Uno scritto di Michele Pontolillo dal carcere di Bologna
Tératos
Chissà perché mi ero convinto che alla fine di un sofferto pellegrinaggio
carcerario mi avrebbe atte-so un lungo periodo di meritato riposo e con ciò non
intendo il "dolce far niente" dei poeti ma più prosaicamente la possibilità di
condividere quello spazio sociale comune a milioni di esseri umani lantana da
galere, tribunali e questure.
Avrei dovuto quanto meno sospettare che qualcuno non avrebbe gradito vedermi
circolare libera-mente per le strade, respirare l'aria del mondo o farmi
riscaldare dal sole dei vivi. Perché, si sa, u-n'altra aria si respira in
carcere ed un altro sole declina sui prigionieri.
Avrei dovuto prevedere che la polizia politica ovvero quel settore della polizia
che si dedica alla persecuzione delle idee politiche – e di chi le professa –
contrarie ed opposte a quelle che governa-no, avrebbe impiegato tempo e risorse
per controllare e all'occorrenza rispedire in carcere una cana-glia come me.
Ignorare la loro presenza è sempre stato il mio modo di manifestare il disprezzo
che si guadagnano giorno per giorno.
Con la distanza e il distacco della realtà che l'isolamento può favorire ho
cercato di ricostruire i fatti che si sono conclusi con la mia attuale
carcerazione, di collegare tutti gli elementi che appaiono prima facie
disconnessi e in definitiva di acquisire una visione completa e generale
dell'accaduto per avere a disposizione un oggetto facilmente riconoscibile e
osservabile teoreticamente.
Senza avere la pretesa di seguire un rigoroso ordine riflessivo la prima
considerazione su cui ragio-nare deriva dalla perfetta convergenza,
unilateralità e univocità di attuazione della polizia, magistra-tura e mezzi di
formazione del consenso e dell'indifferenza di massa,
Quando un vicecommissario della DIGOS, emule del reprobo Joe Petrosino, il più
sbirro degli sbirri che la storia ricordi, stringeva intorno ai miei polsi le
gelide manette già sapeva, deus ex machina, cosa sarebbe accaduto da quel
momento in poi e cioè la certa condanna, la severità del giudice for-mulata in
sentenza, il sorprendente interesse della stampa per una non-notizia e il duro
trattamento penitenziario che mi attendeva con immediate classificazione in
regime EIV (Elevato Indice di Vi-gilanza).
E' difficile allontanarsi dalla convinzione che Ia sceneggiatura fosse già stata
scritta a tavolino, che la storia fosse già stata narrata ancor prima che la
sequenza dei fatti si dipanasse nella realtà effet-tuale.
Che poteri di diverse natura convergano o si combinino tra loro per dare vita a
corporazioni dotate di maggiori attribuzioni e capacità operative non è un
fenomeno nuovo o inedito.
La novità risiede nella costituzione di una esclusiva struttura di governo la
cui sostanza viene repli-cata nelle diverse forme che la contengono. Si pensi ad
esempio all’imperium di cui è investito il Comitato Provinciale per l'Ordine e
Sicurezza e al ruolo che svolge nel governo della città e dei cit-tadini.
E' pur vero che questa neocorporazione di poteri pubblici e soggetti
istituzionali (Prefetto, Sindaco, Questore, Procuratore della Repubblica,
rappresentanti delle associazioni commerciali e imprendi-toriali. ecc.) non ama
le apparenze o le esibizioni plateali; rifugge le forme e le denominazioni
con-fezionate all'uopo. Preferisce la penombra dei corridoi dei palazzi del
potere o la riservatezza degli uffici privati nei quali si stabiliscono le linee
di attuazione politica e si prendono le decisioni relati-ve l'applicazione delle
distinte fasi programmate.
