NON TENIAMO PIU' LA BOCCA CHIUSARisposta dei compagni di Amburgo ad Hanna Cash e a tutti gli interesati E' giunto il momento in cui anche noi diciamo qualcosa a proposito di 'fuori all'aperto' e di tutte le scartoffie che sono state scritte in seguito. Non ci interessano molto le prospettive concrete che vengono formulate in scritti come 'fuori all'aperto'; ci interessa invece contrapporci ad una 'tendenza' nella sinistra, che, in pratica, afferma che ora tutto è nuovo e diverso, che ora bisogna procedere in modo nuovo e diverso, per raggiungere obiettivi nuovi e diversi. Nuovo e diverso a noi non basta. Soprattutto quando abbiamo la vaga impressione che si tratti sempre della solita zuppa acquosa in un piatto neppure lavato. Infatti Hanna Cash avrebbe potuto benissimo scrivere il suo documento già nel 1979; proprio nel '79 perché già allora c'erano sforzi simili: la campagna per l'amnistia, Roth e gli altri. La domanda che ci poniamo è: perché un simile documento può assumere oggi un tale significato? Questo è quello che ci interessa. Si tratta anche di una lettera che l''Infobüro per i prigionieri' di Amburgo ha inviato ai prigionieri della RAF. In questa lettera vengono poste questioni simili a quelle dello scritto di Hanna Cash. Non vogliamo gettare questi due documenti (e tutta una serie di altri documenti, come quello 'divinatorio' che è stato stampato da Interim) in un unico calderone. Ma in tutti ritroviamo una linea comune, che per noi è sbagliata, e che rende necessario prendere una posizione. Per noi il punto centrale è che chi ha scritto questi documenti non si sia posto il problema della propria responsabilità e del proprio coinvolgimento nella seguente questione: il capovolgimento dei rapporti di forza, la liberazione dallo sfruttamento e dall'oppressione capitalista, razzista e sessista. Invece si ricerca la responsabilità dell''insuccesso' e della 'debolezza' negli altri, nei prigionieri politici o nella RAF. Prendiamo in considerazione questi documenti, proprio perché in essi vediamo una 'tendenza' (il nome non è del tutto appropriato, perché è già qualcosa di manifesto), nella quale si esprime con fermezza la spoliticizzazione. Usiamo l'espressione 'tendenza' perché non si tratta di una corrente, ma di un fenomeno che gioca un certo ruolo in alcuni ambienti e dal quale emerge soprattutto l'impressione di non essere compresi: anticipando una nostra risposta dicono: "Ma non vedete proprio qual è la realtà? La sconfitta totale di tutti i nostri sforzi. Noi stessi siamo nella merda" Non ci interessa confrontarci sul contenuto di questi documenti perché in essi si tratta della teorizzazione della resa: chi scrive si definisce 'nuovo' nel suo rapporto con la lotta; è nostra intenzione definire il nostro rapporto con loro e di conseguenza anche chi siamo. "Noi non possiamo fare così e non lo faremo": scrive Hanna Cash - secondo noi altri scrivono - diciamo 'secondo noi' perché non ci muoviamo su un livello di 'aver ragione'. Vogliamo esprimere il nostro punto di vista sulla situazione. Per questo è anche necessario essere molto chiari. Per noi è chiaro che le cose così non possono continuare: non possiamo comportarci come se esistessero maggiori punti in comune. Non possiamo comportarci come se esistessero maggiori punti in comune. Quello che ci colpisce con maggior durezza e chiarezza in documenti come quello di Hanna Cash è la negazione delle responsabilità individuali per l'intero processo; è semplicemente - nell'accezione peggiore del termine - soggettivista e apolitico dare costantemente ad altri la responsabilità per qualcosa: alla RAF per le condizioni di detenzione, ai prigionieri per le proprie valutazioni sbagliate, senza porsi a monte il problema del proprio comportamento. Con il termine 'soggettivista' intendiamo: porsi al centro di tutto, senza alcuna riflessione sulle condizioni esterne, sulla situazione oggettiva. Hanna Cash si pone in una dimensione politica senza utilizzare neppure una volta il termine 'rapporto di forza'; ed invece si ricercano, e si trovano, solamente l'attribuzione della responsabilità per le condizioni di detenzione dei prigionieri alla RAF. E tutto questo perché anche Hanna Cash vuole che la RAF cessi (di esistere): questo è il suo unico argomento per il nesso causale da lei descritto. La lettera degli Infobüro poi completa questo modo di porsi: la lettera è stracolma di rimproveri, di politico non afferma nulla. Definisce una manifestazione nel febbraio 1988 come una 'sconfitta'. A prescindere dalla considerazione che già nel 1988 si stava delineando una sconfitta ben diversa - quella del sistema socialista e dei movimenti di liberazione nazionali, come 'loro' avevano deciso alla fine della seconda guerra mondiale