CONTRO IL CONCETTO DI 'SOCIETÀ DEI DUE TERZI'Alcune note critiche sulla rappresentazione sociologica diffusa nel movimento tedesco - Collettivo Front In numerosi testi e analisi, espressione del movimento tedesco, ritroviamo il sempiterno ritornello sulla "società dei 2/3", una rappresentazione sociologica e umanistica che in quanto tale poggia unicamente sul superficiale e l'emozione. Un terzo possederebbe, un terzo lavorerebbe e infine un terzo sarebbe superfluo! Piccoli o grandi terzi, non è questo il problema. Ciò che importa, infatti, non è il conto esatto, perché è il metodo di investigazione sociale ad essere erroneo. Esso rifiuta l'approccio scientifico dialettico e nega di conseguenza il perno classista del modo di produzione capitalistico. Con questa pretesa "analisi sociologica dei 2/3" spariscono contemporaneamente i contorni delle classi e la loro lotta. Svanisce la guerra civile permanente, la sua verifica in ogni istante di sfruttamento e di oppressione, e in ogni particella di territorio dominato dalla realtà dell'accumulazione capitalistica. Per estensione, dunque, questo concetto dei 2/3 introduce prospettive di pacificazione e di divisione fra gli strati più sfruttati e oppressi, e più oltre, la coesistenza col nemico, il gusto per la pazienza e la conciliazione... progettando la possibilità del recupero della dignità umana grazie alla reintegrazione nello sfruttamento salariale e ad una gestione più equilibrata e ripartita del sistema capitalistico. Lontana da noi l'idea di voler confutare
la concettualizzazione della "società dei 2/3" con l'esposizione
lambiccata di un'analisi di classe di marmo e uscita difilata dai breviari
di cappella. Questi approcci sono entrambi sbagliati. Infatti è altrettanto riduttivo affrontare uno studio delle classi, e del proletariato in particolare, con le vecchie categorizzazioni riprodotte semplicemente, fuori da un esame delle condizioni storiche. Cioè fuori da un'attualizzazione indispensabile a fronte dei nuovi rapporti di produzione. Ad una forma determinata di sviluppo capitalistico corrispondono una composizione e un tipo di lotta di classe. L'analisi della classe e degli strati sfruttati deriva dallo studio della loro lotta, della loro determinazione e collocazione di classe, del loro scontro permanente con un sistema economico, politico e ideologico complesso che li ha forgiati, e che li riproduce nelle sue condizioni strutturali e congiunturali. Non lo si dirà mai abbastanza, questo concetto dei "2/3" è pericolosamente ingannatore e falso, eccetto certo la sua illustrazione sociale immediata, la fotografia superficiale di uno stato dei luoghi o di alcune particolarità specifiche che esso disegna. In tutti i suoi sviluppi questa argomentazione cancella il fondamentale, cioè l'esistenza di una formazione economico- sociale e dei rapporti antagonisti da essa generati, ma anche l'espansione dell'egemonia monopolistica a livello mondiale, e con ciò la generalizzazione delle tendenze alla pauperizzazione, alla salarizzazione, alla dequalificazione... e così di tutte le realtà inesorabili della polarizzazione. Dall'imposizione dei monopoli, il movimento di polarizzazione materializza, ad ogni sviluppo e in ognuno dei suoi ritmi, il fatto che la lotta delle classi si organizza sempre più attorno alle due classi fondamentali della formazione sociale mondiale: la borghesia imperialista e il proletariato internazionale. Una volta che lo abbiamo affermato questo non basta e non possiamo metterlo sotto vetro alla maniera di una bella parola d'ordine. E' essenziale ritrascriverlo con precisione nelle nostre analisi e proposte. Per esempio quando evochiamo una tendenza fondamentale come quella alla pauperizzazione delle masse, non possiamo basarci su questa o quella realtà locale, su questo o quel salario particolare, dobbiamo affrontare il livello di vita degli sfruttati sul piano mondiale, le condizioni del proletariato internazionale. E