Se fino a ieri la polizia e la magistratura erano forze organizzate dallo stato
e dai privati per tutelare il dominio politico ed economico delle classi
dirigenti, oggi si sono convertiti essi stessi in agenti politici che informano
e organizzano la società secondo le coordinate ricavate dalla particolare
vi-sione del mondo che promuovono.
Forse può sembrare ozioso indicare l'origine etimologico della parola "p o l i z
i a". Curiosamente è identico a quello di "p o l i t i c a" dal latino politia e
dal greco politeia e cioè le tecniche del gover-nare. Solo con la rivoluzione
francese il termine "polizia" viene utilizzato per definire quella autori-tà il
cui ambito è costituito dal mantenimento dell'ordine pubblico.
A quanto pare la polizia, oltre a conservare le competenze specifiche
attribuitegli dalla modernità avrebbe anche recuperato quelle originarie
funzioni di esercizio dei pubblici poteri al fine di fondare un ordine lineare e
perpetuo.
L'accentramento e la fusione di poteri è una necessità inderogabile che risponde
alle esigenze detta-te dai momenti di crisi strutturale ed egemonica. Questa
crisi è facilmente riscontrabile nel deterio-ramento e impoverimento delle
condizioni di vita di fasce sempre più vaste della popolazione sul fronte
interno, e dal lodo afghano e irakeno che mette in evidenza la sconfitta
strategico-politico-militare delle forze imperialiste di occupazione occidentali
su quello internazionale.
Quando la classe dirigente non riesce ad assolvere gli impegni presi i governati
perdono la fiducia e incominciano a disertare le istituzioni.
La risposta alla crisi di egemonia è data dall'implementazione di un nuovo
centro di potere che pone se stesso come un organismo in continuo movimento
capace di assorbire e legare a se tutta la socie-tà assimilandola ai suoi
modelli e al suo linguaggio. Ciò può accadere – e accade – nel momento in cui la
classe politica in quanto tale è più occupata a difendere e tutelare i suoi
privilegi di casta che a praticare le virtù pubbliche orfana com'è di nobili
ideali e grandi obiettivi che pongono al centro di interesse l'uomo, il suo
benessere e la sua felicità. L'attività politica si riduce ad una mera
ammini-strazione del presente come se della gestione di un condominio si
trattasse.
Ecco che il vuoto lasciato dalla defezione della politica dalla società civile
viene occupato prepoten-temente da questo ibrido organo di governo i cui poteri
sono devoluti prevalentemente a magistrati e poliziotti i quali godono di ampie
prerogative discrezionali e decisionali, dispongono di un preciso progetto
politico fondato sulla legge e l'ordine, aderiscono a una visione del mondo
manicheista e naturalmente intervengono politicamente nella vita pubblica con
gli strumenti che gli sono propri vale a dire i manganelli, le pistole
d'ordinanza, il codice penale e la produzione giurisprudenziale.
Di fronte a questo trasferimento di competenze i residui della politica
tradizionale non possono non prendere atto delle mutate condizioni e adeguarsi.
La comparsa sulla scena politica della figura del sindaco-sceriffo – la città di
Bologna vanta un ignobile pioniere – è il risultato teratogeno di questa nuova
condensazione di poteri con compiti di governo.
La costituzione di oligarchie corporativiste in tutti i campi delle faccende
umane dimostrano quanto il fascismo non sia stato una tappa storica accidentale
ma, invero, una necessità riproponibile ogni qualvolta le crisi strutturali lo
richiedano.
Più in generale stiamo assistendo ad una riorganizzazione del potere che
coinvolge sia gli stati na-zionali sia le strutture sovranazionali e lambisce
tutti gli ambiti del dominio sociale, politico, eco-nomico con la formazione di
corporazioni che si costituiscono fuori e al di sopra di qualsiasi pro-cesso
democratico. Si schiudono cosi le porte a un totalitarismo di nuovo conio.
Habeas Corpus?