imperialista e che probabilmente avranno maggiori effetti sulla storia mondiale, che non questa manifestazione -, si cela dietro di essa un'estrema astoricità che secondo noi è una delle cause, per cui un documento come 'fuori all'aperto' riesce ad avere una simile importanza. Si fa come se la storia del movimento rivoluzionario iniziasse con la sua prima manifestazione e la sconfitta del movimento rivoluzionario si perfezionasse quando uno/a non ha più voglia di combattere. Si fa come se la storia del movimento rivoluzionario iniziasse con la sua prima manifestazione e la sconfitta del movimento rivoluzionario si perfezionasse quando uno/a non ha più voglia di combattere. A questo si aggiunge un estremo disprezzo per le masse quando la mobilitazione contro il FMI dell'88, alla quale solo a Berlino hanno partecipato più di 80.000 persone, viene catalogata ugualmente come sconfitta solo perché alcuni antimperialisti si sono allontanati dalla città per motivi di sicurezza. Questo fa già capire che le masse non c'è trovano spazio nel 'concetto' politico ad es. dei compagni degli 'Infobüro'. Queste distorsioni soggettivistiche trovano spazio solo dove il concetto di soggettività non ne ha alcuno. Su questo punto una citazione da una lettera di Sigurd Debus del 1980 che colpisce nel segno e che stupisce per la sua attualità:
Questo modo di procedere, che Sigurd critica, ha la sua base negli errori degli ultimi decenni. Ogni inizio veniva svenduto come rottura con la rivoluzione, senza vedere che la lotta sarebbe stata molto lunga, che poteva essere anche spiacevole, che portava a qualcosa solo se nella nostra lotta creiamo contemporaneamente le condizioni per una continuità in quanto cerchiamo, per quanto possibile, di realizzare il nostro obiettivo già nel movimento. La lotta è confronto, sostenerla richiede uno sforzo che si può produrre solo con l'organizzazione collettiva. Tutto il problema del confronto con quelli che adesso si dissociano consiste nel fatto che da un lato erano e sono gli errori di tutti, che hanno portato a questo: la nostra incapacità di organizzarci in modo tale che il confronto non porti più alla resa; e dall'altro il fatto che quelli che adesso non vogliono più confrontarsi, oppure che fanno come se non ci fossero delle divergenze, sono dei partiti: obiettivamente sono parte dei rapporti di forza in questo Stato e a livello internazionale e, quale loro parte integrante, Hanna Cash sta ad es. dall'altra parte. Comprendere questa dialettica è difficile anche per noi. Dobbiamo imparare, tutti quelli ai quali interessa la continuità e lo sviluppo devono farlo. Per noi è chiaro: questa strada della capitolazione, della terza via, del sogno di vincere senza lottare, non è la nostra. Si tratta anche di non accettare più l'eterno postulato della debolezza, "perché siamo deboli" è la domanda sbagliata: ripetuta meccanicamente all'infinito è la giustificazione per restare deboli; e questo dipende molto dal fatto di aver perso di vista il proprio obiettivo. Noi pensiamo che abbia a che fare con il perdere di vista il senso della realtà tra tutte le teorizzazioni e la scena di movimento. Chi prende il movimento per l'unica realtà può anche smettere di lottare. In questo modo si sviluppa la mancanza di pratica all'interno del ghetto del movimento. L'illusione che qualcosa possa cambiare entro breve termine, l'interesse solo per sé stessi e l'ignoranza di una realtà complessiva, fanno sembrare a priori ogni pratica senza speranze, rendono impossibile trovare punti di partenza. Questa disperazione si risolve poi sempre nello scaricare la responsabilità per i cambiamenti materiali delle condizioni oggettive, dalle condizioni di detenzione dei prigionieri fino al rovesciamento dei rapporti di forza momentanei. Per questo alla fine ogni iniziativa, ogni tentativo di pratica continua, sembrano senza senso. Ma dipende anche dal fatto di non voler più, di non credere più, di aver trovato una strada per sopravvivere nelle metropoli. E questo è nuovamente un privilegio molto bianco. La domanda giusta è: come andiamo avanti? E vi rientrano tutte le esperienze di tutte le lotte, vi rientra il fatto di voler vedere la realtà: una realtà che è contraddistinta dalla pretesa di potere assoluto su ogni singolo, soprattutto sulle donne con le tecnologie genetiche e della riproduzione, dal tentativo di non contribuire più allo sfruttamento, all'arricchimento con la droga, nelle strade. Una realtà che è caratterizzata dallo stato di guerra nelle periferie europee, nella RFT-Est non ancora tanto come in Francia, Spagna, Belgio - da aggressioni razziste degli Stati e dei fascisti, e nel complesso dall'aumento della forza cieca e insensata che scaturisce dalla mancanza di prospettive