CONTROINFORMAZIONE INTERNAZIONALE N.9

IL CAPITALE ARABO SI DENAZIONALIZZA

News From Within

IL RIORDINO DEL CAPITALE NELL'AREA MEDIORIENTALE

E' passato più di un anno dall'inizio della 'conferenza di pace' tra Arabi, Palestinesi ed Israeliani. Mentre la delegazione israeliana rappresenta gli interessi israeliani secondo i canoni della democrazia borghese, la delegazione araba e palestinese rappresenta solo sé stessa ed un pugno di persone che l'appoggiano. Nessuno ha mai dato a costoro alcun mandato di rappresentanza.

Per questi motivi è estremamente ridicolo che i membri della delegazione palestinese dichiarino ai mass-media israeliani che ci sono palestinesi che vogliono la pace - intendendo in questo modo che ci sono anche palestinesi contrari alla pace. Dichiarazioni di questo tipo insultano la nostra intelligenza e nascono dal tentativo di far passare posizioni indifendibili ricorrendo a mezzi meschini. Analogamente, è strano che diversi membri della delegazione palestinese affermino che i palestinesi non hanno alternative alla partecipazione ai negoziati. La verità è che chiunque, dovunque, è 'per la pace'. Anche i guerrafondai (come Bush, Mitterand e Shamir) hanno sempre citato il ben noto assioma di Clausewitz «la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi».

Chi sono, secondo costoro, gli oppositori della cosiddetta 'pace'? Sono tutti coloro che non rinunciano ai diritti legittimi del popolo e rifiutano di farsi abbindolare dalla propaganda ostile dell'imperialismo occidentale e dell'arrendevolezza araba. Tanto l'imperialismo quanto la borghesia araba insistono nel ritornello che il capitalismo sta trionfando dovunque e quindi non c'è futuro per chi non si riconcilia con esso. Ma gli oppositori della 'pace' non intendono mettersi al servizio degli interessi dei padroni imperialisti, contestano il ruolo degli Stati Uniti e non si fanno comprare per una manciata di dollari.

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QUANDO I GRANDI DISCUTONO... I PICCOLI VENGONO MESSI DI LATO

I palestinesi sono andati a Madrid e da quel momento non hanno mai disertato una riunione. Di sicuro sapevano benissimo dove andavano e che cosa ci si attendeva da loro; sapevano benissimo dove si trovavano e cosa dovevano fare. Il capitalista palestinese sa a chi si sottomette, e che questa sottomissione avviene a spese del proprio interesse: gli intellettuali, gli 'esperti' servono ai capitalisti. Tutti costoro sanno bene di partecipare ad una messa in scena ma sanno anche che questo è il ruolo che spetta a chi si lascia asservire dai capitalisti.

La natura dei negoziati, com'era evidente fin dall'inizio, adesso è chiara a tutti. Si tratta di negoziati che mediano gli interessi dei capitalisti ebrei, israeliani, palestinesi, arabi e 'occidentali' nell'intento di riordinare le relazioni economiche e commerciali in Medioriente. Tutti sanno che lo stimolo del commercio internazionale nella regione dovrebbe rilanciare il 'nuovo ordine mondiale' negli anni a venire. Come abbiamo sempre sostenuto, insieme a molti arabi e palestinesi, la scelta delle delegazioni araba e palestinese di partecipare ai negoziati se non è condizionata al ritiro israeliano dai territori occupati né all'affermazione del 'diritto al rimpatrio', indica che i negoziati condurranno soltanto a qualche accordo economico di portata locale. Questi accordi economici consistono solo nel varo di qualche 'progetto comune' tra i capitalisti delle diverse realtà sociali - realtà che non sono soltanto coinvolte in un conflitto nazionale ma in uno scontro per la salvaguardia della vita delle masse in questi paesi. Così, assistiamo alla collaborazione di tutti i capitalisti della regione, inclusi quelli palestinesi, a spese dei diritti e degli interessi dei popoli dell'area. Il capitalismo palestinese non realizza i propri interessi in ambito territoriale ma sulla base della mobilità del capitale e della appropriazione di plusvalore - per quanto in misura molto ridotta. Esso tende ad integrarsi al nuovo ordine economico che, in Medioriente, può realizzarsi solo sulle spalle del popolo palestinese ed arabo.

Infatti, i negoziatori palestinesi parlano di 'cooperazione regionale' anziché di integrazione economica tra i vari paesi arabi. In altre parole, la cooperazione economica con Israele - a sua volta assoggettato all'egemonia dell'imperialismo americano - serve a rimpiazzare l'unità economica degli arabi.

