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PALESTINA: LE RAGIONI ECONOMICHE DELL'ACCORDO
L'accordo "Gaza-Gerico" è un ulteriore passo nella applicazione del "nuovo ordine mondiale" americano agli stati arabi in seguito alla sconfitta dell'Iraq. Uno degli aspetti principali di questa seconda Camp David è quello economico e si ricollega alla crisi generale che attanaglia l'economia capitalista dalla fine degli anni '70, anni in cui il petrolio prodotto dalle multinazionali operanti nello scenario mediorientale subì un brusco rialzo. Falliti i primi tentativi di ridefinizione della divisione internazionale della produzione con l'uccisione di Sadat nel 1981, adesso gli americani ci riprovano usando la pedina più debole e contraddittoria di tutto lo scacchiere arabo: la borghesia palestinese di mister Arafat. Lo scopo principale che americani ed israeliani pensano di perseguire con gli accordi di Settembre è di fare uscire Israele dalla più grave crisi economica (e politica) della sua storia ed evitare così il collasso del più fedele sostenitore degli interessi economici, politici e militari dell'imperialismo nell'area. La crisi economica che si è scatenata da oltre un decennio nello stato sionista di Israele è generata essenzialmente da fattori esterni, tra cui il "boicottaggio" arabo e la recessione mondiale. Il boicottaggio che i paesi arabi attuano nei confronti dell'entità sionista ha avuto inizio subito dopo l'occupazione militare di parte della Siria, della Giordania e dell'Egitto (i Territori Occupati) conseguente alla guerra del 1967; esso consiste nel blocco totale delle attività commerciali con Israele e nella chiusura del mercato arabo alle merci ed ai capitali israeliani. Il danno economico provocato al capitalismo israeliano dal boicottaggio arabo ammonta oggi a oltre 70.000 miliardi - un danno che nessun aiuto finanziario dei paesi occidentali sarà mai in grado di sanare. In secondo luogo, la recessione mondiale colpisce duramente l'economia israeliana che, a differenza di quella degli altri paesi occidentali, non si basa su alcuna forma di autonomia produttiva e deve fare continuo ricorso agli aiuti assistenziali degli USA, della CEE e delle lobbies ebraiche sparse nel mondo. Per questo motivo l'importazione della crisi capitalistica mondiale in Israele avviene in tempi più rapidi che altrove; un esempio indicativo è rappresentato dal pauroso squilibrio della bilancia dei pagamenti dello stato israeliano che in un solo anno (dal 1990 al 1991) è aumentato del 50%; ciò significa, per un paese dipendente dagli aiuti finanziari esterni, un aumento impressionante delle importazioni ed una altrettanto impressionante riduzione dell'attività finanziaria. Il collasso dell'economia capitalistica nel mondo è un pericolo mortale per l'economia assistita dello stato israeliano. In conseguenza di questa crisi, nella società israeliana erano iniziati da alcuni anni processi di de-industrializzazione che hanno provocato e continuano a provocare l'espulsione di mano d'opera dal ciclo produttivo. I costi di questi processi gravano soprattutto sulle spalle dei proletari palestinesi che vengono licenziati in massa, con la scusa dell'Intifada o della guerra del Golfo, e tenuti a bada dall'esercito nei ghetti di Gaza e della Cisgiordania; dopo la guerra del Golfo i lavoratori di Gaza che lavoravano nelle industrie dello stato israeliano sono diminuiti da 56.000 a 25.000 e il tasso di disoccupazione complessivo è passato nel giro di qualche mese dal 30% al 55%. Rispetto a tutti i Territori Occupati, la percentuale della f-l palestinese che lavorava nelle industrie israeliane è crollata, dall'inizio dell'Intifada, dal 40% al 15%; in aggiunta a questo crollo percentuale è cambiata anche la composizione della f-l, che adesso è costituita prevalentemente da donne e bambini e, quindi, può essere acquistata a costi bassissimi. Di recente, per mantenere bassi i salari attraverso l'allargamento dell'esercito industriale di riserva, lo stato sionista ha capito l'utilità di importare mano d'opera a basso costo dai paesi dell'Est e del Tricontinente. Tutti questi processi di espulsione di mano d'opera e di trasformazione della composizione operaia sono stati gestiti col consenso determinante dell'Histadrut - il sindacato israeliano che rappresenta una vera e propria istituzione al servizio del colonialismo. La crisi economica si riflette sul piano dei rapporti di classe all'interno dello stato israeliano provocando forti contraddizioni di classe e la radicalizzazione delle posizioni politiche. Da una parte la destra