Tutta la propaganda borghese sul passaggio
alla cosiddetta "II° Repubblica" qui in Italia, non è
altro che il rivestimento massmediato di una serie di mutamenti nel sistema
politico di potere, in cui emerge chiaramente la volontà di sancire
lo spostamento dei rapporti di forza a favore della borghesia per un più
adeguato governo del conflitto di classe. Ciò si inquadra in quel
processo di strutturazione autoritaria della "democrazia" da
tempo in atto in tutti i paesi del centro imperialista.
È a questo disegno che vanno ricondotti
i ripetuti attacchi alle conquiste operaie e proletarie, succedutisi per
tutti gli anni 80 in Italia. Questi attacchi, condotti dall'Esecutivo
e dal grande padronato, non hanno il solo obiettivo di liquidare le conquiste,
essi sono finalizzati infatti a stabilire meccanismi istituzionalizzati
che limitino ogni possibile sbocco e forma di lotta di classe. In pratica
si vuole porre sul piano dell'illegalità qualsiasi istanza di classe
e proletaria che sfugga alla cooptazione sociale istituzionalizzata. Una
dinamica resa possibile anche dall'opera di svendita del patrimonio di
lotta operaia da parte dei sindacati e partiti riformisti, i quali, facendo
proprie le necessità della borghesia e del grande capitale, si
stanno muovendo a livello internazionale, con i loro consimili degli altri
paesi, per impedire che le lotte del proletariato in Europa esprimano
coscientemente la loro qualità unitaria e i loro processi di organizzazione
autonoma.
Al processo di integrazione europea degli
anni 80 ha corrisposto un progressivo spostamento di poteri verso gli
organismi sovranazionali e una conseguente delega di sovranità,
su molti piani, degli Stati nazionali. Parallelamente si è imposta
una supremazia giuridica sull'intero territorio europeo. I "trattati
istitutivi" CEE rappresentano ciò che le "leggi istitutive"
sono per gli Stati, e insieme agli accordi UEO, TREVI e Schengen, come
pure alle molteplici sentenze della Corte di Giustizia comunitaria, stanno
uniformando le "carte costituzionali" e la legislazione di ogni
singolo Stato. Allo stesso tempo i loro emendamenti, sganciati da ogni
autorità politica parlamentare, hanno determinato un "deficit
democratico" che crea non poco imbarazzo ai tecnocrati degli organismi
comunitari, provocando su molti piani un esautoramento dei poteri parlamentari,
spesso ridotti a pura ratificazione delle loro direttive.
La legislazione comunitaria sviluppa ulteriormente
l'integrazione e la rifunzionalizzazione istituzionale degli Stati intorno
agli interessi della borghesia monopolistica sovranazionale. In questo
modo, ogni singolo Stato incorpora in sé il livello più
alto dato dalla dimensione sovranazionale dei rapporti di forza sull'intero
proletariato e l'insieme della sua strategia controrivoluzionaria.
L'omogeneizzazione della legislazione e
delle politiche comunitarie di controllo e repressione, si è venuta
sviluppando a partire dagli organismi CEE (Consiglio, Commissione, Corte
di Giustizia Europea...) e con la affermazione di una molteplicità
di strutture come TREVI, Schengen, etc., fino alla costituzione di un
vero e proprio spazio giuridico europeo.
Queste diverse istituzioni e apparati sovranazionali,
forti dell'esperienza accumulata ai massimi livelli dello scontro di classe,
attraverso trattati, codici, statuti, leggi, etc., hanno sviluppato una
politica di pianificazione sull'intero territorio europeo, omogeneizzando
un personale imperialista e rispettivamente strategie collocati ad alto
livello su tutti i piani dello scontro.
L'insieme degli apparati di controllo e
repressione a livello nazionale (polizie, magistrature, servizi segreti...),
hanno sviluppato in questa dinamica una strutturazione sempre più
integrata e coordinata in ogni paese e sul piano continentale.
La recente scelta operata in Italia per
razionalizzare e coordinare l'intervento di polizia, carabinieri e finanza,
risponde a una duplice esigenza: riorganizzare le forze in campo per ottenere
un controllo più capillare del territorio; usufruire di un forte
strumento centralizzato in grado di partecipare efficacemente alle strutture
integrate e di coordinamento operanti e con requisiti necessari alla prevista
formazione della "Europolizia".
