CONTROINFORMAZIONE INTERNAZIONALE N.12

DODICI GIORNI, TREDICI ANNI

Due lettere di Salvatore Cirincione

PRIMA LETTERA

«...La tortura è il sistema più subdolo per distruggere un essere umano. Mia figlia Laura, ad appena quattro anni, si è trovata la canna di un mitra puntata alla testa. In quel preciso momento, era il 30 aprile 1980, ho capito che cosa sarebbe successo dopo, una volta che i carabinieri avessero finito di devastare l'appartamento. In quegli attimi non riuscivo a tranquillizzare Laura, che continuava ad urlare.

Fui portato alla caserma "Cernaia", sempre a Torino, dove ebbi il disgraziato piacere di conoscere i colonnelli Schettini e Delfino. Mi dissero chiaramente che dovevo collaborare, altrimenti avrei subito un trattamento particolare. Mi rifiutai. Fu allora che qualcuno disse "Fucilatelo!". Non so spiegare la paura che si può provare in un'occasione del genere. So solo che se lo avessero fatto sarebbe stata la liberazione, la liberazione di non vederli più in faccia. Guardai in faccia il giovane carabiniere, lo vidi armare il mitra, e sentii dire ''Fuoco!". Ma fu un bluff, I'arma era scarica. Mi dissero che potevano fare quello che volevano.

Mi trasferirono nei sotterranei, in una stanza sporca di sangue. Lì fui tenuto ammanettato con le mani dietro la schiena per ben 14 ore. Poi, verso le 23, tornarono. Volevano sapere se avevo cambiato idea. Risposi di no. Uno, indicando le pareti e il pavimento imbrattate di sangue, disse "Vedi che di qui è già passato qualcuno prima di te, ma con lui è stato molto più facile!". Mi afferrarono la testa e iniziarono a sbatterla contro il muro. Da questi colpi ebbi due punti sulla fronte, a sinistra, che mi vennero messi in seguito nel carcere di Firenze. Per quella notte fini cosi.

Per due giorni non si fecero vedere ma io comunque non potevo dormire perché la luce era accesa ed appena prendevo sonno un carabiniere di guardia alla cella mi svegliava. I miei pensieri erano per mia moglie Pina e per mia figlia Laura. Solo così resistevo.

Nella cella di fianco alla mia c'era una compagna incinta. Urlava. Non so che fine abbia fatto e né come si chiamasse. In seguito seppi che aveva abortito.

Il terzo giorno ricominciarono gli interrogatori. Solito trattamento. Vengo ricondotto in cella e subisco una doccia fredda con un'idrante. Durante la notte aprono la cella e per terrorizzarmi mi mettono davanti due cani lupo che restano immobili davanti alla porta. Ad ogni mio movimento i cani ringhiavano. Dietro la porta sentivo qualcuno ridere.

Il sesto giorno mi contestarono l'associazione sovversiva, la partecipazione a banda armata e tutti gli altri reati, dei quali mi accusava, per sentito dire, il pentito Enrico Paghera. Negai tutto.

I carabinieri erano incazzati neri, come delle bestie. Mi ammanettarono ad un termosifone con la schiena rivolta verso la porta e fu allora che un carabiniere mi diede un calcio con gli anfibi che creò la lesione alla prima vertebra.

Iniziai a pisciare sangue. Sentivo il braccio sinistro bloccarsi e la gamba sinistra non reggere più. Un tenente medico, vista la gravità della situazione, mi fece tradurre in ospedale dicendo che ero caduto. Ero incosciente. Mi cateterizzarono e nella notte fui tradotto a Firenze, in un blindato. Accusavo dolori atroci.

Firenze, caserma dei carabinieri "Ognissanti". Erano incazzati per quello che i loro colleghi di Torino mi avevano fatto. Occhi neri, fronte spaccata, vescica rotta, braccio e gamba sinistra semiparalizzati. Dovevano continuare ad interrogarmi ma io li mandavo a quel paese. Non mi toccarono, tranne un cretino che mi spense una sigaretta sul braccio. Ma fu subito ripreso dai suoi superiori che gli dissero "Non ti basta quello che gli hanno fatto?".