sionista, rappresentante degli interessi del capitale fondiario, radicata soprattutto tra i coloni e tra i seguaci dell'ortodossia ebraica; questa porzione consistente della società israeliana è ancora legata ad una concezione degli aiuti esterni che non trova più riscontro nelle attuali condizioni di crisi generalizzata del capitalismo e di ridefinizione dei termini fondamentali dell'assistenzialismo. Dall'altra parte, la sinistra sionista del Labour Party rappresenta il capitalismo industriale e finanziario che, a causa delle difficoltà economiche in cui si trova ad operare, è alla ricerca affannosa di nuovi spazi di mercato che lo salvaguardino dalle convulsioni in cui si dibatte il capitalismo occidentale. Il crollo che si è verificato di recente nei settori tradizionali dell'economia israeliana, in particolare in quello agricolo, è all'origine della caduta del governo Shamir e della storica sconfitta delle destre. Di recente 1.500 soldati dell'esercito israeliano sono stati "invitati" a lavorare nelle campagne per sopperire alla caduta dei prezzi della produzione agricola ed al conseguente licenziamento di decine di migliaia di braccianti agricoli, sia palestinesi che israeliani. Dal canto loro, i sionisti "democratici" del Labour hanno proposto l'utilizzazione, nelle campagne, del lavoro gratuito dei prigionieri israeliani. Queste ed altre misure ridicole, sono la manifestazione più evidente dell'impossibilità di superare una crisi mortale che coinvolge i settori arretrati dell'industria israeliana e che ormai si riflette pericolosamente su quelli avanzati. Inoltre, la crisi interna ha conseguenze sul piano dei rapporti internazionali che legano Israele al mondo occidentale; il momento più drammatico di queste difficoltà si è manifestato col blocco del prestito americano di 15.000 miliardi al governo di destra di Shamir. Dopo la vittoria elettorale di Rabin, questo prestito è stato sbloccato per favorire il dialogo della sinistra sionista col fantoccio Arafat; tracce di questa linea politica americana si trovano nel seguente passo di un rapporto del Centro Studi Strategici di Washington in cui viene delineata la strategia USA nel Medio Oriente dopo la vittoria della Guerra del Golfo: <<Visto che i rapporti tra Israele e Stati Uniti hanno attraversato fasi difficili, Israele è costretta a chiedere una maggiore fiducia nei suoi rapporti con gli USA, in modo da poter proseguire il cammino delle trattative. Lo sblocco del prestito di 15.000 miliardi è il regalo di nozze che Clinton ha voluto fare alla coppia Rabin/Arafat! L'Intifada ha contribuito notevolmente ad allargare gli effetti della crisi economica e politica dello stato israeliano, innalzando i costi umani e materiali dell'occupazione e smascherando la natura imperialista e terrorista degli esecutivi che si sono succeduti in quest'ultimo quinquennio. L'Intifada è diventata presto un cuneo nel cuore del sistema di oppressione coloniale, soprattutto dopo i primi mesi del 1992 quando all'Intifada delle pietre si è aggiunta l'Intifada delle armi da fuoco e quando gli scontri di massa contro l'esercito di occupazione sono stati accompagnati da azioni armate contro obiettivi militari. Questo graduale ma irresistibile sviluppo della guerriglia popolare costituisce una minaccia reale a cui il sionismo non riesce a dare risposta, nemmeno rafforzando la repressione con la creazione di "squadrette della morte", l'imposizione del coprifuoco nei territori occupati che si protrae per mesi, l'inasprimento delle pene carcerarie e della tortura, la negazione del diritto alla vita per un intero popolo. Ma la repressione non potrà mai fermare la guerra popolare, come prova il fatto che dai 168 scontri armati registrati in tutto il 1990 si è passati agli oltre 1.000 soltanto nei primi tre mesi di quest'anno [vedi riquadro "L'Intifada militare"]. Uno dei principali obiettivi che ha in mente il trio Clinton/ Rabin /Arafat è proprio quello di arrestare l'escalation militare dell'Intifada e la sua progressiva e inevitabile trasformazione in guerra rivoluzionaria di popolo: la storia mostrerà che sono degli illusi! Sebbene incastrata nella tenaglia di una crisi recessiva che non ha precedenti, l'America non può permettersi di abbandonare al proprio destino lo stato dei suoi compari sionisti - punto di appoggio sicuro per l'imperialismo occidentale in Medio Oriente. Se, dunque, elargisce col contagocce gli "aiuti a fondo perduto" per fini sociali moltiplica quelli finalizzati al potenziamento della macchina bellica: infatti, il recente prestito di 50.000 miliardi ricevuto da Rabin