È sempre in riferimento al processo
di integrazione che si devono inquadrare quelle mutazioni - attualmente
allo stadio di proposte e oggetto di aspri scontri tra i partiti e forze
borghesi - quali la ridefinizione della magistratura inquirente (che prevede
fra l'altro la subordinazione all'Esecutivo dell'iniziativa della "Pubblica
Accusa"), e in genere del ruolo stesso della magistratura e dei suoi
organi di governo (in particolare il Consiglio Superiore della Magistratura).
Tra i passaggi già operati c'è
la riforma del "codice di procedura penale" che avvicina la
politica penale italiana al modello legislativo nord-europeo, e che incorpora
la sostanza della cosiddetta "legislazione d'emergenza", prodotta
in 20 anni di attacchi violenti alle avanguardie rivoluzionarie, alla
guerriglia e alla lotta di classe nel suo insieme.
Migliaia di licenziamenti, aumento della
disoccupazione, riduzione del costo del lavoro, aumento dello sfruttamento,
riduzione di ogni spesa per l'assistenza, militarizzazione capillare del
territorio, razzismo, distruzione attiva e preventiva di ogni forma di
autorganizzazione e opposizione di classe e rivoluzionaria, attacco a
tutte le conquiste della classe operaia e dei lavoratori dei servizi,
fino al diritto di sciopero; uso della tortura, delle carceri speciali,
fino all'annientamento psicofisico dei prigionieri rivoluzionari attraverso
l'isolamento.
È questo il quadro di riferimento
su cui si è venuta sviluppando e omogeneizzando la politica interna
e la legislazione comunitaria, all'interno della rifondazione autoritaria
dei singoli stati.
È così ad esempio che il
"Gruppo TREVI" e su un altro piano gli accordi di Schengen,
si impongono come pilastri della controrivoluzione integrata tra i 12
Stati europei.
"TREVI-Schengen significa l'unificazione
e la standardizzazione giuridico-poliziesca e militare dell'insieme dei
compiti e dei metodi di inchiesta, di procedure e legislazione preventiva
e repressiva che superi le attuali frontiere... Ma, ancora, la messa in
atto del controllo delle popolazioni attraverso una banca dati integrata
e l'identificazione informatizzata. Così, lo spazio giuridico si
afferma, simultaneamente, nella ridefinizione del reato politico, nelle
procedure di estradizione, e nella soppressione del diritto di asilo,
fino alle nuove legislazioni che regolano l'ingresso e il soggiorno dei
lavoratori immigrati" (Prigionieri di Action Directe).
Con il nuovo Trattato di Maastricht, la
nascente "Unione Europea" estende i propri poteri in materia
di immigrazione, giustizia, interni, in una dimensione sempre più
integrata e gestita dalle istituzioni comunitarie. Queste centralizzeranno
materie come: politica comune di immigrazione, diritto di asilo, lotta
alla droga, cooperazione giudiziaria e soprattutto tra le polizie, con
il progetto di una polizia europea (Europol) sul modello del FBI americano.
Questa è una delle nuove competenze
in materia di "affari interni e giustizia" che la riforma del
trattato CEE ha attribuito all'"Unione Europea", come pure in
materia di immigrazione, di visti e diritto di asilo (in Italia l'ormai
famosa "legge Martelli" ha costituito il passaggio necessario
per aderire a "Schengen" e omologare il quadro legislativo alla
ridefinizione autoritaria delle politiche europee sul terreno del controllo
dei flussi migratori), di cooperazione giudiziaria, civile e penale. In
sostanza una struttura europea di controllo e repressione per la "prevenzione
e lotta al terrorismo" e altre "forme di criminalità
internazionale".
L'"Unione Europea" si dispone
così a far fronte alla massa di immigrati che preme ai confini
mediterranei e orientali della CEE, e alle lotte di resistenza e rivoluzionarie
del proletariato metropolitano europeo.
4.3 Il Trattato di Maastricht prevede che
gli "orientamenti generali" di politica estera e di difesa siano
votati all'unanimità dal Consiglio Europeo (capi di Stato e di
Governo), che le "linee di azione" siano votate all'unanimità
dal Consiglio dei Ministri degli Esteri, che le "modalità
di attuazione" vengano decise dal Consiglio dei Ministri degli Esteri
a maggioranza qualificata. La Commissione potrà formulare proposte
in materia di politica estera, di sicurezza comune, mentre i poteri reali
dell'Europarlamento saranno di semplice consultazione, se sarà
ritenuta necessaria.