Non ci sorprende che il capitalista curi i propri interessi, né che i professionisti vendano le proprie capacità ai signori del capitale. Ciò che ci stupisce è che, mentre rafforzano e si sottomettono al capitalismo, costoro hanno la faccia tosta di affermare che si stanno battendo per i diritti dei palestinesi.

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IL CAPITALISMO DELLA 'PERIFERIA' HA PERSO IL PROPRIO CARATTERE NAZIONALE

Per comprendere gli obiettivi strategici dei delegati arabi e palestinesi, dobbiamo esaminare le trasformazioni che hanno avuto luogo nel capitalismo finanziario tanto al livello globale che a quello regionale.

Il mondo d'oggi si trova di fronte ad uno sviluppo straordinario delle dinamiche capitalistiche, soprattutto nella periferia. L'accumulazione di capitale, che avviene al di fuori dei paesi della periferia, gioca un ruolo chiave nella rottura del rapporto tra il reddito e il prodotto del lavoro. Il flusso di plusvalore all'estero e l'azzeramento delle possibilità di reinvestimento all'interno, avvantaggiano economicamente e fanno progredire solo quegli stati e quelle classi sociali che assorbono questo plusvalore a spese delle società e delle classi che vengono private del surplus. Le classi sociali locali che si avvantaggiano dell'esportazione del surplus si allontanano e si distaccano sempre di più dai ceti popolari dei propri paesi - le differenze sociali tra questa classe ed i ceti popolari crescono progressivamente. Alla fine, tale fenomeno si riflette nella riduzione dei consumi sul mercato locale. La forza di un'economia non è in rapporto all'ampiezza della popolazione, ma al valore della forza-lavoro che si rappresenta nel 'salario medio' e nel 'reddito'. Quanto più aumenta il deflusso di plusvalore tanto più si abbassa il valore della forza-lavoro delle masse e tanto più il reddito si concentra nelle mani della classe dominante.

Ma non crescono solo le differenze sociali tra le classi; cresce anche la differenziazione economica tra un paese e un altro - al livello del reddito nazionale, della crescita economica (o, piuttosto, della 'crisi economica') e del peso del debito estero. Da una parte ci sono paesi che presentano debiti giganteschi, dall'altra nazioni ricche che esportano capitali nel Centro imperialista.

Questa integrazione finanziaria col 'centro imperialista' è probabilmente il fenomeno più pericoloso che sta di fronte all'economia del mondo arabo, ed è il principale fattore che impedisce il superamento delle differenze di classe e quelle tra gli Stati.

Il capitale industriale (produzione di autovetture, attrezzature, ecc.) ed il capitale agricolo sono diventati marginali rispetto al capitale finanziario. I primi due (industriale e agricolo) hanno un carattere 'stanziale' - nel senso che la loro funzione si realizza entro i confini dello stato nazionale. Invece, il capitale finanziario trascende i limiti della propria esistenza concreta, materiale, e circola nel mondo grazie alle banconote internazionali o ai 'telex'. Questo capitale viene assorbito dai paesi del 'centro', e qui perde la propria identità nazionale; si 'libera' dalle proprie origini e diventa parte del sistema amministrativo centrale della finanza internazionale nel quale hanno maggior peso i paesi che forniscono le quote più alte di plusvalore, cioè i paesi del 'centro'. Non è vero che il capitale è diventato 'internazionale'; è vero che le nazionalità periferiche hanno acquisito una cittadinanza al 'centro'. Il capitale importato acquista immediatamente una cittadinanza nei paesi del 'centro', senza che per esso valgano le discriminazioni razziali che, invece, sopporta la forza-lavoro 'immigrata' che ultimamente ha visto progressivamente ridursi le possibilità di movimento.

Anche se quote di questo capitale tornano dal Centro alla Periferia, si tratta di un ritorno che ha le caratteristiche di una invasione: un ritorno camuffato in prestito o in investimento diretto nelle industrie che producono per l'esportazione. Ma la cosa buffa è un'altra: se prendiamo ad esempio il capitale egiziano vediamo che, dopo essere stato esportato, esso ritorna come capitale straniero in una economia che si fonda sul super-lavoro; in questa veste riesce ad estrarre un plusvalore più elevato e quindi viene riesportato al Centro.