Considerazioni di tutt'altro genere prendono spunto dalla asseverata
istituzionalizzazione della tor-tura che ha riacquistato, o forse non ha mai
abbandonato, una esiziale centralità nell'azione repres-siva.
La trattazione di tale argomento non ha valore di denuncia che, detto sia al
margine, non servirebbe a nulla, ma si propone di mettere in evidenza che cosa
accade quando il principe veste la divisa del-lo sbirro e indossa la toga del
giudice.
Senza scomodare le numerose testimonianze di coloro che il supplizio della
tortura lo hanno soffer-to sulla propria carne lacerata dai brutali metodi e
strumenti di tormento, vorrei soffermarmi su un aspetto quotidiano dell'azione
di polizia noto a tutti e facilmente verificabile da chiunque: il fermo di
polizia.
Quando la polizia detiene un individuo per un motivo qualsiasi questi viene
rinchiuso nelle camere di sicurezza di una questura, caserma o commissariato che
sia. L'impatto che produce sull'arrestato il contatto con queste camere di
sicurezza è delle più violente e angosciose. Squallide, luride, op-primenti,
fredde, illuminate ininterrottamente da una potente quanto irritante luce
artificiale; le pare-ti macchiate da indecifrabili geroglifici disegnati con
sangue umano, una sdrucita e maleodorante coperta gettata al suolo, la mancata
somministrazione di alimenti sono i segni tangibili dell'oltraggio ripetuto alla
persona umana, sono il monumento che celebra 365 giorni l'anno i diritti umani.
Questa situazione può prolungarsi fino a 48 ore trascorse le quali si è messi a
disposizione dell'auto-rità giudiziaria. Non occorre descrivere in quali
condizioni psicofisiche l'arrestato giunge davanti al giudice.
A prima vista il fine perseguito dovrebbe essere quello di annullare la volontà
e di vincere la resi-stenza dell'accusato per impedirgli di esercitare
pienamente il diritto alla difesa secondo il suo ra-gionato giudizio a tutela
dei propri interessi. Ma il riconoscimento giuridico della facoltà di non
ri-spondere mette al riparo da uno strumentale uso illegittimo della propria
parola annichilendo la mo-tivazione iniziale. Sembra piuttosto che l'unico
effetto cercato e desiderato sia quello di infliggere sofferenze e disagi a
titolo gratuito.
Vi sono due principi fondamentali di cui si avvalgono polizia e magistratura per
convertire l'abuso, la tortura, la vessazione in prassi consolidata e abituale.
Il primo è un significante che ho mutuato dalla lingua spagnola "indefensiòn"
tradotto come "indifensione'' poiché esprime in maniera com-piuta il concetto
che qui si vuole significare. II secondo è l'impunità.
L'indifensione non è caratterizzata solo dall'inefficacia degli istituti
giuridici disposti per la difesa dell'imputato dall'azione penale dello stato ma
e anche la negazione di verità inoppugnabili. Come si ottiene questo risultato?
In Spagna, per esempio, la tortura è un fenomeno ormai consuetudinario nelle "comisarias,
cuarteles
y carceles". I tribunali sono tempestati da continue denunce depositate dalle
numerose vittime di trattamenti degradanti e offensivi della dignità umana
ampiamente documentate da referti medici, fotografie, testimonianze dirette ed
altro. I giudici di cognizione, per togliersi dall'imbarazzo, com-piono un
inverosimile gioco di prestidigitazione; stabiliscono in sentenza che nella
"una, grande
e indivisibile Spagna" la tortura non esiste e non può esistere perché la legge
(sic!) non la prevede respingendo così al mittente le denunce formulate
insinuando inoltre, quale danno che si aggiunge alla beffa, che il vero motivo
non dichiarato di coloro che denunciano gli abusi sofferti è quello di infangare
il buon nome della nazione. Ecco un chiaro esempio di manipolazione della realtà
e di negazione della verità.