Si tratta di fissare, sul piano economico,
le nuove coordinate della sua proiezione internazionale, del peso e del
ruolo che il polo imperialista europeo intende assumere in una rinnovata
divisione internazionale del lavoro, in competizione con le altre potenze
imperialiste USA e Giappone, entro cui garantire gli interessi dei grandi
gruppi multinazionali europei. E di ricollocare in questa organica prospettiva
tutta la fittissima rete di accordi e relazioni bilaterali e multilaterali
che la CEE ha sottoscritto in tutto il mondo, di integrare definitivamente
in questi il sistema di relazioni economiche e politiche internazionali
dei singoli Stati europei, di ampliare sempre più la sua penetrazione
e la sua opera di influenza nelle altre aree del mondo.
Sul piano politico-militare, l'"Unione
Europea", superando il terreno della semplice "cooperazione
intergovernativa" tende a diventare una vera e propria potenza internazionale,
all'interno di un nuovo "equilibrio di potere".
Questo significa, da un lato collocarsi
in maniera sempre più diretta a fianco degli USA (e del Giappone),
per mantenere il proprio dominio sul proletariato e i popoli di tutto
il mondo, dall'altro ritagliarsi e garantirsi un suo proprio ruolo e peso
sempre più autonomi nella gestione dei conflitti e delle "aree
di crisi".
Nei confronti delle altre potenze imperialiste,
USA e Giappone in testa, il polo europeo si trova impegnato in una vera
e propria guerra commerciale, fatta di tariffe protezionistiche, sovvenzionamenti,
politiche monetarie, diretta a salvaguardare le proprie aree di mercato
e a penetrare quelle avversarie, a garantire la propria produzione industriale
dalla concorrenza delle merci e dei capitali americani e giapponesi.
D'altra parte il polo imperialista europeo
è sempre più proiettato verso un ampliamento delle sue aree
di diretta influenza politica.
In ambito continentale, l'"Unione
Europea" punta alla costruzione di accordi di integrazione/subordinazione
con gli altri paesi europei. Uno è l'accordo per lo "spazio
economico europeo" che nei fatti altro non è che l'estensione/imposizione
ai 7 paesi EFTA delle normative, legislazioni e istituzioni dell'Unione
europea. Su un piano diverso sono gli accordi firmati in questi mesi da
Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia di "super-associazione" per
la costruzione di un'area di libero scambio per la totale apertura di
quei paesi alla penetrazione delle multinazionali europee, garantendo
la totale liberalizzazione del mercato del lavoro, delle merci, dei capitali.
Ma è tutta l'area europea che i
tecnocrati della CEE considerano "naturale orizzonte" per l'imperialismo
europeo. Basta vedere il ruolo che la "Unione Europea" intende
giocare nelle trasformazioni che investono tutta l'area ex COMECON e la
rete di accordi stipulati con i nuovi gruppi dirigenti di quei paesi.
Le vicende yugoslave mostrano in modo esemplare tutta la forza di incidenza
e pressione raggiunta dall"Unione" sul piano economico, politico
e militare, ma anche la diretta volontà politica di intervento
che ha acquisito maggiore organicità con le direttive del vertice
NATO di fine '91 a Roma, che ne ha orientato il livello di autonomia rispetto
alle politiche USA e alle decisioni dell'ONU.
Tutto il Tricontinente è, nel suo
complesso, obiettivo della penetrazione imperialista dei grandi oligopoli
multinazionali europei, nella loro esigenza imprescindibile di allargare
il loro campo d'azione all'intero mercato mondiale. Basti pensare all'America
Latina o all'Africa.
Ma è principalmente nell'area mediterraneo-mediorientale
che la pressione e l'iniziativa europea hanno assunto una rilevanza e
una caratteristica evidentissima. Spazzate via tutte le chiacchiere sulla
"integrazione tra le due sponde del Mediterraneo" o sull'"area
di pace", l'imperialismo europeo sta concretamente mostrando sul
suo "Fronte Sud" cosa intende per "rapporto Nord-Sud".