Un'altro esempio è costituito dal plusvalore che si estrae nell'area del Golfo Persico. Questo plusvalore, nella forma di capitale francese, finisce con l'essere investito in Marocco per lo sfruttamento della forza-lavoro concentrata in quell'area, e così contribuisce ad allargare il divario tra i diversi paesi. Anche in questo caso, il capitale che viene esportato si trasforma in un aggressore dei paesi amici. Infatti, i capitali arabi conservati nelle banche dell'Occidente sono stati trasformati in strumenti di aggressione militare contro l'Iraq ed usati per coprire i costi delle operazioni 'di polizia' effettuate in quel paese e tutte le spese per la costituzione delle 'regioni difese' del Kurdistan e dell'Iraq Meridionale. Quello che abbiamo appena segnalato è un esempio del processo grazie al quale il capitale arabo perde la propria nazionalità, altera la propria cittadinanza ed alla fine si trasforma in arma contro tutto il popolo arabo - come nel caso degli eserciti arabi che hanno affiancato quelli americani nell'aggressione all'Iraq.

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L'ANALISI DELLA SITUAZIONE ECONOMICA

Alla luce dell'introduzione fatta, cerchiamo di esaminare i punti principali dell'analisi economica.

l) Sviluppo economico palestinese e cooperazione regionale.

In realtà, non è possibile parlare di 'economia palestinese' ma soltanto dell'economia nei Territori Occupati; la prima condizione perché questa possa chiamarsi 'palestinese' è legata all'indipendenza. Purtroppo da molto tempo i palestinesi hanno capitolato su questo punto specifico, già prima che si avviasse il processo politico. Per questo motivo dobbiamo cercare di essere molto precisi quando parliamo di cooperazione economica regionale che includa anche i palestinesi. Dopo l'incontro tra giapponesi, egiziani, israeliani e americani, è assolutamente chiara l'intenzione di limitare la cooperazione agli stati esistenti. Non c'è dubbio che la partecipazione dei palestinesi si leghi alla preventiva rinunzia all'indipendenza. La cooperazione economica regionale può svilupparsi soltanto tra stati indipendenti dato che questo genere di cooperazione è, prima d'ogni altra cosa, frutto di una decisione politica - e non di una decisione del Consiglio dei Ministri di scrivere dichiarazioni congiunte in Ebreo ed in Arabo sulle pietre di Gerusalemme. Per non parlare del fatto che la cooperazione regionale tra paesi capitalistici sviluppati e paesi economicamente arretrati (per non dire altro), può portare soltanto alla sottomissione di questi ultimi ai primi. I capitalisti arabi e palestinesi sono consapevoli di tutto ciò e lo perseguono con entusiasmo.

2) La rappresentazione dell'OLP e della diaspora.

Nell'analisi economica che è stata fatta si insiste sulla necessità di invitare i rappresentanti dell'OLP e dei palestinesi della 'diaspora'. Israele ha combattuto duramente contro questa ipotesi e come risultato sono stati accettati soltanto i punti meno significativi delle richieste fatte. La domanda da porsi a questo punto è: il nostro problema è davvero quello della rappresentatività di qualche cittadino di Gerusalemme, o di qualche villaggio della regione di Hebron, o di qualche palestinese milionario di Abu-Dabi, o di un membro del comitato esecutivo dell'OLP ? Si tratta di una questione di personaggi da scegliere o del riconoscimento dell'OLP da parte degli Stati Uniti e di Israele?

Il problema è più complesso e riguarda il controllo del territorio; nel momento in cui questo diritto dovesse venir riconosciuto né l'OLP né nessun altro avrà bisogno di altre iniziative. D'altronde se perdiamo o, meglio, dimentichiamo il nostro diritto al controllo della terra in cui viviamo, se perdiamo di vista il diritto al ritorno, allora non ha senso chiedere il riconoscimento dell'OLP.

La domanda che dobbiamo farci è la seguente: come mai nessun membro della delegazione mostra di avere il coraggio di sollevare la questione con i 'membri' dell'OLP a Tunisi che non capiscono le ragioni del mancato riconoscimento ?

3) La richiesta ad Israele di riconoscimento del diritto palestinese alla sovranità sugli affari economici - quindi sulla possibilità di legiferare e di svolgere attività politica - e del diritto a ricevere massicci aiuti economici e tecnologici oltre alla necessaria attività formativa.