e dall'incapacità di questo sistema di trovare soluzioni umane. Questo è un lato della medaglia. L'altro: l'alta capacità di integrazione del sistema delle metropoli che raggiunge non solo l'apparente beneficiario di questo sistema, ad es. il processo di yuppificazione, ma anche coloro che sono altrettanto nella merda, ma il cui scopo rimane sempre il colorato mondo della merce. Chi non vuole vedere cosa significa la miseria sociale, non ha neppure bisogno di vederla. Chi non vuole vedere cosa significa la miseria sociale, non ha neppure bisogno di vederla. In questo contesto sono ricomprese per noi la RAF, Rote Zora, le Cellule Rivoluzionarie e altri gruppi armati o militanti. Non ci interessa gettare in un calderone unico i diversi percorsi di questi gruppi. Attualmente però viene posta continuamente la domanda se la militanza oppure la lotta armata siano forme 'opportune'. Consideriamo questa discussione, rispetto a quella che è la nostra realtà, assurda. Qui parliamo soprattutto della RAF perché ad es. in 'fuori all'aperto' o nel documento di Interim la critica alla RAF prende molto spazio, anche se non sta a noi interpretare o commentare la politica della RAF: la RAF fa parte da 20 anni della realtà sociale e politica. Questo è un dato di fatto e la pratica della RAF parla da sola. Adesso ci concentriamo su certi aspetti per mettere in rilievo il fatto che non sono solo le fasce militanti del movimento - come anche del resto noi stessi - ad essere responsabili per il processo rivoluzionario. Ovviamente si tratta di comprendere la dialettica che ci ha portato a questa situazione e se in questo una critica alla guerriglia è troppo limitata, ciò dipende dal carattere di questo scritto, che al momento può essere solo impreciso. D'altro lato dipende dal fatto che ci manca - e questo vale anche ad es. per la RAF - un'analisi attuale esaustiva. Se adesso ci esprimiamo sull'importanza della lotta armata, lo facciamo per due motivi. Uno consiste semplicemente nella volontà e nella necessità di confrontarci con le questioni di strategia rivoluzionaria e con tutti coloro che la mettono in pratica. Che noi lo facciamo qui ed ora, dove esprimendo pubblicamente quello che pensiamo ci possiamo facilmente cacciare nei guai con lo Stato, cosa che i protagonisti della fine degli scontri antagonisti al contrario non hanno bisogno di temere, ha piuttosto un secondo significato. Ci vediamo quasi costretti, perché l'evidente regressione della sinistra ha spalancato le porte alla 'tendenza' di cui parlavamo prima. La messa in discussione di capisaldi per i quali un tempo la sinistra stessa aveva combattuto e vinto ha portato oggi ad una coscienza astorica e all'uso di concetti morali borghesi con i quali viene giudicato il valore di una pratica rivoluzionaria. Ad esempio oggi si dichiara fallita la politica della RAF perché oggi è meno radicata rispetto al passato nel movimento. Così il fatto che la RAF e altri rami della lotta armata nelle metropoli siano nati quale conseguenza di un'ampia discussione, riduce l'attuale debolezza della sinistra ad un peccato di gioventù che è stato perdonato una volta raggiunta una matura consapevolezza metropolitana. Per noi la circostanza che agli inizi degli anni '70 il dibattito sui cambiamenti rivoluzionari fosse maggiormente radicato è motivo per chiederci quali siano gli elementi essenziali e quali le procedure che sono mancati allora e che dobbiamo sviluppare oggi. All'epoca rivestire una posizione rivoluzionaria significò partecipare fin dall'inizio ad una lotta comune con i movimenti di liberazione nel Tricontinente. Si trattava del principio di sviluppare un'unità strategica nella lotta internazionale di classe, ciò ha significato ad es. espandere ed attualizzare i vecchi stretti concetti di lotta di classe nazionale in rapporto all'internazionalizzazione della classe dominante. Si trattava di ridefinire una politica comunista nei centri imperialisti e sviluppare una pratica che fosse adeguata alla realtà metropolitana attuale. Questo non significa soltanto, rispetto all'occultamento strutturale dei contrasti di classe, trovare una posizione proletaria. Il progetto della sinistra era di ricostruire una consapevolezza proletaria in sé stessa e in tutti coloro che vi erano interessati, contro l'adattamento, l'integrazione e la corruzione della classe obbiettivamente bassa. Ciò che all'epoca era chiamata 'ricostruzione della classe' era un concetto strategico, che qui possiamo solo introdurre. Si era partiti dall'analisi che la RFT non è altro che lo stato successore, depurato delle sue componenti disfunzionali, ad es. il terrore del regime nazista non era più utilizzabile, perché a parte i pochi che erano sopravvissuti ai campi di concentramento