Dal tentativo, patrocinato dai ministri
degli esteri CEE, di stringere tutti i paesi del Mediterraneo in un sistema
di relazioni (la "Helsinki del Mediterraneo"...) che doveva
sancire e formalizzare in tutta l'area lo strapotere assoluto dei paesi
CEE, della NATO e di "Israele", si è passati alla guerra
di aggressione nel Golfo, fino a ritagliarsi uno spazio nell'impostazione
della cosiddetta "Conferenza di pace di Madrid", fino alle attuali
minacce contro la Libia.
Il Trattato della "Unione Politica
Europea" definisce esplicitamente la UEO (Unione Europeo-occidentale)
come nucleo di costruzione/elaborazione di una difesa comune. L'UEO attuerà
le decisioni della "Unione Europea" in un quadro di complementarità
con la NATO. Una posizione di mediazione tra le posizioni anglo-italiane
(che sottolineano il ruolo insostituibile della NATO) e quelle franco-tedesche
(che spingono per affidare alla UEO la difesa autonoma dell'Europa).
Queste scelte vanno inquadrate in rapporto
alla ridefinizione già operata &emdash; a fronte dello scioglimento
del Patto di Varsavia e all'emergere di nuove esigenze - della strategia
NATO, dalla "difesa avanzata" alla costruzione delle "forze
multinazionali di rapido impiego", capaci di fronteggiare anche le
emergenze del Fronte Sud. Questa ridefinizione sta comportando una riduzione
quantitativa delle forze USA e una loro sostituzione con truppe europee.
Nei fatti il potenziamento della UEO è
un rafforzamento del "pilastro europeo dell'Alleanza" che tuttavia
non segna un netto sganciamento della "difesa europea" dagli
USA.
Ma nello stesso tempo l'accordo di Maastricht
prevede la possibilità di nuovi sviluppi a partire da una maggiore
integrazione delle forze armate europee. È ancora una volta l'asse
franco-tedesco a rilanciare il piano per la creazione di una forza militare
europea pienamente indipendente sotto il comando UEO, in grado di agire
in piena autonomia. Questo piano prevede la piena subordinazione della
forza europea al Comando Atlantico in caso di aggressione al territorio
NATO, ma il suo impiego indipendente in caso di crisi fuori area (tipo
guerra nel Golfo). Si parte dall'embrione della brigata Franco-Tedesca
per dar vita ad una forza militare integrata a quella anglo-italiana e
sviluppare una forza di intervento rapido che operi nelle aree di crisi
fuori dal territorio NATO.
Infine tutti i paesi membri della CEE dovranno
aderire alla UEO (non ne fanno ancora parte Grecia, Danimarca e Irlanda)
la quale ingloberà nelle sue attività anche la Norvegia
e la Turchia membri della NATO ma non della CEE).
È in questo quadro che lo Stato
italiano, in stretto rapporto con gli altri Stati CEE, per coordinare
i progetti di integrazione della "difesa europea" e NATO, sta
approfondendo la riforma e ristrutturazione delle proprie forze armate.
Con l'elaborazione di un "Nuovo Modello
di Difesa" punta ad adeguare il dispiegamento di Esercito, Marina
e Aeronautica, della "forza di rapido intervento", attorno a
tre funzioni strategiche:
- la presenza e sorveglianza del territorio
in tempo di pace;
- la difesa integrata del territorio in
periodi di guerra;
- la proiezione fuori area, cioè
la "protezione degli interessi italiani all'estero" e la "protezione
della sicurezza internazionale".
Per l'esercito, il progetto di ristrutturazione
prevede la riduzione della componente di leva per arrivare alla costituzione
di un esercito professionale forte di 50.000 effettivi, integrato da 80.000
soldati di leva con l'appoggio dell'Arma dei Carabinieri che, oltre alla
funzione all'interno delle Forze Armate, ha quella di polizia e sicurezza
interna.
Una dottrina che per quanto riguarda il
suo ambito territoriale, abbiamo visto all'opera quando hanno scagliato
migliaia di soldati di leva a fianco dei Carabinieri contro gli immigrati
albanesi a Bari.
La "Forza di Rapido Intervento"
in questo quadro è costituita per essere pronta in permanenza ad
operare fuori area. L'Italia, inoltre, contribuisce alla Forza di Reazione
Rapida della NATO con 5 brigate.
Per la Marina e Aeronautica, nell'ottica
di gestione unitaria delle forze e mezzi aeronavali, lo Stato ha articolato
un piano di potenziamento per farne una componente integrata con compiti
di intervento in tutto il bacino del Mediterraneo e nel Vicino-Medio Oriente
in funzione delle necessità di sicurezza e difesa NATO-UEO-nazionali.