Decisero di portarmi al carcere delle Murate. Erano passati 12 giorni. Giunto in matricola il brigadiere Meloni degli agenti di custodia disse, rivolto ai carabinieri "Ma non vi vergognate di come l'avete ridotto?". Ci furono due ore di trattative, poiché non mi volevano accettare in quelle condizioni. Ma i carabinieri dissero "o lo prendete cosi o lo troverete sulle sponde dell'Arno, ammazzato con la scusa che ha cercato di scappare".

Cosi mi accettarono, chiamarono un dottore che mi fece della morfina per calmare il dolore e volle sapere tutta la storia. Mi misero in una cella. Ero stanco, esausto, e quella notte cercai di impiccarmi. Ma una guardia che era stata messa li di piantone se ne accorse. Al piano di sotto c'erano dei compagni di Prima Linea ed anche dei miei compagni che, come seppero del mio arrivo, iniziarono a far casino. Mi furono fatti esami, lastre e poi fui condotto in cella con i miei compagni che mi aiutarono molto. Vidi il mio avvocato Francesco Mori e poi Filastro. Fui interrogato da Vigna, il quale mi disse che non ero stato torturato abbastanza. Poco alla volta mi ripresi e pensai che era solo un malessere passeggero. Continuavo però ad accusare forti dolori alla schiena.

A Livorno il P.M. De Pasquale decise di farmi fare altri accertamenti alla colonna vertebrale. Risultarono macchie di lesione alle vertebre. Un giorno, nel carcere di Volterra, tutt'a un tratto mi si bloccano il braccio e la gamba e non riesco più ad urinare del tutto.

Vengo trasferito d'urgenza al Centro Clinico del carcere di Pisa, poi all'ospedale Sant'Anna. Il professor Fiorentini, urologo, diagnostica una vescica areflexisa per trauma spinale, con perdita di tutta la sensibilità stimolatoria sensoriale a sinistra.

Vengo trasferito al Reparto Speciale dell'ospedale Molinette di Torino. Vi rimango tre mesi ma non riesco a recuperare la vescica. Sento che il braccio e la gamba possono farcela. Dopo un altro processo a Torino, per imputazioni di rapina e omicidio, il giudice Macchia mi concede la libertà provvisoria a causa delle mie condizioni di salute.

Ma Livorno e Firenze si oppongono. Nel frattempo vivo su di una sedia a rotelle nel centro minorati fisici del carcere di Parma. La solidarietà dei detenuti di Parma è grande. Mi aiutano a fare ginnastica per la gamba ed il braccio, che lentamente recupero. Anche se a volte si bloccano ce la faccio. L'unico grave problema è la vescica.

Uscito nel 1984, sei mesi dopo la mia scarcerazione un altro pentito fa il mio nome ed allora mi rifugio in Francia, dove devo subire due operazioni, una biotomia del collo della vescica, che non dà esito positivo, e l'asportazione di una parte della prostata, con conseguenza di eiaculazioni interne. Ma torniamo al presente. Il sistema di autocateterizzazione dell'ospedale di Magenta ha peggiorato la situazione.

Il 29.11.1993 segnalo che non riesco più a passare con i cateteri. Nessuno ci crede. L'uretra comincia a sanguinare e si blocca completamente. Ci provano due medici ed un infermiere del Centro Clinico. Niente da fare. Devo aspettare mezzanotte per essere portato d'urgenza in ospedale. Devono organizzare la scorta... Al Policlinico, un urologo, vista la gravità della situazione, applicando l'anestesia locale, fa di tutto per svuotare la vescica. Dopo parecchi sforzi riesce ad evitare la doppia via creatasi e vengo svuotato di 1800 cl. di urina (1,8 litri!). Alle 3,30 vengo riportato al Centro Clinico. Adesso continuo a sanguinare dall'uretra e sono di nuovo con un catetere a permanenza nella vescica.

Non ho bisogno che di riposarmi, perché sono stanco fisicamente. Ho chiesto di passare al Penale di Milano, perché c'è Paolo ed altri compagni, ma non mi ci mandano per due motivi: non sono declassificato dal Ministero e per lo stadio della mia malattia che non lo permette.