Un caro amico ucciso dal carcere, uno dei più spietati luoghi di tortura e di
morte, osservava con in-variabile lucidità come le mura del carcere non
servissero per separare dalla società chi vi è recluso ma per impedire che la
società vedesse quello che accade al suo interno.
In Italia si va oltre. La magistratura italiana è un clan i cui membri sono
vincolati dal principio di mutua assistenza e dal principio di omertà. I giudici
sanno in virtù di quello che vedono; tacciono a cagione di quello che sentono.
Vedono in quali pietose condizioni vengono condotti gli arrestati al loro
cospetto; odono i lamenti di coloro ai quali "il demiurgo dal lungo mantello
nero" dispenserà giustizia e se ne compiacciono. II loro complice silenzio è
tanto criminale quanto i brutali metodi della polizia.
Il giudice italiano è un abile mistificatore. Nella fase di ricostruzione dei
fatti processati egli li fa apparire sulla scena in una sequenza che scaturisce
dalla sua personalissima immaginazione ma non per questo priva di suggestione e
coerenza; assegna una maschera ad ogni personaggio e ne tira fuo-ri un racconto,
a volte avvincente, che tutto rispecchia tranne la realtà dei fatti. Per
raggiungere l'ef-fetto desiderato si avvale di eleganti eufemismi che ne
arricchiscono 1a prosa. L'esercizio della tor-tura praticata dai funzionari di
pubblica sicurezza lo chiama: "...eccessivo zelo nello svolgimento delle proprie
funzioni; l'uccisione di persone inermi e indifese a mano delle forze
dell'ordine le giu-stifica come: "...colpo accidentale esploso dall'arma in
dotazione con ferita provocata da fatale de-viazione di traiettoria dell'ogiva";
quando un individuo viene segnalato dallo stato come nemico ir-riducibile da
eliminare ad ogni costo, gli si inchioda sulla fronte il cartello di: "...
soggetto social-mente pericoloso'' e così via. Tutto questa prende il nome di
stato di diritto.
L'altro aspetto considerato è l'impunità. In effetti non esiste nessun
dispositivo né civile né penale che sanzioni il cattivo procedere di un
magistrato. Egli può violare norme, codici, procedure; può adulterare la verità,
inventarsi prove ex nihilo, dare copertura legale alla tortura, condannare
inno-centi senza che ne derivi la minima conseguenza. Tutto gli è consentito
perché egli non solo è inter-prete della legge ma all'occorrenza è anche
legislatore.
L'attività principale dei magistrati e della polizia é quella di coprirsi le
spalle a vicenda per poter continuare a commettere ogni classe di nefandezza
impunemente. Con perfida circospezione inter-rano le loro malefatte prima che il
fetore diventi nauseabondo.
L'aspetto allarmante della tortura istituzionalizzata consiste nel fatto che se
un tempo era finalizzata all'ottenimento della madre di tutte le prove e cioè la
confessione e l'ammissione di colpa dell'accu-sato adesso si applica per puro
sadismo senza altra fine se non quello di infliggere dolore e soffe-renza in chi
la subisce.
Sicofanti
Negli ultimi anni si sono verificate numerose operazioni repressive che hanno
coinvolto decine di anarchici e anarchiche fatti oggetto delle più svariate
accuse molte delle quali con l'aggravante di terrorismo ed eversione
dell'ordinamento democratico. Queste operazioni, tuttavia, non hanno una ragione
persecutoria e punitiva come potrebbe sembrare a prima vista ma principalmente
investiga-tiva.
Ad un sommario esame delle attuazioni condotte dalla polizia politica italiana
ai danni di soggettivi-tà e gruppi di movimento ci si accorge immediatamente
della povertà degli impianti accusatori ai quali manca l'elemento fondamentale:
1a prova certa della responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio. In altri casi
si è verificata una sproporzione esagerata tra i fatti incriminati e l'azione
penale applicata, cagionando aberrazioni giuridiche che farebbero impallidire il
più forcaiolo giustizialista.