Strettamente interessato a questi sviluppi
è naturalmente il "complesso militar-industriale" che
è da tempo uno degli elementi costitutivi di quella borghesia imperialista
che è il motore della formazione del polo imperialista.
Il "mercato unico delle armi"
è affidato da tempo al "Gruppo Europeo Indipendente di Programmazione"
al quale aderiscono tutti i paesi CEE che fanno parte della NATO. Esso
si muove per raggiungere una maggiore efficienza dell'apparato bellico
europeo, un aumento della cooperazione del complesso milita-industriale
comunitario, la liberalizzazione degli appalti pubblici degli armamenti,
la costruzione di consorzi e fusioni tra le maggiori industrie belliche
europee. A questo stesso scopo la CEE ha elaborato uno "statuto della
compagnia europea" per incoraggiare la costituzione di associazioni
internazionali europee di produzione. Attività questa che integra
e coordina quella dei singoli paesi europei che finanziano ed incentivano
le proprie industrie militari nell'espansione sui mercati internazionali.
È evidente come proprio intorno
alla costruzione di una "difesa europea" si darà un enorme
sviluppo di questo settore che, come è già accaduto per
il complesso militar-industriale negli USA, potrà funzionare come
volano nelle economie durante le fasi di crisi.
5. La scomparsa del "bipolarismo"
e gli ultimi radicali e repentini mutamenti hanno accelerato l'emergere
del polo europeo come un fondamentale soggetto politico del "nuovo
ordine mondiale".
Al centro di questo complesso movimento,
che abbiamo schematicamente delineato, c'è il formarsi di una borghesia
multinazionale europea.
Sono le dinamiche di concentrazione finanziaria,
di dislocazione produttiva, l'esigenza di realizzare profitti su tutta
l'area europea e in tutte le aree di penetrazione raggiungibili, che spingono
i gruppi finanziari e industriali europei a farsi incessantemente promotori
della definizione di indirizzi politici omogenei e di strutture economiche,
politiche e istituzionali adeguate alla loro traduzione concreta. Politiche
che agevolino questi processi di concentrazione, liberalizzino il mercato
del lavoro, garantiscono una adeguata politica monetaria, permettano il
rilancio dei progetti di Ricerca & Sviluppo comuni, la pianificazione
di grandi progetti economici di scala (da quelli del complesso militar-industriale,
a quelli della produzione e distribuzione energetica, a quelli delle comunicazioni
telematiche, alla costruzione di un sistema integrato di infrastrutture
e trasporti).
È in questo processo che la borghesia
multinazionale si rafforza e si riproduce come protagonista del nascente
polo imperialista europeo.
Ma la stessa dinamica di crisi-concentrazione-internazionalizzazione
capitalistica che porta alla costituzione e consolidamento di una frazione
di borghesia monopolistica multinazionale su scala continentale, e il
processo di integrazione/proiezione imperialista che essa promuove, conducono
anche, conseguentemente e inevitabilmente alla formazione del soggetto
che ad essi è irriducibilmente antagonista: il proletariato metropolitano
europeo.
Concretamente la dimensione continentale
dei processi capitalistici determina l'omogenea qualità delle contraddizioni
che investono i proletari europei; le caratteristiche del modo di produzione,
del livello tecnologico e dell'organizzazione del lavoro sono comuni all'interno
dei 12 Stati, e in tendenza in tutta l'area. Le strategie di ristrutturazione,
innovazione e dislocazione di interi fondamentali cicli produttivi, la
regolazione e composizione della forza-lavoro, dell'esercito industriale
di riserva sono concepite e organizzate a livello dell'intero polo europeo.
La comune qualità metropolitana dei rapporti sociali e le politiche
"neoliberaliste" (incremento dello sfruttamento/marginalizzazione
ed emarginazione/taglio delle spese sociali...), rendono sempre più
omogenee le contraddizioni vissute da centinaia di milioni di proletari
europei.
Tutto ciò si pone come solida base
materiale della costituzione in classe del proletariato metropolitano
come soggetto politico omogeneo su scala continentale.
Ciò non si traduce automaticamente
in una già consolidata coscienza di classe dei proletari europei,
sebbene questa consapevolezza vada sempre più concretamente crescendo.