o all'esilio e che vivevano all'epoca principalmente nella RDT, quelli che avrebbero potuto assicurare la sopravvivenza dell'organizzazione comunista, della sua cultura, delle sue lotte, vennero annientati fisicamente. Allo stesso modo, fino ad oggi, il regime USA non ha consentito alla classe dei lavoratori di sviluppare come soggetto politico una ricostituzione delle lotte proletarie. Ma c'era ancora molto da riconquistare: e cioè una politica realmente radicale, che si sbarazzasse dell'eredità della politica della Terza Internazionale. Fino alla nascita del movimento studentesco la politica comunista era stata caratterizzata da determinate direttive: con la liberazione della Russia e la fondazione dell'Unione Sovietica (che inizialmente era stata pensata come la prima di una serie di rivoluzioni europee), la politica della maggior parte dei partiti comunisti era indirizzata alla difesa dell'Unione Sovietica e questo ha comportato il fatto che è stata sminuita l'importanza del processo rivoluzionario nel proprio Stato, e le direttive politiche provenivano direttamente dal partito comunista dell'Unione Sovietica. Questo ha determinato la struttura gerarchica e il rimandare i cambiamenti rivoluzionari al momento della rivolta, che era ancora molto lontano. Per il momento si trattava di raccogliere forze, uomini e materiali. Con questa descrizione non vogliamo rivangare la vecchia discussione sulle necessità storiche: non ci interessa la questione se la centralizzazione totale all'epoca della lotta contro il fascismo tedesco potesse, al limite, essere giusta, bensì le conseguenze di queste esperienze storiche. Era però chiaro (e lo è tuttora), che queste e altre espressioni della revisione delle basi rivoluzionarie non hanno dato spazio alle nuove forze radicali e questo ha portato al disorientamento e a gravi errori (qui ad es. è appropriato il termine sconfitta rispetto all'errore di valutazioni del Partito Comunista Tedesco del 1933). La rottura con questa deformazione della politica comunista che per difendere la volontà dell'Unione Sovietica e degli altri Stati socialisti, trascurava la rivoluzione nel proprio paese, ha significato coerentemente la rottura con il sistema. Non come qualcosa di eccezionale, bensì come una vita materialmente diversa. Significava l'anticipazione della meta, l'organizzazione collettiva, la riappropriazione della ricchezza, la costruzione di una struttura offensiva strategica. Una conseguenza di questa consapevolezza è stata la nascita di gruppi di combattenti armati, come la RAF. E se anche le astrazioni sono oggi poco comuni, ciononostante oggi possediamo, per così dire, venti anni di storia di questo tentativo di 'ricostruzione della classe', e questo lo dobbiamo a coloro che da allora non hanno mai abbandonato il cammino intrapreso e che si sono posti con elasticità in tutti questi anni di cambiamenti senza opportunismi contro la tendenza comune. La RAF è fra questi e poiché ha continuato come collettivo, per noi è importante quale portatrice di questa continuità. Per questo è giusto chiedersi quanto fosse socializzato e radicato il concetto della realtà metropolitana e i suoi effetti profondi e deformanti nella discussione agli inizi degli anni '70, perché già allora in pochi hanno deciso di agire coerentemente. D'altro lato ce lo domandiamo anche rispetto alla scelta di non schierarsi coerentemente contro l'imperialismo, che la sinistra si porta dietro ancora oggi. E' una questione di determinazione dell'obiettivo, che il movimento rivoluzionario si è posto dopo il '68, che dal punto di vista storico già da tempo non è che un concetto, perché quasi nessuno è rimasto fedele ai principi di allora ed ha cercato di affermare una pratica costruttiva contro la durezza dello scontro con il sistema. Per questo le decisioni individuali di molti (secondo le loro frustranti esperienze di gruppi comunisti, passaggi istituzionali, briciole riformiste, ricerca di un''identità' di movimento) di ritornare alle multiformi possibilità di espressione della realtà metropolitana, hanno conseguenze per tutti noi, conseguenze collettive. Non si è trattato solamente del tradimento di coloro che, dopo il '77, avevano solo il nome di 'sinistra garantista', bensì anche della non credibilità ereditata, contro la quale doveva affermarsi il movimento agli inizi degli anni '80. Il movimento per lo più non si è occupato dei vecchi scazzi, bensì ha rappresentato direttamente un punto di partenza per cambiamenti sociali e si è cercato da solo le proprie alleanze che condividessero interessi comuni. In questo processo era presente anche la RAF; la campagna contro la NATO ha poi sviluppato la base per un'unità strategica, che entro i propri confini - nella particolare