Lo scopo è quello di diffondere rabbia e indignazione tra quei gruppi e
individualità che, con gli ar-restati, condividono e partecipano dello stesso
spazio politico, aggregativo e affettivo al fine di pro-vocare reazioni,
ragionate o inconsulte che siano, le quali verranno immediatamente captate
dall'at-tività di monitoraggio della polizia; saranno registrati i movimenti, le
pulsazioni, gli sbalzi di tem-peratura.
Ne1 2005, trovandomi recluso nel carcere "Le Sughere" di Livorno, vennero a
farmi visita due fun-zionari dell'antiterrorismo, i cui nomi per il momento non
voglio ricordare, autorizzati dal decreto dell'allora ministro degli interni
Pisanu. Questi "colloqui investigativi" con prigionieri presuntamen-te vincolati
a gruppi o movimenti che esercitano violenza politica, perseguivano l'obiettivo
di otte-nere qualche informazione utile allo svolgimento delle indagini in corso
relative ai gruppi di prove-nienza e magari, perché no, incoraggiare una
ignominiosa collaborazione.
Si sa che la condizione di ostaggio conferisce al sequestratore – lo stato – il
diritto di proprietà sul prigioniero spogliandolo degli attributi umani e
convertendolo in oggetto. Concluso il processo di cosificazione il sequestrato
può essere impiegato secondo le esigenze richieste: come merce di scambio, come
mezzo di ricatto, per alimentare o sollevare un allarme sociale fittizio, per
incremen-tare le statistiche sui suicidi in carcere a quant'altro. Può anche
accadere, dunque, di ritrovarsi seduti di fronte a due procuratori di infamie.
Ma Caserio fa il fornaio e non la spia. Questa è la nostra grandezza. La nostra
dignità, la nostra one-stà, il nostro orgoglio non si trovano sul mercato.
Tuttavia questa disperata ricerca di informatori, e collaboratori, confidenti
denota l'incapacità degli esperti investigatori italiani di procedere alla
risoluzione di fatti criminosi attraverso quelle tecniche genuinamente
scientifiche di cui avrebbero dovuto sviluppare competenze specialistiche
inegua-gliabili.
Se c'e qualcosa che dimostrano i numerosi fatti di cronaca con cui gli avvoltoi
dell'informazione confezionano servizi giornalistici carichi di finzione
narrativa da dare in pasta al popolo affamato di circo è precisamente questa
incapacità che spesso sconfina nell'inettitudine e nel ridicolo.
D'altra parte l'alta percentuale di delitti che rimangono insoluti rappresenta
il dato più esplicito.
Unico strumento che si adegua alla professionalità degli inquirenti italiani è
il pentitismo nutrito da una abbondante normativa che lo disciplina e lo
incoraggia.
La legge sui collaboratori di giustizia abolisce il rapporto delitto-pena
premiando con l'impunità i delatori e castigando duramente la coerenza di chi
rimane fedele a se stesso. Le procure italiane u-sano e manipolano a piacere i
pentiti per costruite la prova di colpevolezza (spesso l'unica) attraver-so le
dichiarazioni che nella maggioranza dei casi si rivelano inattendibili e
invalidate dalla loro stessa contraddittorietà e falsità.
II fenomeno del pentitismo deriva dallo sviluppo storico della lotta di classe.
Non potendo risolvere il conflitto di classe senza sovvertire il proprio ordine
democratico, lo stato tenta di incorporare in sé quelle soggettività aderenti ad
organizzazioni o gruppi altamente dissolventi e ostili offrendogli vantaggiose e
confortevoli condizioni di vita alle quali è difficile resistere se si è
sprovvisti di una solida e matura formazione culturale o ideologica. Nei
rapporti di forza questo transfughismo, que-sta transazione dal fuori-legge alla
legalità dello stato potenzia le classi dirigenti e indebolisce quel-le
subalterne affermando in questo modo la supremazia dei governanti e
l'assoggettamento dei go-vernati. Ma nella situazione attuale in cui la forza
della classe dominante è infinitamente superiore a quella delle classi
antagoniste, la guerra che un tempo si proponeva come di classe oggi si presenta
come un vero e proprio gioco al massacro dove i ricchi sparano e i poveri
accolgono nei loro petti nudi l'acciaio delle pallottole.
