INTIFADA: SUL PROBLEMA DELLO SVILUPPO ECONOMICOIntervista al Centro di ricerca e sviluppo "Bisan" - Ramallah - Cisgiordania Qual'è il progetto del Centro Bisan? Il Centro Bisan ha iniziato le sue attività nel 1990. Il Centro si prefigge di studiare: l) La strategia economica palestinese; 2) La condizione femminile; 3) La storia popolare. Per quanto riguarda la strategia e lo sviluppo economico esistono varie correnti di pensiero; ciò che è importante è capire come bisogna resistere economicamente alla repressione israeliana e quali strutture devono essere costruite. Dall'inizio dell'Intifada si parla della costruzione delle strutture economiche del nuovo stato. Il punto di partenza è dato dal fatto che le masse, sebbene abbiano costruito l'Intifada, hanno perso capacità economica a causa dei licenziamenti a tappeto e dei danni all'agricoltura; e al contrario è cresciuta l'economia privata. Un esempio di ciò è rappresentato dal fatto che il boicottaggio dei prodotti israeliani ha, di fatto, favorito la borghesia palestinese e non le masse. Come si articola il vostro lavoro? Noi cerchiamo di studiare una struttura economica che sia a favore delle masse: in questa direzione va vista la costruzione di associazioni produttive di massa che sviluppino la cooperazione. Lo sviluppo per noi è un concetto sociale ed economico insieme che deve servire all'emancipazione delle masse. Nel nostro Centro lavorano intellettuali, accademici, associazioni di massa palestinesi. Elaboriamo progetti che contengono un'analisi microeconomica di queste associazioni, anche di quelle non economiche e che noi tendiamo a far sviluppare su base economica. Un altro progetto riguarda la critica all'economia dell'Intifada nei suoi aspetti del boicottaggio e dell'economia familiare. C'è una sezione che si occupa della condizione femminile, non solo del ruolo della donna nella lotta ma anche di questioni femministe più generali. Le associazioni di massa delle donne sono molto numerose e in queste associazioni ci sono sempre confronti tra le lavoratrici e le intellettuali. Abbiamo anche un altro progetto che riguarda le donne: lavoriamo in un campo profughi per costruire un Centro di sostegno psicologico per la donna e studiamo l'attuale situazione femminile per comprendere il ruolo della donna in questo momento. Altri progetti riguardano la storia popolare. Abbiamo stampato molti libri per bambini dove con molta semplicità vengono raccontate le storie popolari palestinesi. Un altro libro sugli eroi dell'Intifada (eroi contadini e proletari) verrà pubblicato tra poco. Qual'è la situazione economica del popolo palestinese che si è determinata nel periodo dell'Intifada? La repressione israeliana, in quest'ultima fase, mira all'espulsione dei palestinesi dai territori occupati. Queste le conseguenze economiche: esproprio del 70% dei territori in Cisgiordania e del 40% a Gaza; immigrazione di ebrei sovietici e falascià etiopi; in questo momento i coloni superano le 120.000 unità in Cisgiordania e 60.000 a Gaza; a Gerusalemme ci sono 170.000 coloni e 130.000 palestinesi in seguito ad una continua migrazione da questa città; il governo ha dato la totale disponibilità ai coloni della terra rubata ai palestinesi. In Cisgiordania non abbiamo neppure diritto all'acqua, con i danni che ne conseguono per l'agricoltura, dal momento che tutte le risorse naturali sono di proprietà dello stato d'Israele. Per quanto riguarda Gaza il progetto israeliano è diverso. Tutta la striscia dovrebbe diventare una zona industriale abitata esclusivamente da operai. Gli israeliani permettono l'apertura di nuove fabbriche palestinesi, ma controllano le ricchezze naturali. Un altro problema è che la disoccupazione è al 63%.: al momento 50.000 palestinesi dei territori del '48 hanno perso il lavoro perché i padroni israeliani danno i posti agli ebrei sovietici. A questi bisogna aggiungere i 22.000 palestinesi che sono tornati dal Kuwait dopo la guerra: questo numero arriverà in breve a 45.000. Alcuni settori come quello edile e turistico sono fermi dalla fine della guerra e impegnano pochissima manodopera. Le rimesse dal Golfo che prima della guerra arrivavano al 16% del PIL, ora si sono dimezzate e gli aiuti di tutti i paesi del Golfo sono fermi. Dopo la guerra è crollato il PIL: 17% in agricoltura, 17% nell'industria e 100% nel turismo. In questa situazione chi decide di