costellazione internazionale della metà degli anni '80 - ha dato l'avvio ad importanti attacchi contro la ristrutturazione (europea). E' doveroso spiegare che i processi garantisti e i quasi100 anni di carcere ai nostri compagni antagonisti, erano la dura reazione dello Stato ad uno sviluppo che stava diventando pericoloso, del 'nemico interno' - e non, come oggi viene smerciato troppo semplicisticamente in certi ambienti, la risposta troppo dura ad un tentativo da non prendere sul serio. Questo principio di unità strategica non ha creato per il momento che una specie di cornice, che già da alcuni anni non viene più riempita, né sviluppata. A questo riguardo ci risparmiamo un confronto esaustivo sui motivi, ad es. una critica del soggettivismo: in questo documento si tratta principalmente di chiarire chi può condividere le nostre stesse discriminanti in questo confronto. 20 anni di lotta armata hanno caratterizzato nella RFT lo sviluppo dei rapporti di forza. Per noi è ovvio, che la politica della RAF e degli altri gruppi, i loro interventi, abbiano aperto molti spazi anche per il movimento antagonista. E continuerà ad aprirne, con la sua continuità. Per molti la RAF è stata - nel corso della mobilitazione contro le centrali nucleari, i neonazisti, l'espulsione dai quartieri, la Nato, i censimenti ecc. - una componente combattente, come altri gruppi, con la quale non c'erano soggettivamente molti punti di contatto. Ma per molti essa è stata, ed è, con la funzione che ha svolto, e nelle sue prospettive politiche, una importante componente nella riflessione su come qui da noi si può costruire una forza antagonista e come possano essere realizzati dei progetti concreti. Se prendiamo coscienza del potere del sistema - e a chi possono essere sfuggite le dimostrazioni di forza degli ultimi anni! - ci dobbiamo chiedere quali misure siano necessarie per opporsi in modo adeguato al potere statale. Tutti coloro che hanno combattuto e combattono nei diversi movimenti antagonisti esistenti, si rendono ben presto conto dei limiti della loro lotta settoriale. Molti accettano questa situazione e cercano di mantenere una posizione coerente, esprimendo con sempre nuovi attacchi concreti la propria opposizione. Il successo di questo livello settoriale di lotta contro le espressioni del sistema è escluso. La prospettiva della 'lotta comune' è di creare concretamente cambiamenti materiali duraturi, di aprire spazi per la costruzione di un'organizzazione della società a dimensione umana, e cioè senza 'pause tattiche', capitolazioni temporanee; combattere fino a quando il capitalismo sarà sconfitto in tutto il mondo, fino a quando non ci sarà più uno sfruttamento capitalistico, sessista, razzista. Questo significa partire dalla considerazione che la liberazione è un processo materiale che comporta la liberazione dalla fame, dalla mancanza di casa, dalla costrizione all'immigrazione, dall'oppressione, dallo sfruttamento, dall'alienazione, dalla droga e che si conclude quando nessuno vi è più sottoposto. Non vogliamo e non possiamo ignorare la RAF e gli altri gruppi armati nel processo storico Non vogliamo e non possiamo ignorare la RAF e gli altri gruppi armati nel processo storico e non riusciamo neppure ad immaginarci come si sarebbe sviluppata la lotta per la casa, le azioni antimperialiste, persino la nascita degli Infobüro, senza la RAF. A prescindere dal fatto che sarebbe un'esposizione arbitraria della storia, non ci verrebbe mai in mente di ritenere la RAF responsabile per le disastrate condizioni della sinistra o del movimento antagonista. Da un lato perché la consideriamo come una componente omogenea nella lotta per obiettivi comuni, che ha e svolge compiti diversi dal movimento antagonista. Del resto non le chiediamo una risposta a tutte le nostre domande, perché noi stessi ci consideriamo parte integrante del movimento e questo è qualcosa in più che prendere semplicemente posizione sul rapporto con la lotta armata. L'esistenza della lotta armata nelle metropoli lascia ancora aperta l'opzione della liberazione. Ha anticipato fin dall'inizio nella politica la questione del potere, ciò significa che in ogni azione si esprime il contropotere contro l'assassinio organizzato e l'annientamento ad opera dell'imperialismo. Questo significa speranza di liberazione per coloro che non vogliono continuare a vegetare, che inaspriscono il 'contrasto tra non poter vivere e non voler vivere' strategicamente e concretamente sulla conquista del potere dal basso, ma anche per coloro che per i più svariati motivi non si riescono ad immaginare di poter essere loro stessi parte attiva di questo sviluppo. Se rendiamo giustizia al compito che ci siamo posti, è una domanda all'intero movimento