Cerchiamo di essere logici: com'è possibile chiedere che Israele riconosca questo diritto mentre continua lo stato di occupazione della nostra terra e proseguono gli insediamenti? Com'è possibile che ai palestinesi vengano riconosciuti questi diritti mentre il governo, I'esercito ed il controllo del territorio sono ancora nelle mani di Israele? E se anche Israele accettasse di ritirarsi, quale sarebbe il meccanismo di garanzia del rispetto di questa decisione? Infatti, I'unica domanda a cui si può dare una risposta (anche se parziale) nell'attuale stato di occupazione è quella che riguarda gli aiuti economici, il trasferimento di tecnologia e la formazione. Ma la vera questione a questo punto è: se anche ricevessimo una gran quantità di denaro, se anche i migliori esperti degli Stati Uniti curassero la formazione di un quadro locale e se anche le sofisticate tecnologie delle 'guerre stellari' finissero nelle nostre mani - sappiamo che tutto questo sarà parte, in ultima istanza, del programma di ristrutturazione di una economia ancora assoggettata all'occupante ed ai suoi interessi economici. L'economia israeliana richiede un quadro palestinese tecnicamente preparato, privo di coscienza nazionale o di classe, inconsapevole dei propri interessi, educato alla vendita dei prodotti israeliani sul mercato di Damasco o alla direzione di qualche impresa israeliana che opera a Ramallah ed i cui prodotti si vendono alla Sacra Mecca, capace di convincere una donna saudita conservatrice che 'Made in Tel Aviv' significa 'Prodotto della Terra Santa'!

Queste capacità hanno condizionato le decisioni relative al piano di formazione voluto dagli americani ed approvato dalla Comunità Europea. L'OLP e la delegazione palestinese hanno già firmato un 'affidavit' per il quale Stati Uniti ed Europa cominceranno a produrre un quadro palestinese piegato alla loro volontà (cioè, disposto a farsi distruggere). E la delegazione considera tutto questo 'una vittoria'!

4) Il bisogno di cooperazione inter-regionale serve a ristrutturare l'infrastruttura economica dei paesi dell'area?

Non so quale sia la posizione dei palestinesi su questo argomento. Non dubito che gli economisti che fanno parte della delegazione siano consapevoli del significato della ristrutturazione dell'infrastruttura economica in Palestina; l'economia dei territori occupati ha subito delle deformazioni e numerosi attacchi per oltre venticinque anni da parte delle forze d'occupazione. Similmente, non c'è dubbio che questi economisti sappiano che tale ristrutturazione comporterà la formazione, in un eventuale stato indipendente, di una autorità con poteri decisionali. Ma che rapporto hanno questi individui con chi ha dovuto subire direttamente la ristrutturazione dell'economia?

Gli economisti progressisti sanno che ristrutturare l'economia dei territori occupati è possibile solo se si dà vita ad un modello popolare e si sviluppa l'auto-sufficienza se, cioè, si seguono le indicazioni date dai palestinesi nel primo periodo di Intifada anziché quelle date dalle autorità d'occupazione.

Ma facciamo conto che i paesi arabi dell'area comincino a ristrutturare le proprie economie, mentre la nostra rimane sotto il controllo degli occupanti. Il risultato sarebbe l'accresciuta dipendenza dell'economia dei territori. Nei principi economici borghesi c'è spazio per la compassione? Se la risposta è negativa come possiamo pensare che Israele sviluppi un'economia in modo da migliorare la situazione nei territori occupati? Lanciare slogan sulla costruzione di una economia palestinese è una pericolosa presa in giro.

5) Le priorità nello sviluppo dei territori occupati.

Nell'analisi degli economisti della delegazione si sostiene che nello stesso momento in cui si risolvono i bisogni fondamentali della gente occorre sviluppare l'esportazione, formare la forza-lavoro, far avanzare l'edilizia, costruire porti ed aeroporti e fondare una banca palestinese per lo sviluppo.

Un tale programma economico rappresenta un miscuglio di strategie economiche differenti. Porre l'accento sulla priorità della produzione per la soluzione dei bisogni primari è in contraddizione con la strategia della produzione per l'esportazione. Allo stesso modo la formazione della forza-lavoro contraddice i bisogni fondamentali poiché, come abbiamo detto prima, la formazione risponde solo agli interessi di chi esporta e, indirettamente, della stessa Israele...

Se l'occupante israeliano o l'amministrazione Clinton vogliono costruire qui un porto o un aeroporto chi pensiamo che dovrà gestirli? Pensiamo per caso che Israele potrebbe davvero convincersi a non usarli, per esempio, per importare armi?

In ogni caso, il piano economico non è in relazione con i negoziati politici. Noi possiamo preparare alcune proposte e poi farle conoscere all'estero, magari attraverso la posta.