Significa però che è questo proletariato metropolitano il
soggetto politico dello scontro di potere tra le classi in Europa.
- PER IL COMUNISMO!
"In certi momenti della lotta rivoluzionaria,
le difficoltà prevalgono sulle condizioni favorevoli; (...). Tuttavia
mediante gli sforzi compiuti dai rivoluzionari le difficoltà sono
gradualmente superate, viene creata una nuova situazione vantaggiosa e
la situazione sfavorevole cede il posto a quella favorevole."
(Mao Tse-tung)
1. Come abbiamo visto, il quadro generale
dello scontro di questa epoca è segnato in modo determinante dall'accelerarsi
della dinamica di integrazione delle economie su scala mondiale per grandi
aree regionali, e dall'intensificarsi del movimento di concentrazione
dei capitali in grandi oligopoli multinazionali con proiezione planetaria.
Questi processi avvengono in un contesto,
sotto la direzione e con strumenti capitalistici, e perciò non
possono che determinare l'esplosione violenta di contraddizioni tra tutto
l'arco delle forze coinvolte.
Non siamo dunque all'inizio di quella "era
di pace, sviluppo e stabilità" di cui parla ad ogni pié
sospinto la borghesia occidentale.
AL contrario, conflitti "vecchi"
e "nuovi" si vanno velocemente moltiplicando ad ogni livello
della formazione sociale capitalistica.
- Le aree metropolitane del centro imperialista
sono attraversate in lungo e in largo da strategie capitalistiche sempre
più integrate ed omogenee: la ristrutturazione industriale, la
ridefinizione del mercato del lavoro, la deregulation economica e sociale
accrescono come non mai la polarizzazione tra ricchezza e povertà,
tra sviluppo e sottosviluppo nelle stesse aree, spingendo verso il basso
il potere d'acquisto dei salari, aumentando il costo dei servizi e inasprendo
in generale le condizioni di vita minime delle classi subalterne?
In questo contesto saltano rapidamente
i livelli di mediazione sociale e si acuiscono le contraddizioni di classe.
In tutta Europa il proletariato metropolitano si trova sempre più
a scontrarsi in ogni situazione con l'attuale assetto di potere della
borghesia imperialista.
- Il dispiegarsi delle strategie di penetrazione
dei monopoli capitalistici occidentali nel Tricontinente genera la marginalizzazione
di intere economie preesistenti e la crescente proletarizzazione della
maggior parte delle popolazioni in quelle aree, provocandone al contempo
la pauperizzazione e affamamento con la distruzione di ogni condizione
autonoma di sussistenza.
La necessità per i poli capitalistici
del centri di disporre in permanenza di un esercito industriale di riserva
determina una dislocazione della forza-lavoro lungo le direttrici della
dinamica di sviluppo e sottosviluppo, con massicci movimenti migratori
dalle aree del Tricontinente verso le metropoli del centro. Tutto ciò
pone sempre più i popoli del Tricontinente in un rapporto di scontro
diretto con la borghesia imperialista.
- Grandi monopoli multinazionali blocchi
imperialisti, singole nazioni, stanno dando vita ad uno scontro a tutto
campo nel quadro della concorrenza/competizione capitalistica per determinare
la gerarchia di potere nel sistema imperialista.
- La borghesia dei centri imperialisti,
assillata dall'esigenza di profitto, nella perdurante crisi capitalistica,
accresce la propria aggressività sul piano economico in ogni angolo
del Tricontinente, togliendo ogni margine di manovra e di esistenza propria
alle frazioni d borghesia nazionale che continuano a riprodursi in quelle
aree.
Il riflesso politico di tutto ciò
è che esistono oggi ben pochi spazi per politiche e strategie che
non siano strettamente subordinate alle necessità del sistema imperialista
occidentale. Ne è una diretta conseguenza lo scompaginamento del
"campo non allineato" che, nel venir meno dell'equilibrio "bipolare"
non ha più trovato un proprio ruolo autonomo, come si è
visto molto chiaramente, durante la guerra del Golfo.
Parliamo di esplosione violenta di contraddizioni
perché esse oggi si traducono non solo in termini di distruzione
economica, immiserimento, alienazione e oppressione di classe, ma anche
- e in questa epoca sempre di più - in concreti processi di guerra.