a questo livello è evidente che, se la ricchezza sociale cresce e i profitti della borghesia imperialista non cessano di aumentare, i redditi ripartiti tra le classi sfruttate diminuiscono in termini relativi e assoluti. Così, superando il locale, il nazionale, l'eurocentrismo, il momento immediato... è possibile cogliere in tutta la loro ampiezza e potenzialità queste tendenze per la prospettiva comunista ed elaborare la strategia rivoluzionaria corrispondente. Oggi infatti in ogni continente esiste un proletariato, milioni e milioni di proletari costretti a vendere la loro forza lavoro ai monopoli statali o privati che li sfruttano, spillando loro il plusvalore; cioè i profitti che si accaparra un'oligarchia parassitaria sempre più ridotta. Questo proletariato si unifica nella comunanza delle sue condizioni di sfruttamento di fronte ad uno stesso ed unico nemico: il sistema capitalistico internazionale allo stadio imperialista. La formazione economico-sociale mondiale riproduce non soltanto il dominio della produzione e monopolistica, ma rappresenta anche la sopravvivenza, la disgregazione, la resistenza... di numerosi altri modi e forme di produzione che questo dominio sottomette nella sua espansione. La polarizzazione si accompagna dunque inevitabilmente alla realtà diversificata di numerose situazioni di classe, qui nella metropoli come nel tricontinente. Dobbiamo quindi constatare le molteplici contraddizioni di questo sistema polarizzato di stratificazione complessa e comprenderne il movimento. Perché ogni strato (ovunque si sviluppi, si perpetui o si riassorba) assume rapporti corrispondenti ad un'articolazione dei suoi diversi modi di produzione sotto dominio monopolistico. Così possiamo dire che, sulla base della polarizzazione, la divisione in classi stabilisce il quadro di riferimento di "tutta la disposizione (étagement nel teso francese, n.d.t.) delle diversificazioni sociali", localmente e globalmente. E non il contrario, come pretendono gli adepti della "sociologia dei 2/3". Essi si disperano a volerlo dimostrare dilungandosi in ricette vecchissime: "imborghesimento operaio", "terziarizzazione", "classe media", "terza forza sociale", "quarto mondo"... Borghesia e piccola borghesia congiungono le loro forze per negare la polarizzazione classista reale, proiettando sulla scena dello spettacolo il particolare, il fenomeno, il "nuovo"... Ed è chiaro che queste campagne concorrono a distogliere i proletari dalla presa di coscienza della loro situazione oggettiva e dell'unità di questa coscienza politica internazionale. La deriva degli studi sociologici, per ciò che concerne l'esclusione sociale, per esempio, non scopre nulla di nuovo; infatti essa riappare episodicamente durante le crisi e le fasi di sconvolgimento del MPC, con le rivoluzioni industriali, tecniche e tecnologiche. Ma se essa torna ciclicamente, l'analisi è sempre rinchiusa nel congiunturale, nel superficiale. Allora questo procedere parziale la condanna eternamente a non poter mettere il nuovo in prospettiva. A imprigionarlo nella sua rappresentazione come "nuovo". Negare il fondamento del sistema significa negarne anche la storia e i cicli. Di conseguenza significa isolare come sedicenti qualità emergenti, elementi e sintomi della sua riproduzione, e non dimostrare evidentemente quanto tutte queste siano precisamente le condizioni e le conseguenze di questa riproduzione allargata. Dunque non cogliere come in determinate condizioni differenti e sotto diverse forme, esse si siano già manifestate nel corso di questo secolo o prima (nota 1), per il fatto di essere cause-risultanti dello sviluppo e della putrefazione del sistema capitalistico giunto allo stadio imperialista. Oggi la complessificazione e la mondializzazione di questi elementi e sintomi sono i prodotti quantitativi e qualitativi della fase di internazionalizzazione degli scambi e del processo di lavoro e del suo accaparramento da parte dei monopoli.