rivoluzionario e ad ogni singolo, perché si tratta di decisioni prettamente esistenziali e che riguardano in che modo uno vuole vivere e combattere e quali obiettivi si pone. Questa domanda se la pone ognuno; noi dobbiamo cercare la risposta al sistema che disprezza gli uomini e la natura, indicando la soluzione: organizzazione collettiva con l'obiettivo di una società organizzata collettivamente, liberazione dalle costrizioni e dalla condizione di oggetti nel sistema, ora e per tutti, con l'obiettivo di riconquistare la piena capacità e responsabilità di ogni uomo per la vita sociale e la natura. La speranza di liberazione deve avere una consistenza concreta:.se questa pretesa non è altro che retorica, allora noi stessi contribuiamo a seppellire questa speranza. Oggi regna il repertorio della politica dell'azione miope e pertanto inefficace, vita ritirata, visioni riformiste ecc. Tutto questo è già risultato di rassegnazione e produrrà ulteriore rassegnazione e darà in questo modo spazio ai mutamenti sociali utili all'imperialismo. Se non interveniamo in questo processo e non ci uniamo a tutti quelli che hanno il coraggio di imparare dalla storia delle evoluzioni sbagliate del cosiddetto socialismo reale, dei movimenti di liberazione e dell'antagonismo, per riprendere ed attualizzare gli spunti giusti; se ci vogliamo liberare, dobbiamo partire dalla realtà imperialista complessiva. La pretesa di dominio totalitario del nuovo 'ordine mondiale' struttura ovunque nel mondo la nuova ed unitaria oppressione e determina così oggettivamente le condizioni di lotta a livello internazionale. Se ci siamo soffermati un po' troppo a lungo sulla questione della lotta armata è perché è un punto focale che appare in scritti come 'fuori all'aperto'. Ma c'è dell'altro: viene messa in discussione non solo la lotta armata, ma in definitiva ogni lotta nella quale chi combatte mette in discussione tutti i rapporti imposti viene messa in discussione non solo la lotta armata, ma in definitiva ogni lotta nella quale chi combatte mette in discussione tutti i rapporti imposti e cerca di mutarli. Ogni lotta perché questa ricorda spiacevolmente la realtà a coloro che scrivono simili documenti. Proprio questo è stato evidenziato anche nella guerra del Golfo ed è una realtà; si è evidenziato come il razzismo sia un punto centrale per i padroni, per giustificare le loro pretese di potere sul mondo; la suddivisione in uomo e 'sottouomo' è centrale come giustificazione e base per lo sfruttamento e l'oppressione. Secondo noi questo concetto era già implicito nella guerra del Golfo. Anche a coloro che pure hanno caldeggiato la guerra si è trasmessa l'impressione che si trattasse dei privilegi dei padroni bianchi, che si potesse rispondere con il genocidio ad ogni minaccia al benessere materiale delle metropoli. E come per l'esterno, nell'internazionalizzazione della pretesa di dominio su tutto il mondo, è accaduto anche all'interno: se ora i profughi nell'ex RDT sono selvaggina libera, se i profughi dell'Est adesso ricevono soldi di plastica, se in mezzo anno c'è un morto e parecchi antifascisti feriti gravemente, se degli sbandati si buttano senza un motivo sotto la metropolitana e muoiono, se migliaia di persone nel centro di una metropoli non possono neppure aspettarsi un livello minimo di benessere, anzi sono senza casa ... il razzismo quotidiano, qui da noi soprattutto contro i Turchi, diventa ogni giorno più forte. Vengono criminalizzati tutti coloro che tentano di organizzare una difesa. A livello europeo questo si evidenzia in Francia, Belgio e Gran Bretagna. La difesa degli oppressi diventa acquista spessore, non si accetta più l'annoso sfruttamento coloniale. E' soprattutto il caso dei giovani che non vogliono vivere umiliati come i loro genitori. Non esiste quindi solo la repressione dei poveri e di quelli che si ribellano, che non accettano più umiliazioni, nè nel Tricontinente nè qui, e questo è ad esempio evidente nell'omicidio degli arabi ('beur' nel testo è il termine dispregiativo per gli arabi) da parte degli sbirri. La reazione a questo terrore è spesso ancora indeterminata e poco organizzata, in parte si orienta ancora nella lotta per la partecipazione, non è ancora lo sviluppo di proprie istanze, di come potremmo organizzare insieme la nostra vita, senza la violenza dell'oppressione sessista e razzista, ma invece proprio di questo si tratta! Tra le esperienze della guerra del Golfo bisogna ricomprendere anche il comportamento della cosiddetta sinistra. Molti hanno capito quanto estesa sia l'identificazione con il sistema, che per noi vuol dire: cercarsi la propria nicchia, accapparrarsela una volta per tutte, la nostalgia di 'combattere', senza repressione, in uno Stato come il