E non è il caso qui di ripercorrere lo stillicidio di guerre "a
bassa" o "a media" "intensità" - come
le chiamano i boia tecnocrati dell'imperialismo - che in questi ultimi
10 anni hanno preceduto il massacro del popolo iracheno.
Con questo noi vogliamo mettere in evidenza
come oggi meno che mai esista possibilità di uscita da questo quadro
di crisi capitalistica, al di fuori di una radicale rottura con l'intero
assetto imperialista in ogni area del mondo, e della riaffermazione della
prospettiva comunista attraverso la rivoluzione mondiale nella sua forma
di guerra di lunga durata.
La sequenza delle ristrutturazioni innovative
della formazione sociale capitalistica hanno proiettato masse crescenti
di uomini e donne in una dimensione universale della loro esistenza e
della loro lotta, ponendole immediatamente di fronte alla distruttività
del capitalismo.
Questa nuova qualità dello scontro
informa il processo rivoluzionario di questa epoca e va affermato dalle
forze comuniste per suscitare e connettere energie e tensioni emancipative
e di liberazione sociale in ogni area del mondo.
2. I mutamenti in atto nella formazione
sociale capitalistica a livello mondiale determinano nuove configurazioni
e condizioni dello scontro sul piano generale, con cui da tempo i movimenti
e le forze rivoluzionarie si stanno misurando nelle principali realtà
di lotta.
- La fine del "bipolarismo" Est/ovest
è uno di questi fattori di mutamento. Da tempo il blocco degli
stati ad economia centralizzata aveva cessato di essere punto di riferimento
ideologico per i processi rivoluzionari, data la natura di classe che
era venuto ad assumere, ma la sua contrapposizione con gli USA aveva di
fatto potuto costituire per una lunga fase terreno di sviluppo per numerosi
movimenti rivoluzionari e di liberazione soprattutto nel Tricontinente.
Oggi la realtà delle cose mostra
come questo spazio sia venuto meno per tutti.
Il persistere e il radicalizzarsi della
contraddizione di classe tra il proletariato metropolitano e la borghesia
imperialista nelle metropoli del centro; il crollo del Patto di Varsavia
come sistema politico-militare e lo sviluppo di un aperto scontro di classe
tra il proletariato e le frazioni di borghesia negli Stati dell'ex COMECON;
i processi di proletarizzazione sempre più accentuati nel Tricontinente,
fanno emergere sempre più la contraddizione tra il proletariato
internazionale e la borghesia imperialista come il cuore di ogni strategia
e prospettiva rivoluzionaria in questa epoca.
Questo non significa la scomparsa di specificità
e caratteristiche peculiari nelle lotte delle varie aree geopolitiche,
dovute alle differenze di composizione di classe o ai diversi tempi e
forme di esplicitazione delle contraddizioni con la borghesia imperialista.
Vogliamo però dire che l'elemento
strategico su cui i rivoluzionari possono oggi fondare la loro prospettiva
è il processo di unità, ricomposizione e costituzione in
classe del proletariato internazionale.
- L'esigenza di concepire e costruire concretamente
una nuova dimensione dell'internazionalismo proletario vive da tempo nella
prassi delle forze rivoluzionarie più avanzate. Gli sviluppi di
questi anni nello scontro generale con il formarsi di aree regionali integrate
(come in Europa e in altre parti del mondo); la pressione e l'iniziativa
delle potenze imperialiste per subordinare ad esse le aree del Tricontinente,
legando così indissolubilmente le sorti del processo rivoluzionario
nel centro e nella periferia; l'unitarietà delle strategie capitalistiche
che i proletari si trovano a dover fronteggiare in ogni area del mondo
e che tende ad omogeneizzarli come classe, danno all'esigenza di un nuovo
internazionalismo proletario concrete basi oggettive e un'importanza fondamentale
in una prospettiva rivoluzionaria.
- Nel quadro attuale della crisi capitalistica,
la riduzione dei margini di manovra dei capitalisti nella ricerca del
profitto e quindi la loro esigenza di invadere sempre più ogni
ambito della vita sociale, la dinamica violenta delle contraddizioni che
rischiano di mettere in discussione il suo assetto di potere, portano
l'imperialismo a scatenare una controrivoluzione dispiegata e preventiva.
Questo non è certo un dato nuovo.
Sono 20 anni che la lotta di classe deve fare i conti con la controrivoluzione
preventiva. Ma è evidente che siamo di fronte ad un salto di qualità
nelle forme, nell'intensità, negli strumenti messi in campo.