In seguito all'esecuzione di stato di un presunto esponente della mafia
siciliana il Ministro degli In-terni Giuliano Amato in una dichiarazione
rilasciata alla stampa si congratulava con gli assassini di quest'uomo
argomentando che "da adesso c'e un mafioso in meno in circolazione'' (La
Repubblica, 4/12/07). Mi domando se nella terra dei papi, della proclamazione
urbi et orbi della sacralità della vita, della condanna dell'eutanasia, delle
crociate contro l'aborto, della moratoria universale sulla pena di morte, un
fango come Giuliano Amato può permettersi di applaudire e celebrare la morte
violenta di un essere umano. Naturalmente questo è solo un esecrabile aneddoto
che esemplifica il grado di ipocrisia che ottunde il sentimento e la ragione di
questa società.
Può succedere che canaglie come me, per assecondare l'insopprimibile necessità,
per difendere la propria libertà o la vita da attacchi esterni o magari in preda
alle effervescenze della follia causiamo dei danni, a volte anche irreversibili,
a cose e persone che si pongono sul nostro cammino ma chi arresta, perquisisce,
tortura, incarcera, assassina e minaccia la comunità di applicare identico
tratta-mento a qualsiasi condotta disubbidiente fa del terrorismo; vero e
proprio terrorismo.
Con le armi in pugno
Gli anni trascorsi nel ventre della bestia mi hanno messo nella condizione – mio
malgrado – di co-noscere a fondo la repressione; le questioni processuali e
quelle penitenziarie, il diritto e l'abuso, il buon senso e la legalità, la
banale reiterazione dell'atto burocratico e l'arbitrarietà delle regole.
Non potevo immaginare, invece, come fosse cambiata la vita sulla superficie del
mondo. Nuovi bi-sogni, nuovi consumi, antiche abitudini e rinnovate
preoccupazioni formano una composizione di-scrasica che rende la società
irriconoscibile per chi, come me, ne è stato allontanato per lungo tem-po.
Ben presto quello che nell'immaginario si era delineato in modo confuso e
disconnesso veniva as-sumendo ai miei occhi contorni sempre più chiari e nitidi
rivelando la portata e la consistenza delle trasmutazioni avvenute nel consorzio
umano.
La cosa che più mi ha colpito è stato prendere atto della quantità di gente che
lotta per la sopravvi-venza. Senza dubbio i modi di vivere e i comportamenti
delle persone si sono dovuti adeguare alla precarizzazione del lavoro e ai
disastrosi effetti a esso connessi, primo fra tutti la perdita di un sala-rio
garantito che fa registrare repentini sbalzi del reddito individuale o familiare
con frequenti oscil-lazioni determinati dallo stato del mercato occupazionale.
Questo adeguamento comporta anche un cambio di percezione che si ha della vita
stessa.
Insicurezza, disperazione, solitudine, paura sono le costanti che scandiscono la
quotidianità.
II progressive processo di pauperizzazione che riguarda segmenti sempre più ampi
della popolazio-ne esclusi dal consumo di massa o il cui accesso è consentito
solo attraverso l'artificio del credito con la risultanza di un indebitamento
sempre maggiore che agisce come un cappio intorno al collo mette in evidenza il
declino di questa società ormai incapace di gestire le crisi che la
attraversano. Mi domando se sarà sostenibile ancora per molto una situazione del
genere.