nostro. Accaparrare significa avvicinarsi solo ai sintomi e non vedere più il contesto complessivo; anche non voler vedere quello che si è già visto, perché ciò implicherebbe domande sulla propria realtà. Semplicemente non possiamo 'uscire' dalla realtà della società, non serve chiamarsi fuori nella speranza di cambiare così la realtà della propria vita. Per noi si tratta di agire, di vedere le nostre vite e le nostre lotte costantemente in interazione con questa società, innanzitutto perché non ce ne possiamo andare, e poi perché si tratta di un sovvertimento fondamentale - rivoluzione! - Qui si esprime anche il nostro concetto di imperialismo, vicini a tutti coloro nel mondo che combattono, dal confronto con essi abbiamo imparato che si tratta di crearsi una nuova realtà sociale - ma appunto solo nella lotta - non nel darle l'addio nella speranza che 'se tengo chiusi gli occhi non vedo niente e nessuno mi vede'. Internazionalismo significa per noi combattere nella consapevolezza che ovunque si combatte, anche noi, in ogni situazione, quindi anche in galera. Ovunque i militanti vengono imprigionati per gli identici motivi. Il tentativo di isolare, di dividere, di reprimere la comunicazione, che significa soprattutto evitare lo scambio di esperienze, un punto vitale per la nostra lotta, fallisce se i prigionieri vengono considerati una componente della lotta rivoluzionaria, come parte di noi, e se la nostra vicinanza a loro è parte della nostra realtà sociale e politica, per la quale noi combattiamo insieme. Questa è stata concretamente la nostra esperienza durante lo sciopero della fame dei prigionieri del GRAPO e del PCE/r in Spagna: abbiamo cercato, a partire da un semplice rapporto con i prigionieri, di diventare forza propulsiva per il raggruppamento, e dalle nostre esperienze su come si sviluppa la standardizzazione politica ad esempio sulla questione degli immigrati (Schengen), abbiamo compreso le conseguenze della lotta dei compagni spagnoli anche rispetto alla nostra situazione. All'epoca avevamo affermato che non si può accettare che antifascisti ed internazionalisti come noi vengano torturati ed assassinati perché vogliono il raggruppamento. Quello che abbiamo capito in nove mesi di iniziative sullo sciopero della fame sono stati innanzitutto i nostri limiti: che è molto facile rilassarsi su una linea, cioè perdere di vista nelle azioni l'obiettivo immediato e il suo raggiungimento e non vedere altro che l'azione. Questa è anche un modo di adattarsi e di crearsi una propria nicchia, che ha origine nelle più svariate decisioni che ognuno prende per sé stesso; e questo porta ad esempio ad esaurire tutte le forze nell'organizzazione di azioni e a non impiegarle per la determinazione di contenuti. L'altro punto è stato il momento in cui l'azione si è resa indipendente, nel senso di aver rimosso quella che era la nostra realtà a favore dell'obiettivo del raggruppamento. Per questo ci siamo scostati dal cammino che avevamo intrapreso all'inizio. Ad un certo momento non abbiamo più visto i nessi concreti: non ci siamo resi conto che il raggruppamento dei prigionieri spagnoli potesse essere per noi occasione di unirci e di cambiare qualcosa semplicemente sulla base del rapporto con questa lotta e con i suoi combattenti. L'altro lato, per così dire una componente della situazione oggettiva, è stato fin dall'inizio qui ad Amburgo, il dibattito circa il senso e il nonsenso dello sciopero della fame. Già mentre noi cominciavamo a muoverci molti pensavano che fosse meglio che i prigionieri interrompessero lo sciopero della fame. Subito dopo l'omicidio del compagno Sevillano, questo comportamento ci è sembrato incomprensibile. Nel vero e proprio senso del termine, non abbiamo creduto che questa gente facesse sul serio. In pratica è successo che le nostre iniziative ci hanno isolati - e ciò non a causa della repressione, ma perché noi avevamo fatto qualcosa perché noi ci eravamo mossi. Ciò che noi pensavamo di socializzare con altri nell'affermazione del raggruppamento è stato capovolto dalla situazione: che noi avessimo fatto qualcosa è diventato elemento di divisione e questo non a causa, ma nonostante i nostri errori. L'esperienza però, di aver avvertito i propri limiti, e di cambiare qualcosa, la vicinanza ai prigionieri spagnoli, l'internazionalismo pratico, il confronto diretto con i compagni è stato uno dei motivi per andare avanti e per cambiare. Pensiamo che questa sia l'esperienza di molti che hanno organizzato in Spagna iniziative pratiche in appoggio allo sciopero della fame - internazionalismo non solo come slogan, ma come esperienza concreta di vicinanza e di lotta comune. Per questo noi non parliamo di sconfitta dello sciopero della fame, perché ha creato il terreno