Il movimento ciclico della riproduzione reintroduce regolarmente la depressione. La crisi si sviluppa nelle contraddizioni intrinseche dell'accumulazione capitalistica e nella ristrutturazione dell'apparato produttivo mondiale. Dopo i tre decenni di forte crescita forgiata sulle distruzioni cagionate dalla II Guerra Mondiale e gli sforzi di ricostruzione, il lungo ciclo depressivo che l'economia conosce da 20 anni, ha fatto risorgere la disoccupazione, la precarietà, i senza tetto, le bidonvilles, le zuppe popolari..., nel cuore stesso della metropoli e nei centri urbani della periferia... E ad ogni fase di recessione più acuta, come all'inizio degli anni 80, o ancora oggi da quasi due anni nella metropoli, tutte queste conseguenze si aggravano all'estremo e per sempre più proletari. Per il primo trimestre '93, in Spagna, 253.000 disoccupati in più; la Francia a sua volta, avrebbe perso, dall'inizio dell'anno, 160.000 posti di lavoro... Più del 10% della popolazione attiva dell'Unione Europea è così alla disoccupazione, secondo le cifre ufficiali, ma a questi 20 milioni di persone conviene aggiungere i milioni e milioni di proletari precarizzati all'estremo che non figurano più nelle liste delle agenzie specializzate e che sopravvivono di lavoro occasionale, illegale... Questa precarietà di massa non è solo conseguenza della fase recessiva. Infatti, le condizioni e l'esigenza di una rivoluzione tecnologica hanno dinamizzato un'enorme ristrutturazione produttiva. Una nuova divisione internazionale nella profonda mutazione del lavoro e dello scambio. Cioè anche una fortissima pressione sull'occupazione a livello mondiale e locale. Questi sconvolgimenti produttivi rafforzano sempre più la tendenza al dominio del capitale costante sul capitale variabile, il regno della macchina, la diminuzione dei posti di lavoro e per conseguenza anche l'aumento dell'estorsione del plusvalore prodotto da ogni lavoratore. La ristrutturazione tecnologica ha provocato lo spostamento degli operai e degli impiegati da un settore all'altro, richiesto nuove funzioni, nuovi spazi e mobilità più grandi. Di fatto una nuova razionalizzazione e un controllo accresciuto in ogni posto di lavoro (nota 2). Simultaneamente numerosi posti di lavoro sono stati definitivamente perduti nella distruzione di alcuni, nella loro delocalizzazione... Peraltro, il nuovo sistema di lavoro, tra cui il "just in time" toyotista, esige un'accresciuta precarizzazione nella mobilità (contratti a durata limitata, interim...). Appare così chiaramente oggi che la piena occupazione e il posto segmentato fisso (come espressione del regime di accumulazione e produttivo fordista) appartengono al passato. Il formidabile sviluppo delle nuove tecnologie ha esteso i tipi di produzione monopolistica al mondo intero, dall'agro-business all'high-tech. Milioni di esseri umani hanno visto la loro vita professionale sconvolta e numerosi altri sopravvivono nell'insicurezza permanente della corsa al posto di lavoro. Questo movimento non è "nuovo" in niente, esso è la conferma di un'altra tendenza capitalistica identificata da Marx: "Con l'aumento del capitale complesso (complexe nel testo francese - n.d.t.) cresce anche, è vero, la sua parte costitutiva variabile, cioè la forza-lavoro incorporabile, ma cresce in una proporzione in permanente regresso". Il salto attuale nella ristrutturazione monopolistica lo conferma una volta di più. Nei tre continenti constatiamo ugualmente i disastri congiunti dei due movimenti di ristrutturazione e recessione. Lo sviluppo dei mezzi di produzione in questi territori ha costituito e costituisce sempre uno sbocco essenziale per le potenze imperialiste. La diffusione della produzione industriale ha portato all'industrializzazione di numerosi paesi, dalle "maquiladoras" sudamericane alle unità di produzione del Sud-Est Asiatico. Quando la produzione non ha integrato metodi a forte coefficiente di tecnologia, la sua maggior parte è stata trasferita in questi paesi. Nel corso del solo decennio 60, il tasso di proletarizzazione si è moltiplicato per 3 o4, o più. Il basso costo dei salari, che