Negli anni '70 i proletari impugnavano le armi per molto meno. Interpellare con
insistenza quella generazione che per ultima, in ordine cronologico, prese
d'assalto il cielo; lasciarmi istruire dalla letteratura partigiana e dalla
resistenza antifascista o ancora interrogare la feconda esperienza tra-smessaci
in legato dai movimenti operai e rivoluzionari che nel corso del XIX c XX secolo
fecero vibrare la terra sono le cattive abitudini che distinguono una canaglia
come me. E' come se volessi penetrare lo spirito di ogni epoca storica, cogliere
I'essenza, il ritmo nascosto della ragione della passione dell'utopia.
Ciò che la nostra capacità sensitiva suggerisce sotto forma di allucinazione, di
timore o di speranza è che qualcosa di importante stia per accadere; che ci si
avvicini a passi inesorabili verso grandi tra-volgimenti sociali; che fattori
imponderabili faranno virare il corso delle cose in modo inatteso e
imprevedibile. Non sappiamo se come rivoluzione a come reazione, l'unica cosa
certa e che il ma-lessere è diventato intollerabile e non si vede in questa
società nessuna forza che sia capace di miti-garlo.
La storia si è sempre mostrata fedele al ciclo
oppressione-ribellione-cambiamento e allo stato non vi è nulla che ne faccia
intendere una inattesa interruzione.
L'attuale crisi è permanente, cioè a prospettiva catastrofica. Ce ne accorgiamo
da come lo stato tenta di gestirla: smarrimento, confusione, provvedimenti
d'urgenza revocati il giorno dopo l'entrata in vigore e soprattutto il
parossistico inseguimento di misure repressive come se queste potessero
im-pedire la decomposizione della civiltà votata alla morte, ne sono il segno
inequivocabile.
Esiste un perfido rapporto tra il deterioramento della qualità della vita e
l'aumento della repressione.
E' utile osservare come lavoro e repressione si avviluppano in modo da non
poterli più distinguere né differenziare. Non fu la repressione a vincere la
resistenza degli operai inglesi all'introduzione delle macchine a vapore nelle
fabbriche? Non fu il taylorismo una scientifica combinazione di lavo-ro
automatizzato e repressione programmata degli operai al fine di ridurli all'addomesticamento
produttivo? Non è sempre la repressione che ha consentito il passaggio dal
lavoro garantito al pre-cariato? E ancora oggi sono sempre i manganelli e le
pistole d'ordinanza insieme alle galere, ai CPT e ai pacchetti sicurezza gli
strumenti utili da un lato per costringere i lavoratori a conformarsi al nuovo
tipo di lavoro e di processo produttivo alle condizioni economiche imposte dal
padrone e dal-l'altro per annientare quella parte della classe lavoratrice in
esubero, che costituisce l'eccedenza di forza-lavoro e che quindi non può essere
assimilata in nessun modo. Sembrano trovare compimento le parole di Antonio
Gramsci secondo le quali: "avverrà ineluttabilmente una selezione forzata, una
parte della classe lavoratrice verrà spietatamente eliminata dal mondo del
lavoro e forse dal mondo tout court".
Naturalmente il mio interesse si concentra sulle possibilità reali di attuazione
che l'ipotesi rivoluzio-naria conserva nella fase storica attuale.
Quando le cose non vanno bene c'è sempre voglia di cambiamento. II desiderio di
azzerare la storia e ricominciare coincide con l'attesa quasi escatologica di
quella forza necessaria che sappia condur-ci al punto di inizio di una storia
che non era e che non è ancora. "L'idea che la storia ricominci im-provvisamente
dal principio, che stia per svolgersi una storia interamente nuova, mai vissuta
né nar-rata finora'' (Hannah Arendt) esercita il suo poderoso fascino dal quale
è difficile sottrarsi.
