CONTROINFORMAZIONE INTERNAZIONALE N.9

CRISI, GUERRA E LOTTE DI LIBERAZIONE

Redazionale

La crisi del revisionismo ha segnato lo stallo politico e la crisi militare di quelle lotte di liberazione che si appoggiavano al socialimperialismo; all'interno dei paesi imperialisti i vari movimenti pacifisti e internazionalisti che facevano di queste lotte la loro bandiera riflettono questa crisi evidenziando sempre più la propria anima borghese e interclassista.

Di fronte alla fame prodotta dallo sfruttamento imperialista, questi "pacifisti" si fanno mosche cocchiere delle invasioni militari (come in Somalia), di fronte alla guerra civile scatenata in Jugoslavia dalla maggiore potenza capitalista e imperialista d'Europa, la Germania, gli stessi "pacifisti" aprono la strada agli eserciti "pacificatori". Le loro "denunce" e le loro "azioni", prive di qualsiasi prospettiva reale, servono esclusivamente come giustificazioni di quello che viene spacciato come il "male minore": la reimposizione dell' "ordine imperialista".

Allo stesso tempo un punto di vista rivoluzionario, di classe, deve fare i conti con l'evoluzione della situazione e necessita di un'analisi approfondita dello scontro di classe a livello globale, soprattutto nel momento in cui questo si dà nella forma di scontro e di contraddizione tra paesi imperialisti e paesi oppressi. Il crollo del blocco sovietico, la conseguente egemonia dei paesi imperialisti nell'ambito dell'ONU, la dissoluzione del progetto del non allineamento, le divisioni tra i paesi oppressi, l'attuale assenza di una proposta politica comunista e rivoluzionaria a livello mondiale, rendono difficile una politicizzazione dello scontro tra paesi oppressi e paesi imperialisti; lo scontro ha radici di classe, nasce dallo sviluppo capitalista, ma, all'interno dei paesi oppressi, per tutti questi motivi sono oggi molte volte le borghesie locali quelle che lo interpretano e lo utilizzano nel tentativo di ritagliarsi margini maggiori nella suddivisione dei profitti con i monopoli multinazionali.

Sta alle avanguardie rivoluzionarie nei paesi oppressi cogliere l'occasione, ma sta anche a noi, qui nei paesi del centro imperialista, leggere correttamente questa situazione che è prodotta dalla crisi generale di sovrapproduzione di capitale e quindi dalla necessità per i paesi imperialisti di conquistarsi ognuno il maggior spazio economico possibile in cui investire, scontrandosi non solo con il proletariato dei paesi oppressi, ma anche con le spinte ad uno sviluppo autocentrato delle "borghesie nazionali".

In questa dinamica il rapporto tra i diversi poli imperialisti (Usa, Giappone, Germania-Europa) è di complicità nella comune imposizione del proprio sistema di sfruttamento e, allo stesso tempo, è di scontro per la divisione di aree di influenza che solo in parte sono definite.

Ed è soprattutto in funzione di questo scontro che le diverse frazioni imperialiste vanno definendo ciascuna una giustificazione morale ed ideale al proprio espansionismo. Gli USA per primi si sono preoccupati di chiarire la propria tutela sul mondo intero definendo il concetto di un "Nuovo ordine mondiale" in cui alla potenza imperialista guida spetterebbe il ruolo di poliziotto internazionale. Allo stesso tempo il Giappone, avvantaggiato dalla crisi economica americana e divenuto il primo paese per esportazioni e investimenti all'estero, rispolvera il concetto di "Grande sfera di cooperazione e prosperità economica dell'Asia", che era stata la bandiera del suo espansionismo prima e durante la seconda guerra mondiale.

La Germania si pone come "Centro dell'Europa" in funzione di leadership rispetto agli altri paesi del continente soprattutto per quanto riguarda la necessità di penetrazione economica e di controllo politico rispetto ai paesi dell'Est. Germania e Giappone per sostenere le proprie pretese devono comunque riarmarsi e dotarsi di eserciti in grado di intervenire, ed è esattamente quello che stanno facendo entrambi, approfittando tra l'altro delle varie missioni di pace ONU. Così come quella USA, anche le borghesia di Germania e Giappone prima determinano guerre e conflitti con il proprio espansionismo economico e poi si giocano la carta della propria assunzione di responsabilità diretta nelle operazioni di "pacificazione".

La questione all'ordine del giorno non è quella di un possibile conflitto interimperialista diretto e "guerreggiato", quanto invece questo processo di collusione e di scontro tra poli imperialisti che oggi riguarda principalmente il controllo economico e politico dei paesi della periferia e si traduce in decine di guerre e di conflitti che coinvolgono centinaia di milioni di persone.

In questo quadro l'insistenza dei paesi imperialisti a muoversi sotto la bandiera dell'ONU, rappresenta allo stesso tempo il tentativo di rendere "presentabili" le proprie guerre, e , soprattutto, la possibilità concreta di mediare tra i differenti interessi delle diverse frazioni della borghesia imperialista.

Un approfondimento va fatto rispetto al Medio Oriente, colonizzato e poi spartito dalle nazioni europee sulla base di confini artificiali e funzionali esclusivamente alla riproduzione del rapporto di dominio. Ricco di materie prime di importanza strategica, dotato di poli industrializzati (Iran, Irak, Turchia), il Medio Oriente deve rimanere diviso, non deve poter esprimere nessun "comitato d'affari" in grado di gestire i suoi interessi nel confronto con i paesi imperialisti. Da questo punto di vista è importante il ruolo svolto dai gruppi dirigenti feudali (Arabia, Emirati, Kuwait, Qatar) nel rompere il fronte dell'OPEC.

Nella guerra per il petrolio, o meglio per il controllo dei profitti del petrolio, gli USA sono riusciti fino ad oggi a compattare i tre poli imperialisti L'intervento in Libano, la campagna anti iraniana, il sostegno storico a Israele, il sostegno all'Irak contro l'Iran, la guerra del Golfo, l'intervento in Somalia, ecc. vanno letti in questo contesto, così come l'individuazione del "nemico numero uno" del mondo occidentale continuativamente tra i leader di questa regione (Nasser, Gheddafi, Komeini, Assad, Hussein...)

A fronte di questa evoluzione della tendenza alla guerra è centrale riconoscere la radici di classe dei conflitti che oppongono paesi imperialisti e paesi oppressi; anche quando non si tratta esplicitamente di guerre rivoluzionarie è comunque la resistenza delle masse oppresse allo sfruttamento, la loro richiesta di migliori condizioni di vita che nel momento in cui non è organizzata autonomamente, crea le condizioni e la possibilità per le borghesie locali di aspirare ad una differente divisione dei profitti nei confronti dei monopoli imperialisti (se non addirittura le costringe a farlo).

In linea generale quasi mai le borghesie locali, minate dalla divisione interna tra asserviti ai monopoli e fautori dello sviluppo autocentrato, tra borghesia compradora e borghesia nazionale vera e propria, riescono conseguire i loro obiettivi; ma questi tentativi, anche se fallimentari, sono quelli che aprono la strada ai percorsi rivoluzionari e di classe in grado di condurre la lotta di liberazione alla vittoria.

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