riduceva la pressione di competitività, permetteva di moltiplicare i piccoli lavori senza qualifica o estremamente segmentati. Nella relazione imperialista, l'articolazione di queste zone al mercato mondiale riflette la loro integrazione dipendente. E la sua progressiva intensificazione. Nell'attuale crisi di ristrutturazione, queste zone subiscono di conseguenza gli stessi contraccolpi, ma appesantiti dalla volontà dei monopoli e delle potenze imperialiste di far ricadere sui più deboli i costi della depressione; e aggravati anche dalle risultanti disastrose della concorrenza accanita di questi monopoli per assicurare il loro dominio su parti di mercato. Dappertutto povertà, ineguaglianza e sfruttamento si estendono e si approfondiscono. Dappertutto la dissoluzione delle forme di produzione locali (artigianato, agricoltura...) condanna milioni di persone ai ghetti e alle favelas delle megalopoli. La miseria lascia la campagna per il nuovo inurbamento selvaggio. Dappertutto si vendono terre e piccoli commerci, o altro; dappertutto sempre più persone si trovano separate socialmente dai mezzi di produzione. Un vasto movimento di proletarizzazione, anche se in un primo tempo questi nuovi proletari raggiungono le masse pauperizzate strutturalmente sottoccupate. E una volta di più conviene sottolineare che questo processo è già ben conosciuto; Marx scriveva d'altronde su "Il Capitale" a questo proposito:
Crisi di ristrutturazione e depressione si congiungono in un movimento mondiale che porta al parossismo la crisi del lavoro in ogni territorio. Ed è sempre più evidente che i rimedi che la borghesia impone aggravano il male. Infatti nel loro tentativo di ricostruire condizioni globali di crescita del tasso di profitto, le potenze imperialiste generalizzano le politiche di rigore e di aggiustamento interno, e il super sfruttamento dei paesi dipendenti. La borghesia è ben cosciente che non può superare la sua crisi e compiere la ristrutturazione della produzione e dello scambio se non a spese dei proletari, delle loro condizioni di vita e di lavoro a livello internazionale. Un dominio di classe che non può vincere se non imponendo l'ordine di sicurezza mondiale ritrascritto in ogni continente.
Come si può arrivare a concepire e a descrivere tali movimenti storici con l'aggettivo di "superfluo", come viene fatto nel concetto dei "2/3"? Si può ignorare a questo punto la natura del sistema, non cogliere le sue tendenze profonde all'intensificazione e all'espansione, la sua volontà egemonica nella penetrazione in tutti i rapporti sociali, in tutti gli scambi...? Il capitalismo è integratore, esso riassorbe l'Altro e il margine, l'esclusione. E' diventato monopolistico omogeneizzando sempre più la produzione mondiale. Il Capitale, in quanto rapporto sociale di produzione, è internazionale; esso integra, assorbe, gestisce, uniforma, inquadra... Ciò che non può dominare integrandolo e che gli è dunque esterno, viene demonizzato e distrutto in uno stesso movimento. Esso stermina! La guerra non è più soltanto una valvola ciclica o permanente, essa non può più essere altro che eliminazione di vaste porzioni di popolazione (naturalmente con i mezzi di produzione corrispondenti). E non è frutto del caso che l'era del monopolio sia anche quella delle guerre mondiali, dei bombardamenti massicci, dell'arma nucleare, delle "Star Wars"... e dei campi di concentramento. Se il nuovo modello di accumulazione sottende una ristrutturazione del mercato e della produzione, è come un processo di lotta accanita tra le classi contrapposte al quale nessuno sfugge (e ancor meno interi strati!) e nel quale nessuno è "escluso" nel senso reale del termine, né superfluo. I più poveri e i precari costituiscono un immenso esercito industriale di riserva, e questo "esercito" ha una funzione precisa, un ruolo nella lotta di classe, essendo "la palla che la classe operaia porta al piede in ogni momento della sua lotta per l'esistenza contro il capitale; regolatore che mantiene il salario al basso livello corrispondente al bisogno capitalista". Il nuovo Segretario del Lavoro del Governo Clinton, Robert Reich, scriveva nel suo ultimo libro:
Si può ancora parlare di superfluo? Quando l'esercito industriale di riserva è sempre più un elemento essenziale nello scontro tra le classi? La borghesia imperialista deve spezzare la classe proletaria, rompere le sue organizzazioni, la sua solidarietà e logorare la sua resistenza per sottometterla pienamente al modello del nuovo regime di accumulazione capitalistica. Ogni nuovo salto in avanti, nella fase di accumulazione è fondato su nient'altro che sull'insieme degli arretramenti sociali imposti agli sfruttati. L'immensa coorte dei disoccupati e dei precari, in ogni territorio preme con tutto il suo peso e partecipa così, con la sua stessa presenza, alla perpetuazione e all'accentuazione delle altre tendenze nate dal processo e dalla divisione del lavoro in questo nuovo regime. E principalmente tutti i caratteri dello sfruttamento intensivo. Nel centro, più sfruttamento diretto, grazie all'ergonomia (anche autogestita) e alla robotica (l'insieme del modello produttivo toyotista), cioè, di fatto, più plusvalore prodotto per ogni lavoratore o "gruppo di qualità". La pressione dell'esercito di riserva sul mercato del lavoro trascina i salari verso il basso, così come attiva anche la dequalificazione fino ai compiti più schifosi e pericolosi. In Francia abbiamo tutti in mente i tre operai interinali irradiati in un'azienda di Forbach durante un'operazione di manutenzione di un acceleratore di particelle. La politica della corsa ai profitti sul mercato dell'occupazione significa anche il 40% di incidenti sul lavoro in più tra l'89 e il 90 per il solo settore edile e lavori pubblici, ma anche, dalla fine degli anni 80, il 10% di dichiarazioni di malattie professionali in più... E naturalmente i più colpiti sono i lavoratori dei subappalti, gli interinali, quelli con contratto a termine... Anche nel Tricontinente, mentre i monopoli delocalizzano alcune produzioni è stato possibile intensificare ancor più lo sfruttamento e pesare così sulle condizioni di vita delle masse. Oggi anche i lavoratori dell'Est europeo conoscono le conseguenze di questo " sviluppo" capitalistico, l'integrazione-dipendenza accresciuta, la disoccupazione, gli orari e i ritmi intensificati, la scomparsa di aiuti sociali e familiari, l'aumento del costo della vita, ecc. La proletarizzazione nell'insieme dei paesi dipendenti agisce sempre più concorrenzialmente sul mercato del lavoro. E occupazione ed esercito industriale di riserva devono essere compresi a livello internazionale. Con la mondializzazione di tutti i processi economici, il processo del lavoro e la sua divisione (dunque l'essenza della polarizzazione) sono attanagliati dal doppio movimento di disparità e interdipendenza sempre più rafforzato centro/periferia. Il "dumping sociale" su scala mondiale, la delocalizzazione verso i paesi dipendenti, determina tanto queste condizioni quanto gli ostacoli alla resistenza e alle risposte degli sfruttati. E Robert Reich pensa di poter aggiungere in tutta tranquillità:
I problemi dello sviluppo capitalistico, della crisi e della rivoluzione proletaria sono diventati questioni internazionali ed è unicamente su questo piano che essi troveranno la loro risoluzione storica. Nonostante le controtendenze attuali con le lacerazioni nazionaliste, le lusinghe del ripiego localista e del parziale riformista, è a livello mondiale che si gioca la partita dell'imposizione del Nuovo Ordine monopolistico, con i negoziati GATT, la ristrutturazione del FMI, la crisi del sistema monetario internazionale, la perdita dell'egemonia USA, la crisi del "socialismo reale"...Ed è su questo piano che interagiscono le principali contraddizioni del sistema della nostra epoca, siano esse interimperialiste, imperialiste o classiste. Inesorabilmente le enormi difficoltà incontrate dalle borghesie imperialiste per trovare e generalizzare una via di espansione sul mercato mondiale unificato, riattualizzano con forza i progetti di trasformazione rivoluzionaria dei rapporti di produzione. Una prima conclusione L'imperialismo è fondamentalmente la lotta per la conquista e