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GLI ARGOMENTI AFFRONTATI DALLA DELEGAZIONE PALESTINESE

I membri della delegazione palestinese sostengono che la presenza degli europei agli incontri costituisce una vittoria per i palestinesi. Questa affermazione mi ricorda la storia di un tipo che dopo aver scolpito una statua cominciò ad adorarla come una divinità. Israele accettò la partecipazione europea, come se fosse una evidente concessione ai palestinesi. Ma Israele è consapevole che la partecipazione della Comunità Europea non costituisce una minaccia ai suoi progetti e che, almeno fino a questo momento, le nazioni europee non hanno adottato una politica diversa da quella americana. Al di là della simpatia che gli europei nutrono per i palestinesi, non dobbiamo mai dimenticare che essi si sono sempre opposti al ritiro dell'occupante israeliano dai territori ed alla costituzione di uno stato palestinese....può sembrare che la stima dei delegati nei confronti degli europei nasca esclusivamente dalla volontà che questi hanno manifestato di organizzare un progetto di formazione quadri, simile a quello di cui abbiamo già parlato, concordato con gli americani.

Allo stesso modo, i membri della delegazione hanno mostrato grande entusiasmo alla notizia della disponibilità dei giapponesi a finanziare lo sviluppo turistico nell'area; ed ovviamente si sorpresero nell'apprendere che i giapponesi intendevano avviare il progetto prima della firma di un accordo di pace. Tutto ciò chiarisce il modo in cui i paesi del Centro considerano i negoziati: progetti sul tipo di quello giapponese, si basano sulla continuazione della situazione attuale; una situazione che nulla ha a che vedere con l'autonomia palestinese.

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LA NORMALIZZAZIONE ANOMALA DEI RAPPORTI

Alcuni membri della delegazione palestinese rappresentano quei settori della società palestinese che hanno dato inizio ad un processo di normalizzazione con Israele. Questo processo è avanzato più rapidamente di quanto non sia successo con l'Egitto. In quel paese la normalizzazione aveva influenzato soltanto una cerchia ristretta di intellettuali, fedelissimi al regime. In quel caso, la normalizzazione era cominciata soltanto dopo il ritiro israeliano dal Sinai.

Ma i negoziatori palestinesi non hanno ottenuto finora alcuna vittoria e, nonostante ciò, la delegazione e molti accademici palestinesi hanno già dichiarato che Israele costituisce una sorta di 'entità naturale' nella regione e non rappresenta più uno Stato che agisce come occupante non solo della Palestina ma anche della Siria, della Giordania e del Libano. Costoro hanno perfino dimenticato che l'ideologia sionista e tutto il movimento sionista sono i veri fautori degli insediamenti e dell'espropriazione della terra del popolo palestinese. A proposito della normalizzazione, un membro della delegazione palestinese, Samar Halila, ha affermato in un suo intervento: «E' possibile che nell'ambito dei negoziati noi veniamo spinti ad accordi bilaterali sull'economia; ad esempio, un accordo sul lavoro che consenta ad Israele di impiegare mano d'opera palestinese o di esportare prodotti in Siria». Ma noi ci chiediamo: perché 'spinti'? Non dobbiamo occuparci solo di negoziati? La verità è che costoro sono andati al tavolo dei negoziati senza aver ottenuto alcuna garanzia sulla fine dell'occupazione, sul blocco degli insediamenti, sulla riduzione del carico fiscale o sul riconoscimento dei diritti nazionali. E come risultato adesso si sentono 'spinti' a firmare un accordo economico?

Il regime dell'autonomia palestinese non deve sentirsi 'spinto' a concludere un accordo sull'occupazione dei lavoratori palestinesi in Israele. Un accordo del genere è piuttosto la grande speranza di chi non crede nell'importanza di costruire le basi per la 'produzione palestinese indipendente' che potrebbe assorbire la forza-lavoro palestinese. Per colpa di costoro, la sola trasformazione a cui andranno incontro gli operai palestinesi deriverà dall'assoggettamento dell'economia dei territori occupati agli interessi israeliani. Infine, tanto la delegazione palestinese quanto coloro che l'appoggiano non pare siano interessati a spostare verso l'Oriente Arabo il mercato e i rapporti economici necessari allo sviluppo dei territori occupati; e questo spiega il motivo per cui dovremmo sentirci 'spinti' ad accettare l'esportazione di prodotti verso la Siria, come se stessimo concludendo un accordo con Israele.

Noi riusciamo a trarre una sola conclusione: la 'normalizzazione' dei rapporti con Israele ha influenzato profondamente i membri della delegazione fino a trasformarli in Palestinesi-Sionisti.

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