Dalla crescente militarizzazione del conflitto
sociale, determinatasi col restringimento dei margini di compatibilità
e mediazione tra proletariato e potere borghese; alla depoliticizzazione,
ossia la sistematica opera di svuotamento nei contenuti di classe d ogni
movimento o lotta sociale; all'annientamento di ogni movimento o forza
di classe che mantenga un'identità antagonista e rompa il quadro
di compatibilizzazione sociale.
3. La prospettiva rivoluzionaria attuale
non può fondarsi sull'obiettivo di impedire lo sviluppo dei processi
di integrazione e concentrazione capitalistica in atto; essi esprimono
la tendenza storica alla mondializzazione delle forze produttive. Per
i rivoluzionari si tratta invece di mettersi all'altezza di questa nuova
qualità dello scontro; per determinare la rottura di un ordine
imperialista che si rivela sempre più come il cappio che soffoca
le forze produttive e la dimensione sociale dell'uomo. Costruire dunque
le condizioni per distruggere il potere imperialista nelle forme che esso
assume in questa epoca.
Adeguare la progettualità rivoluzionaria
a questo livello e con questa qualità, non è un processo
semplice né lineare; la complessità e la profondità
stesse dei cambiamenti in atto rendono difficile per le avanguardie misurarsi
con questo compito. Non è un caso che oggi il dibattito su ciò
è tutto aperto. Ma l'esperienza della guerriglia in Europa Occidentale
ha già concretamente posto i primi elementi per la necessaria rifondazione
della strategia rivoluzionaria.
Noi pensiamo, con la guerriglia europea,
che collocarsi in una prospettiva rivoluzionaria significa sempre costruire
ed affermare la pratica di potere proletario al reale livello in cui si
giocano i rapporti di potere tra le classi.
Questo oggi si traduce nel concepire da
subito la propria lotta come parte dello scontro rivoluzionario a dimensione
internazionale.
La prospettiva di un processo rivoluzionario
nella nostra area, dunque, non può che svilupparsi in riferimento
alla costruzione dell'organizzazione rivoluzionaria del proletariato europeo
e della guerriglia europea, in dialettica con i movimenti e i processi
rivoluzionari dell'area Mediterraneo-Mediorientale e più in generale
del mondo.
Non solo perché i rivoluzionari
oggi devono contrastare una controrivoluzione integrata sul continente
europeo. Ma, ancor prima, perché la dinamica della lotta di classe
e della composizione del proletariato, strettamente integrate e tendenzialmente
omogenee a livello europeo, rendono possibile e necessario porre a questo
grado e con questa qualità la dialettica con i movimenti di lotta
e resistenza e la costruzione e organizzazione del potere proletario.
Perché i processi di concentrazione capitalistica e le interrelazioni
tra dimensione nazionale e sovranazionale del sistema di potere imperialista
rendono possibile e necessario collocare a questo livello la capacità
di disarticolazione.
Le forze rivoluzionarie oggi si stanno
misurando con questi compiti e nodi politici, e con ciò esse partono
dai punti più avanzati della loro esperienza di guerriglia e dall'intero
percorso del movimento rivoluzionario qui in Europa Occidentale.
Oggi è il momento di valorizzare
pienamente i contenuti che hanno caratterizzato il processo del Fronte
Rivoluzionario Antimperialista fin dal suo sorgere e la pratica delle
Organizzazioni rivoluzionarie che gli hanno dato vita. E contemporaneamente
le molteplici esperienze del movimento di resistenza rivoluzionaria che
hanno dimostrato cole la nuova qualità dello scontro tra proletariato
internazionale e borghesia imperialista possa e debba essere fatta vivere
nel quadro allargato delle lotte di massa.
Unire le diverse lotte del proletariato
nel continente e rivolgerle in un'unica strategia contro il potere imperialista,
legando lo scontro qui nel centro con le lotte dei proletari e popoli
del Tricontinente. Questo è il concetto di fondo che ha caratterizzato
la pratica del Fronte.
È un contenuto vitale perché
coglie l'aspetto essenziale dello scontro di potere tra proletariato internazionale
e borghesia imperialista in questa epoca: la dimensione internazionale
del processo rivoluzionario.
Lottare insieme!
Roma, febbraio 1992
Collettivo comunisti prigionieri Wotta
Sitta!
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