Il 30.7.1993 la relazione del dottor Cospito dice che dovrei fare dei cicli di elettrostimolazione vescicale all'Unità Spinale del Niguarda. Scoperta del secolo: al Niguarda non esiste Unità spinale! Vengo portato d'urgenza al Niguarda e si scopre effettivamente che l'Unità Spinale è a Magenta. Il Magistrato rigetta la sospensione pena perché pensa che al Magenta risolvano il problema! Il Magenta risponde che non c'è più niente da fare. Adesso si è creata una seconda via uretrale. Mi hanno messo sotto terapia antibiotica di BBKZ GENTALIN-OFLOGIN, per via endovenosa, più anticoagulatori ed antidolorifici. La prossima settimana dovrò essere operato al fegato, qui al Centro Clinico, per un grosso calcolo. Neanche per questa operazione mi mandano in ospedale esterno!

Io sono arrivato allo stremo delle forze fisiche. Quello che mi hanno preso e distrutto è solamente un corpo, non la volontà, la dignità, I'amore. Compagni scusate, Totò se ne va fisicamente... Non voglio che pensiate che questo mio gesto sia un tradimento... E solo un modo per raggiungere quelle stelle che abbiamo sempre sognato... Bisogna che la nostra esperienza rimanga e ci appartenga... »

[da una lettera di Salvatore Cirincione]

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SECONDA LETTERA

(...) Mi stò riprendendo poco alla volta, dopo la mia uscita dal centro clinico. Finalmente ho lasciato quel posto infernale, quel lager di annientamento sia fisico che psicologico. Mi trovo nella sezione penale e sono con altri compagni. Tra cui XY; che ha fatto di tutto insieme ad altri compagni per farmi uscire dal centro clinico. Comunque tutto è servito, anche la mobilitazione dei compagni esterni e dei compagni tutti. Non mi sono abituato ancora agli spazi aperti del penale dopo tanto isolamento. Mi sento frastornato!!

Qui continuerò ad essere seguito dai medici che dovranno trovare i rimedi alla mia malattia. Adesso che mi riprendo le forze fisiche e psicologiche, cercherò chiaramente di scrivere tutto l'orrore che per 18 mesi ho visto. (...)

Sono triste di aver lasciato nella sofferenza gli altri amici del centro clinico. Ma qui potrò essere più utile nel far risaltare tutte le contraddizioni di questa cattiva gestione della sanità carceraria!!

Comunque era già chiaro che non mi avrebbero sospeso la pena per malattia. La mobilitazione esterna davanti al Palazzo della Giustizia il 24 febbraio è stata utile nel senso che questi signori del potere hanno ancora paura di un certo movimento Antagonista. Hanno mobilitato alla grande il loro apparato repressivo (ma non so di cosa dovessero avere paura!!!). Ma la loro scorta per portare un detenuto malato al palazzo di giustizia era enorme!! Ho visto il loro nervosismo già al mattino prima della traduzione. Mi svegliarono alle 6 del mattino per portarmi presto al palazzo di giustizia perché sanno del Presidio dei compagni ed affinché io non possa vedere quanti compagni e quante compagne ci sono. Alle 6,30 partenza dal San Vittore in ambulanza, dentro questa 6 carabinieri ed io ammanettato direttamente alla barella del veicolo! Fuori dal carcere ci attendono 2 gazzelle dei CC e 2 autocivette con 5 CC in borghese per vettura, col passamontagna per mascherare le loro luride facce. I pochi passanti del mattino milanese vengono terrorizzati con le pistole fuori dal finestrino anche dell'ambulanza. Davanti al palazzo celerini e CC in assetto di guerra. Alle dieci mi portano sopra al tribunale e non mi danno neanche il tempo di parlare con l'avvocato che vedo solamente alle 17 davanti ai giudici. Perciò, come vedi diamo fastidio anche se siamo prigionieri malati o no. Ho avuto però l'opportunità di parlare delle malefatte che centro clinico e cosa lì si subisce. Non ho ancora recuperato i vari danni che mi hanno causato con i medicinali. (...)

Rispetto la mia storia, dei suoi sviluppi, so che tra alcuni mesi dovrebbero discutere la detenzione domiciliare o ospedaliera presso l'ospedale di Magenta, con l'applicazione 47 ter. Cioè al compimento di 2 anni di carcere avrei questa possibilità. Non ci spero molto ma per ora è importante che posso riprendermi dal soggiorno nel centro clinico, dove grazie alle pressioni dall'interno e dall'esterno del carcere sono diventato un peso troppo grosso da gestire. (...)

14 marzo 1994

Salvatore Cirincione

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