Se lo sguardo non va oltre il cortile
del quartiere popolare di Porta Nuova,
se la memoria s'arresta al cancello,
alle scale consunte, indugia sulla magra
erba dell'incerto giorno di marzo,
se le parole tacciono sospese nell'aria
del mattino, se i visi mi scrutano chiusi,
allora un'onda invincibile m'assale,
devo tenermi forte, salire le scale fra i volti
noti e sconosciuti, entrare nel corridoio
dei compagni muti, varcare la soglia.
Troppo tardi sono giunto, compagno,
troppo tardi per parlarti, per sentire la voce,
troppo tardi per vederti posare il libro,
conoscere il tuo passo incerto e chiaro,
vedere nella penombra il tuo sguardo lucente,
cercare una strada nelle tue parole.
Troppo tardi sono giunto, compagno,
per tessere con te il filo della storia
personale e collettiva dei vent'anni.
Oltre il vetro sei steso e qualcosa si
spezza,
qualcosa che non è rabbia e dolore,
ma di profondo, d'antico, d'ancestrale,
qualcosa che negli anni indietro mi trascina
ai primi lampi di coscienza nella classe,
alle prime rivolte, al rifiuto dei miti
piccolo-borghesi alla vigilia del settanta.
Troppo tardi sono giunto, compagno,
per darti la mano e dirti: sono qua
perché la mia storia è un pezzo, un piccolo pezzo
della tua, della nostra storia collettiva.
Anche tu, Egidio, sei stato disteso dietro
un vetro
(o forse no, forse il vetro non s'usava ancora
sulla bara), ma non t'ho visto, m'ero perso,
ed oggi è come se ti vedessi qui,
in questa casa operaia di Torino
degli anni novanta, e il tuo viso, Egidio,
si confonde, si sovrappone a questo,
uno diventa e poi muta, si divide
(tu non portavi la barba, Egidio, ed il naso
d'aquila dava al tuo viso il profilo del poeta).
Ma anche tu sei morto assassinato, bruciato
dai macellai del potere che è lo stesso.
E anche oggi, come ieri, troppo tardi son giunto.
Giungere tardi è il mio destino,
il mio vizio,
un gioco vacuo, un fatuo spettacolo insensato
che solo con la vita ho vinto,
con la lotta, con la scuola della classe.
Ma oggi, ecco, di nuovo giungo tardi
e qualcosa si spezza, qualcosa
che non è rabbia e dolore,
qualcosa che dall'odio si fa amore,
odio di classe, alto, risonante,
amore che nel cuore e nel cervello
si fa inarrestabile, struggente.
Chiedo che ne è oggi delle lotte,
delle vittorie, le sconfitte,
dei due passi avanti ed uno indietro,
dei caduti, dei compagni murati
nel cemento, delle maree della classe,
delle strade invase di bandiere,
delle esecuzioni dei carnefici,
delle fabbriche, delle case occupate,
delle notti dei fuochi, dei giorni brucianti
e i tuoi occhi socchiusi oltre il vetro
tacciono, ma la risposta è nei volti fermi,
nei gesti calmi, negli sguardi dei compagni
che sulle spalle levano il tuo corpo.
Nulla; nulla è perduto, compagno,
la memoria è un film che possiamo vedere
ad ogni istante, è in noi, e nessuno
può cancellarla ormai.
"Un comunista è morto, il
comunismo vive",
alziamo lo striscione nel mattino
del quartiere deserto (ma un vecchio operaio,
una donna, un ragazzo, si fermano,
un saluto fanno, stupiti).
Solo ora so che non son giunto tardi,
non tardi per dirti che gli assassini
della vita, i traditori, gli apostati,
inutilmente s'affannano ad oscurare la memoria,
che nessuno può impedirti di vivere con noi,
che nessuno cancellerà la tua storia che è la nostra.