per l'internazionalizzazione della lotta per il raggruppamento dei prigionieri politici in Europa occidentale. Lo sciopero della fame dei prigionieri di AD in Francia è influenzato direttamente dalle esperienze dello sciopero della fame in Spagna, perché è impostato in modo che i prigionieri si impegnino in uno scontro ad oltranza, e in questo vediamo qualcosa di nuovo. I nostri dibattiti dell'ultimo periodo erano soprattutto tesi a capire i processi sociali in Europa occidentale - si è trattato di dibattiti sul razzismo e su quanto siamo vicini ad un fascismo palese, dato che i padrono non riescono più a controllare i processi politici e sociali. Reagiscono apertamente contro ogni minimo movimento, cercano di togliere ad ognuno che si difende il punto di riferimento politico e di isolarlo. E' nostro compito non permetterlo e intervenire. Le richieste dei prigionieri politici di raggruppamento in grandi gruppi, di libertà di comunicazione politica, di scarcerazione degli incapaci di sopportare la detenzione, fanno parte per noi dei progetti politici essenziali. Proprio in documenti come 'fuori all'aperto' la questione delle condizioni di detenzione viene fatta dipendere dalla resa della RAF: per noi esiste sì un nesso simile tra le condizioni dei nostri compagni prigionieri e la politica fuori, ma proprio al contrario, nel senso che solo la continuità dell'intero movimento rivoluzionario può creare la prospettiva di liberare i nostri compagni prigionieri. Non la resa, ma la continuazione, il diventare più forti, il che significa imparare dagli errori, rende concreta questa prospettiva. Non la resa, ma la continuazione, il diventare più forti, il che significa imparare dagli errori, rende concreta questa prospettiva. Per questo vogliamo e abbiamo bisogno della discussione con tutti coloro per i quali le richieste dei prigionieri (raggruppamento, discussione, passaggio alla libertà) ha a che fare con quello che essi stessi vogliono; perciò con tutti coloro che credono ancora seriamente in un cambiamento della società. Per questo vogliamo un dibattito con la RAF e con tutti coloro che non si dissociano. Di questa discussione, di come noi stimoliamo il processo rivoluzionario, di come costruiamo l'antagonismo, vogliono e devono essere parte i prigionieri. Condizione di questo è il raggruppamento. Il dibattito politico come concetto, questo però non significa chiacchierare a ruota libera, ma combattere innanzitutto per condizioni materiali, che consentano il raggruppamento, la liberazione degli incapaci di sopportare la detenzione, e anche diventare una forza, potersi opporre alla criminalizzazione che ora più che mai può colpire chiunque ad esempio dica che la RAF è parte del movimento rivoluzionario e di volere che sia parte del dibattito. Dibattito politico significa per noi anche avvicinarsi ad un obiettivo e non solo discutere di tutto. Il dibattito politico è in ultima analisi la meta di uno scontro unitario per la riappropriazione del senso della vita - e la consapevolezza di ciò nasce dalle lotte. Affermare che deve essere ovvio, quando si combatte per mutamenti radicali, discuterne con tutti gli altri e rompere la logica della criminalizzazione che riduce lo scontro sociale ad uno scontro tra due poli: lo Stato e il movimento rivoluzionario. Questo passaggio sarebbe per noi centrale nella lotta per la libertà dei prigionieri politici e sarebbe al contempo un passaggio per la nostra libertà. Un altro aspetto è esigerlo ed attuarlo in pratica, questo documento vuole essere un passo, anche se goffo, in questa direzione, formulare parzialmente una prospettiva, come noi cerchiamo di viverla e di tradurla in iniziative pratiche. Questo però significa anche che non siamo più disposti a sedere allo stesso tavolo di Hanna Cash e dei suoi compari e fingere di preoccuparci tutti dei prigionieri. Noi non ci preoccupiamo dei prigionieri in quanto prigionieri - ma di uomini, di compagni che vengono torturati nelle galere e che ci servono invece qui. Noi troviamo legittima ogni diversa relazione con loro, ma non quando contemporaneamente viene denunciata la condotta politica per la quale i prigionieri vengono criminalizzati. Per questo non ci interessa mantenere nell'ambito privato questi scritti ed impedire che si diffondano momentaneamente nel mercato ideologico della sinistra. Molti possono aver individualizzato la discussione, perché temevano che avremmo potuto essere troppo deboli per dare al confronto pubblico una direzione costruttiva. Ma noi abbiamo fiducia nella nostra forza e nelle nostre esperienze e non vediamo alcun motivo per ripetere continuamente vecchi errori. Questo è il nostro 'contributo"'al dibattito politico imposto.
compagni/e di Amburgo (vecchi e nuovi) |