la spartizione del mercato, una lotta per vie pacifiche o politiche, oppure con la guerra. Conquista e spartizione che si concretizzano nella supremazia sugli scambi e sull'esportazione di capitali. Questo sistema è il prodotto storico dei caratteri dello sviluppo capitalistico, esso è anche il frutto dello sviluppo ineguale dei differenti settori che costituiscono l'economia capitalistica, il frutto del grado ineguale di concentrazione di questi settori. Il processo di sviluppo ineguale ha una forma universale e una dimensione mondiale. L'internazionalizzazione del capitale e la sua espansione fondano l'interdipendenza globale; di fatto esse forgiano una unità contraddittoria e dinamizzano così le risonanze dello sviluppo ineguale ovunque e in ogni luogo del mercato. Più il capitale arriva a unificare e a generalizzare il suo mercato a livello planetario - dunque più si avvicina al suo massimo sviluppo - più l'ineguaglianza dei suoi ritmi si rafforza e si estende, più essa penetra in ogni ambito, in ogni attività... Allora ogni potenza industriale o statale si colloca in un rapporto di forza, e il campo imperialista riflette con ancor più acutezza e violenza l'universalità della concorrenza, dell'interdipendenza e degli interessi particolari. La necessità di esportare merci e capitali - determinata da un'espansione interna, basata sulla produzione di plusvalore e che produce un'accumulazione di capitali "eccedente" - attanaglia ogni paese, ogni settore, ogni impresa... I limiti del mercato, il suo lungo ciclo di depressione (dall'inizio degli anni '70) e la recessione attuale accentuano tutti i rapporti di concorrenza. Ed è questa concorrenza ad essere il motore della tendenza alla guerra, la guerra inesorabile tra le potenze che si affermano e quelle che declinano, tra la presa di potere degli uni e la difesa degli altri, tra i forti e i deboli... Inutile ritornare su una dimostrazione della generalizzazione della guerra nell'epoca imperialista, l'attualità in questi ultimi anni è limpida e impossibile da confutare. I rapporti militari sono innanzitutto un aspetto dei rapporti economici, e fintantoché le condizioni per una più grande generalizzazione dei conflitti non si sommano, la guerra si concentra sulla battaglia della produttività. Una vera guerra economica mondiale. Questa guerra spinge tutti i gruppi imperialisti
ad aumentare la produttività del loro potenziale. Per raggiungere
questo obiettivo, lo sforzo della borghesia si è sviluppato essenzialmente
in due direzioni fondamentali: Queste due direzioni significano chiaramente una degradazione a lungo termine delle condizioni di vita delle masse, qui e nel tricontinente. Una concretizzazione della logica del sistema imperialista: fare ricadere sui più deboli le conseguenze della sua crisi! E questa logica si estende a tutti i rapporti sociali dominati dai rapporti di produzione capitalistici. In questo modo la fase attuale di crisi e di ristrutturazione del MPC alimenta tutte le realtà concorrenziali. Non solo tra i differenti capitali o potenze imperialiste, tra i paesi, i blocchi, i monopoli, i settori... ma essa diviene anche una concorrenza accresciuta tra ogni strato di classe nella loro divisione e segmentazione. Una concorrenza tra individui, tra sfruttati sempre più serializzati e isolati. Desolidarizzati. Le principali vittime di questa guerra barbara e fratricida sono molto chiaramente in primo luogo le categorie già in basso nella scala della precedente "disposizione (étagement, nel testo, n.d.t.) delle diversificazioni sociali": le donne, i giovani, gli immigrati, i vecchi, i malati, gli handicappati... E lo si constata sul mercato del lavoro; sono queste categorie che formano la grande truppa dei precari assoluti. L'esempio del lavoro delle donne è chiaro fin dalla sua graduale integrazione al lavoro salariato. E' sempre stato il lavoro più instabile e questa caratteristica arriva oggi al parossismo, le donne sono l'elemento essenziale dell'esercito di riserva, del lavoro supersfruttato, del lavoro a durata limitata, degli impieghi illegali e non riconosciuti. Tutto ciò rafforzato