dovrà servire al potenziamento della macchina da guerra israeliana con l'acquisto di un sistema di montaggio degli aerei F16, di diverse batterie di missili Arrow, di navi da guerra SA'AR5, di una batteria di aerei invisibili Stelth e di altro ancora. Nel complesso, la politica adottata dagli USA in questa fase è volta a sfruttare i vantaggi conseguiti con la guerra del Golfo, rafforzando militarmente Israele e indebolendo, accanto alla guerra popolare palestinese, il cosiddetto "fronte arabo del rifiuto" - l'insieme dei paesi arabi che si fondano su economie autocentrate e che perciò possono entrare facilmente in conflitto con gli interessi delle multinazionali occidentali. I cosiddetti "Colloqui di pace" non sono altro che il tentativo di creare fratture e conflitti di interessi tra i vari stati arabi e di ridefinire (a partire da queste fratture) i rapporti gerarchici tra le varie borghesie arabe (siriana, saudita, giordana, libanese, egiziana e, adesso, anche palestinese). La politica USA in Medio Oriente va inquadrata nell'intera strategia imperialista volta, dopo i mutamenti nei rapporti bipolari Est/Ovest, a ridefinire la relazione centro-periferia ed a ricostruire i rapporti di potere tra i diversi paesi imperialisti. Nello specifico mediorientale, questa strategia si traduce nel tentativo di superare i fattori di crisi dello stato di Israele utilizzando i paesi europei come mediatori di accordi economici tra arabi e israeliani. In questo modo, gli USA pensano di costruire una rete di rapporti economici e produttivi che leghino il capitale arabo a quello israeliano consentendo la soluzione della crisi economica israeliana e al tempo stesso affrancando l'economia americana dal gravoso peso degli 'aiuti' assistenziali al sionismo. In vista di queste trasformazioni nella divisione internazionale del lavoro, gli americani hanno avviato i primi contatti politico-economici per trasferire in Israele alcune linee produttive ad elevato grado tecnologico. La politica americana in Medio Oriente si muove, dunque, su un doppio binario: da un lato è diretta all'appoggio alle politiche anti-arabe messe in atto da Israele; dall'altro tende ad imporre rapporti, con la spinta della borghesia palestinese capitanata da mister Arafat, che saldino il capitale arabo a quello israeliano. Una politica solo in apparenza contraddittoria, resa possibile dalla trasformazione dei rapporti di forza dopo la guerra del Golfo. In questa direzione vanno le proposte di Clinton al FMI ed ai paesi europei, affinché contribuiscano allo sviluppo di una struttura produttiva palestinese la quale, essendo legata a doppia mandata al capitalismo israeliano e trovando nel mondo arabo il proprio sbocco naturale, nei fatti costituirà il ponte attraverso cui il capitale israeliano penetrerà in un mercato da cui finora era stato respinto. Alcuni studi economici elaborati all'università di Tel Aviv prevedono che l'esportazione palestinese nei paesi arabi ammonterà a circa 4.000 miliardi; e dal momento che l'industria palestinese ha un elevato grado di integrazione a quella israeliana e, in ogni caso, è da quest'ultima dipendente per quanto riguarda materie prime e tecnologie, non ci vuole molto a capire chi si avvantaggerà della nuova situazione. Con l'accordo che i media occidentali hanno spacciato come la storica vittoria del popolo palestinese, si realizza il vecchio sogno israeliano di penetrare in un mercato costituito da 200 milioni di consumatori. Accanto al riflesso che può avere sulla crisi israeliana, lo sviluppo di una industria palestinese costituirà il polo di formazione di una borghesia palestinese sempre più ricca, i cui profitti andranno ben oltre i 36 miliardi che questa aveva depositato presso la "Banca di Palestina" di Gaza nei mesi precedenti l'accordo. Una classe destinata a crescere e ad arricchirsi sullo sfruttamento delle migliaia di proletari di Gaza e già pronta a richiedere la protezione ad una polizia di oltre 10.000 ex-feddayin (forza M 17) provenienti dallo Yemen, dal Libano e dalla Giordania e coordinati da CIA e Mossad. Il compito principale di questa nuova classe di sfruttatori, che ha già ricevuto il riconoscimento internazionale, sarà quello di impedire ad ogni costo che le forze proletarie prendano la direzione delle lotte e non accettino la resa incondizionata ai voleri dell'imperialismo. Dopo l'accordo si sono aperti nuovi spazi all'opposizione di classe; infatti, l'opposizione dei militanti di Hamas, al di là della radicalità che può assumere in condizioni storiche determinate, non riesce a nascondere il proprio