prendere iniziative economiche ha di fronte una realtà molto dura; una legge recente vieta la vendita dei prodotti palestinesi dei territori del '67 in quelli del '48. I rapporti con la CEE sono boicottati dagli israeliani che hanno acconsentito a far commerciare solo i prodotti agricoli. Un altro esempio della stretta economica nella quale vive il popolo palestinese dei territori del '67 è costituito dal sistema fiscale: i palestinesi pagano più tasse degli israeliani; il minimo salariale degli israeliani è di 1.600 shekels, mentre per i palestinesi questo si riduce a 350 shekels. I 20.000 palestinesi di Cisgiordania che lavorano in Israele devono pagare 600 shekels per avere il "permesso" di recarsi nei territori del '48. La stima delle perdite economiche subite dopo la guerra si aggira attorno agli 800 milioni di dollari, cioè più di 1/3 del PIL. Gli aiuti CEE che ci sono stati concessi per alleviare questa situazione ammontano a 87.000.000 di dollari pagabili in 3 anni; inoltre questi aiuti ci sono stati dati a condizione che vengano spesi per servizi e sotto il controllo israeliano. La CEE ha dimostrato così di appoggiare Israele ed ecco anche perché le nostre richieste di sanzioni contro Israele non passano. A fronte di tutto questo quali sono le prospettive economiche del popolo palestinese? Oggi noi ci muoviamo per sviluppare l'autosufficienza economica basata su una economia popolare. Finora Ia sinistra palestinese non è riuscita, nonostante la natura di massa dell'Intifada che si esprime attraverso i comitati popolari, a costruire su questa base una struttura economica popolare. Inoltre la repressione israeliana ha costretto i comitati alla clandestinità, rendendo difficili i rapporti di massa che si erano costruiti. Ora vorremmo ribaltare la situazione rilanciando la natura popolare dell'Intifada: questo progetto lo chiamiamo "democratizzazione dell'Intifada". Facciamo un esempio: i contadini organizzano un comitato che cura i progetti su tutto il territorio; così si procede dal basso verso l'alto. Secondo questo nostro progetto i rappresentanti dei comitati agricoli e industriali si riuniscono in un Consiglio Generale con l'obiettivo di organizzare l'economia su tutto il territorio palestinese. L'utilità di questo sistema deriva dal fatto che questi comitati partecipano in prima persona al lavoro politico. Non ci interessa una democratizzazione alla cieca, una democratizzazione solo formale, ma soprattutto una democratizzazione sostanziale, economica. Questa è impedita non solo dalla struttura tradizionale della famiglia e del villaggio, ma soprattutto dalla destra palestinese, che rappresenta la borghesia e ne realizza l'economia privata. D'altro canto la sinistra palestinese, che subisce l'influenza negativa del "Nuovo Ordine mondiale", della caduta del blocco dell'EST e di ciò che accade nel mondo arabo, deve rilanciarsi rafforzata dall'Intifada e dalla sua base popolare. Pensiamo che esistano due strategie di sviluppo: 1) sviluppare la rivoluzione contro l'occupazione israeliana; 2) costruire le strategie economiche del futuro Stato. Su che tipo di modello di sviluppo state ragionando? Il modello di sviluppo che si può adattare alle nostre condizioni, si fonda sulle "Small Business Enterprise" a carattere popolare, diverse, quindi, dalle 3.000 attuali che sono a base privata. La borghesia palestinese è per un modello basato sulla dipendenza dall'esterno, ma noi siamo contrari in quanto questo modello ci spingerebbe ad essere ancora schiavi dell'imperialismo. Noi siamo per un modello indipendente che si fonda sull'autosufficienza. Il modello delle "small business enterprise" può svilupparsi in due direzioni: una di tipo capitalistico (padrone più dipendenti), una di tipo cooperativo in cui il surplus viene distribuito ugualmente tra i lavoratori. Attualmente prevale il primo modello, ma sta a noi sviluppare quello cooperativo anche se questo nostro progetto è difficilmente realizzabile finché durerà l'occupazione militare. Esiste la possibilità di un rapporto tra la classe operaia palestinese e quella israeliana? Per quanto riguarda il rapporto tra proletariato palestinese e israeliano, riteniamo che questo sia per ora impossibile in quanto ostacolato dalla questione nazionale. Infatti la stragrande maggioranza dei proletari israeliani appoggia la politica sionista dello stato d'Israele. |