dalla dequalificazione sistematica del lavoro femminile. Meno pagate, prime licenziate: l'operaia e l'impiegata. La concorrenza aggrava e rivela così tutte le particolarità della segmentazione sociale e le sue contraddizioni interne, quelle della divisione sociale del lavoro, dei sessi, delle età, delle origini razziali,... E ciò non può essere circoscritto al solo processo di produzione, perché questo sfruttamento è il cuore della riproduzione dell'insieme dei rapporti di dominio-subordinazione. Cioè la loro perpetuazione politica e ideologica. Non si possono comprendere a fondo le funzioni (e i ruoli sociali) della oppressione della donna nella divisione sociale del lavoro e nella società se non a partire dalla riproduzione allargata della figura proletaria di questa donna. Ed è certo lo stesso per quanto riguarda la funzione della segregazione nelle nostre società, ieri come oggi. I rapporti sessisti e segregazionisti rafforzati dalle nuove forme dell'accumulazione e sostenuti dunque da un continuum di strutturazioni politiche e ideologiche, agiscono direttamente con la riproduzione allargata dei rapporti di produzione e con la loro perpetuazione attuale. In questa fase di putrefazione dell'imperialismo e di guerra economica mondiale, le forze reazionarie borghesi tentano di dividere sempre più a livello locale il proletariato, di giocare sulle sue specificità e contraddizioni interne; esse tentano così di incatenare "categorie" particolarizzate alla difesa degli interessi del "paese", della "nostra economia", della "competitività del nostro capitale"... Naturalmente con l'aiuto premuroso dei rappresentanti del socialsciovinismo di ogni pelo (principalmente la piccola borghesia locale e l'aristocrazia operaia) che vedono in questa difesa la soluzione alla loro sopravvivenza come strato relativamente privilegiato del sistema. Si sfila qua e là sotto la bandiera nazionale, si scandiscono le parole d'ordine del corporativismo,... Si fa appello ai sacrifici, alle restrizioni, agli sforzi,... al proprio sfruttamento e alla caccia all'altro! I rappresentanti degli interessi imperialisti hanno compreso con acume che la sola forza che può intralciare radicalmente il loro risollevamento e la loro attuale ristrutturazione, e dunque approfittare della loro crisi, è il proletariato internazionale. Proprio come classe che supera i limiti e i contesti locali e parziali. Di qui il loro accanimento a spezzare la sua unità, la sua identità rivoluzionaria e mondiale. Dividere a livello nazionale, dividere in seguito gli interessi particolari. Ovunque assistiamo a vaste campagne di mobilitazione ideologica contro lo straniero e il diverso; l'immigrato naturalmente, il giapponese, l'americano... ma anche contro la donna "empia" ("impie" nel testo francese, n.d.t.) che prende il posto di un uomo e rifiuta il suo ruolo di angelo del focolare... Sciovinismo, corporativismo, sessismo, razzismo... sono le conseguenze e le condizioni per la prosecuzione della guerra economica, per la corsa alla produttività, per la concorrenza del ciascuno per sé. La borghesia condiziona i proletari, li mobilita e infine li getta gli uni contro gli altri. Ecco la logica classista e imperialista che bisogna distruggere se non ci si vuole ritrovare a combattere in una trincea dell'uno o dell'altro campo dei pretendenti al dominio del mondo! Distruggerla fino alla radice superando, con una lotta risoluta, il disfattismo rivoluzionario della nostra epoca. Ma il punto di partenza di una tale strategia rivoluzionaria di rovesciamento della guerra imperialista in guerra civile, è una posizione internazionalista corretta e ferma. E questa posizione non può nascere senza una teoria e una analisi coerente dell'imperialismo e del movimento delle sue contraddizioni, senza una comprensione priva di incrinature della natura mondiale di questo movimento. Il "concetto della società dei 2/3" non è né una analisi coerente dell'imperialismo, né ancor meno uno strumento che permette di cogliere il movimento delle contraddizioni perché appunto nega tanto questo movimento che la sua base fondamentale classista. - La