carattere moralistico che cela gli interessi retrivi delle cricche clericali e della borghesia compradora più arretrata; si tratta di una finta opposizione che non può dare alle masse palestinesi alcuna prospettiva di liberazione dallo sfruttamento sociale e dall'oppressione imperialista. Panarabismo e islamismo sono sempre stati i cardini di un progetto politico per la difesa degli interessi legati in primo luogo alla proprietà fondiaria; alla lunga, com'è già avvenuto in Iran, queste borghesie parassitarie e compradore perdono le caratteristiche radicali per ricadere tra le braccia dell'imperialismo. Ora più che mai, l'opposizione al progetto Clinton/Rabin/Arafat può nascere dal collegamento delle spinte di liberazione dal sistema imperialista con quelle di emancipazione sociale; come sostiene Adel Samara: <<lo slogan "due stati per due popoli" è uno slogan del capitalismo; la soluzione reale e duratura è quella di una stato bi-nazionale che si inserisca in un sistema socialista. Per tutti questi motivi, le forze sociali che copstruiranno l'alternativa di potere al sistema sionista e imperialista sono le forze organizzate del proletariato che, malgrado l'attuale debolezza, hanno ingaggiato una guerra anti-imperialista di lunga durata sia all'interno dell'Intifada che fuori di essa; la presenza attiva di queste forze sul terreno della lotta popolare, smaschera i vergognosi tentativi della propaganda imperialista di presentare l'opposizione come esclusivamente "musulmana". E' vero il contrario; l'accordo "Gaza-Gerico" lascia aperta la strada alla lotta antiimperialista e alla guerra di classe contro l'oppressione capitalista: fino alla vittoria. [torna all'inizio della pagina]
Una giornata nera alla Casa Bianca Il 13 settembre è stato firmato a Washington l'accordo "Gaza-Gerico" che prevede l'autogoverno amministrativo nel 2% dei territori occupati e si pone l'obiettivo di mettere fine al conflitto arabo-israeliano con la costituzione di una autonomia in alcuni settori produttivi (istruzione, sanità e turismo). Quest'accordo, più arretrato di quello già mostruoso di Camp David, non risponde alle prospettive aperte dalla lotta del popolo palestinese e non si conforma nemmeno alle stesse risoluzioni internazionali; esso è, invece, il risultato di trattative segrete portate avanti da un manipolo di politicanti di Al-Fatah che non sono stati leggittimati né dal popolo che dicono di rappresentare né dallo stesso Consiglio Nazionale dell'OLP. Il gran baccano fatto dagli organi di informazione, la messa in scena alla Casa Bianca dove alcuni ridicoli burattini si stringevano le mani mentre i palestinesi continuavano e continuano a morire nei villaggi e nei campi profughi di Gaza e della Cisgiordania, sono serviti soltanto a dare dell'accordo un'immagine ufficiale ed una validità indiscutibile e definitiva; tanti applausi, tanti auspici, tanti auguri per non rispondere alla domanda più elemenatare: come la pensano le masse dei territori occupati e della diaspora, che hanno appreso degli accordi solo dai mass-media e a cui non è stato concesso di prendere la parola sul proprio futuro? Noi ci opponiamo a quest'accordo "Gaza -Gerico" per le seguenti ragioni: Ma se gli obiettivi posti da anni di lotta e dall'Intifada del popolo palestinese non sono stati raggiunti, né è prevedibile il loro raggiungimento in futuro, chi ricaverà benefici dall'accordo? Di fatto, va registrato un netto guadagno per lo stato sionista di Israele che finalmente realizza il suo sogno di mettere le mani su un mercato di 200 milioni di arabi. Questo è il senso delle proposte fatte da Clinton al Fondo Monetario Internazionale ed ai paesi della CEE, affinché partecipino economicamente allo sviluppo di strutture produttive palestinesi; queste ultime, essendo legate strettamente al capitale israeliano ed avendo nel mondo arabo il loro sbocco naturale, apriranno ai sionisti le porte di uno dei più ricchi mercati del mondo. La cosiddetta "industria palestinese" che i mass-media occidentali hanno spacciato come il più bel regalo all'eroico popolo dell'Intifada, nei fatti sarà un'industria a capitale israeliano impiantata nei territori occupati; l'unica costante "palestinese" di quest'industria saranno le migliaia di operai da sfruttare selvaggiamente. L'accordo "Gaza-Gerico" serve allo "stato di Israele" e, solo in seconda istanza, a un pugno di nuovi imprenditori palestinesi a cui, forse, andranno le briciole.
e tutta l'opposizione ha l'obbligo di farlo fallire
Studenti e lavoratori palestinesi a Palermo |
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