relazione imperialista centro-periferia sempre più aggravata e la concorrenza interimperialista che si rafforza nella costituzione dei blocchi continentali e la perdita di egemonia USA ("... Da una parte la formazione, con le concentrazioni e le fusioni, di grandi gruppi finanziario-economici e la tendenza a grandi Stati, e dall'altra la formazione di un piccolo capitalismo nelle zone arretrate del mercato mondiale e la costituzione di nuovi piccoli Stati. Questa dialettica tra la formazione di grandi potenze e la costituzione di piccole potenze è uno degli aspetti dello sviluppo politico ineguale del capitalismo, espressione del suo sviluppo economico ineguale"). - La contraddizione fondamentale del sistema, la polarizzazione e la lotta: borghesia imperialista e proletariato internazionale. Più di 20 anni di lotta rivoluzionaria sul nostro continente ci hanno insegnato che la posizione proletaria è internazionalista perché essa non si accontenta di colpire solo l'imperialismo, ma attacca anche gli interessi delle borghesia locali e i loro Stati. Essa è internazionalista nel legare questi due attacchi nella costruzione della direzione proletaria e nel rafforzare l'autonomia di classe. E' in questa lotta di ogni istante che è possibile spezzare l'egemonia del pensiero dominante sul proletariato, demistificare le nozioni scioviniste, razziste, quella disonorata di "popolo" come il radicalismo superficiale... e così svelare, combattendola, la vera natura del sistema. Una guerra rivoluzionaria di lunga durata. Il proletariato è fondamentalmente antimperialista essendo fondamentalmente anticapitalista. maggio 1993 Collettivo Front Note Nota 1 Anche la crisi della fine degli anni 1870 e seguenti che materializzano la nuova industrializzazione (chimica, metalli) contro la vecchia (tessile e miniere). Sono queste produzioni, allora nuove, e in seguito il loro sviluppo attraverso il taylorismo e il modello fordista ad essere in crisi ormai da 20 anni, così come il salto tecnologico ha trasformato le loro produzioni e i loro modi di assoggettare i lavoratori nella organizzazione del lavoro. Anche in quel periodo i disoccupati si moltiplicavano, vecchi luoghi di produzione si desertificavano o cambiavano completamente il loro modo di inserimento locale (fine degli operai-contadini, creazione della fabbrica solo come fonte di redditi e di produzione mercantile nel suo luogo di impiantazione, flussi migratori, ecc.). Ed è anche ciò a cui assistiamo oggi in questa ennesima crisi-trasformazione del capitalismo. Nota 2 La cadenza e i ritmi di lavoro si sono accelerati, l'intensità del lavoro è accresciuta sotto l'effetto della caccia sistematica ai tempi morti; la ricerca della produttività si è intensificata con l'appropriazione di abilità e combinazioni di operai che permettono di "guadagnare un po' di tempo". Ma soprattutto le nuove forme di lavoro legate al nuovo modo di organizzazione della produzione (informatizzazione e gestione a "flussi tesi") che hanno accresciuto il senso di espropriazione degli OS (operai specializzati, n.d.t.). Gli imperativi della nuova organizzazione del lavoro - assenza di guasti ("zero guasti"), qualità totale ("zero difetti"), impiego ottimale delle capacità di produzione ("zero stock") - impongono un coinvolgimento differente nel lavoro che passa per nuove forme di cooperazione tra OS nel quadro delle quali c'è la trasparenza dei rapporti di lavoro (animati da operai promossi al rango di "istruttori"). Così gli OS della catena non hanno più oggi la possibilità di sottrarsi anche temporaneamente all'ordine della fabbrica. Tutte le possibilità che permettevano di guadagnare del tempo (le poche decine di secondi che accumulate potevano permettere di respirare un poco), le forme vecchie di relativo "riposo" nel corso del lavoro, tutto ciò che poteva costituire delle "nicchie" di protezione contro il dominio totale della fabbrica, i modi particolari di appropriarsi di spazio dal lavoro, ecc... spariscono progressivamente".("Lo schiavo e il tecnico" di S. Beaud e M. Pialoux in "Ouvriers Ouvriers" gennaio '92 edizioni Autrement) |