Paradossalmente oggi ci sano più motivi per ricorrere e riproporre la lotta
armata rivoluzionaria che non nel recente passato. Ma se esistono le condizioni
oggettive mancano in assoluto quelle sogget-tive. Non c'é più una classe operaia
illustrata; manca il movimento organico permanente, il soggetto collettivo
critico che riesca a elaborare la coscienza storico-sociale e sappia risolvere i
problemi es-senziali dell'epoca.
Sarebbe oltremodo irresponsabile ignorare come alle spinte rivoluzionarie della
decade '60-'70 sia seguita una feroce controrivoluzione che non ha mai
conosciuto un riflusso ma, al contrario, si è convertita in irrevocabile e senza
soluzione di continuità.
Il presupposto del fatto rivoluzionario radica sull'irreversibilità del processo
che ha innescato. Si può parlare di rivoluzione solo quando si giunge al punto
di non ritorno – hic rhodus, hic salta – e ci si può arrivare solo
moltitudinariamente e cioè attraverso la forza del consensus. Il precipitare
degli eventi favorevoli alla rivoluzione è sempre l'effetto di una superiorità
fisica, materiale, anzi, ne è la innegabile constatazione.
Ma quale può essere il polo di attrazione, il centro di coesione capace di
concentrare e coordinare le forze? Alcune organizzazioni armate attive nelle
nostre latitudini sostengono che solo la lotta arma-ta può svolgere il compito
di galvanizzare le forze e dirigerle politicamente verso obiettivi di alto
valore strategico. L'analisi muove dalla consapevolezza della mancanza di spazi
di agibilità politica occupati da questo nuovo Tératos che conferisce poteri
illimitati a magistrati e poliziotti impedendo lo sviluppo di istanze politiche
anticapitaliste in condizioni pacifiche. La violenza diventa, quindi, il veicolo
mediante il quale si esprime la frustrazione di non poter agire diversamente.
Ma all'attenta analisi politica si deve accompagnare anche l'esperienza
accumulata fino al momento storico attuale. Se la società è pervasa dallo
spirito della repressione come è possibile avviare un processo di accumulazione
di forze senza che questo spirito stronchi sul nascere qualsiasi tentativo di
azione rivoluzionaria? I fatti dimostrano come queste organizzazioni siano state
ridotte ad una logorante lotta per l'autoconservazione che le rende innocue e
impotenti sul piano politico.
Allora è ancora il lavoro della talpa verrebbe da dire. Quella che tesse la
trama nel sotterraneo, in modo clandestino e che emerge in superficie solo
quando ha la forza di misurarsi sul terreno dello scontro. E' il partito o il
sindacato che cresce e si sviluppa nella clandestinità in attesa di convertirsi
in forza irresistibile capace di avvolgere la società in un abbraccio
totalizzante. "One big union" gridavano gli Industrial Workers of the World.
Sarebbe così se ancora esistesse una classe omoge-nea con interessi uniformi,
problematiche condivise e procedure unanimi.
Il potere dominante, però, non è rimasto con le mani in mano ad osservare
immobile come si anda-vano amalgamando le forze sociali che avrebbero
significato la sua negazione ma è intervenuto e-nergicamente frazionando in
unità infinitesimali le necessità e gli interessi del proletariato e li ha
contrapposti scatenando una lotta fraticida. Alla ormai "storica'' guerra dei
ricchi contro i poveri bi-sogna aggiungere quella che oppone il povero al
povero.
Bandite le utopie, seppellita la cultura di classe, l'aspirazione alla felicità,
alla libertà pubblica, il mondo si è convertito in un crogiuolo di dolore e
sofferenza fisica e psichica. L'ambivalenza tra re-altà dolorosa e desiderio di
fuga e di rimozione delle cause che la presiedono pone al centro di inte-resse
la necessità di dare una definizione all'indeterminatezza dei percorsi di
liberazione.
Se il fuori da sé dell'uomo è invaso dal vigile controllo della repressione
allora la forza di radunare la moltitudine e mobilitarla rivoluzionariamente
dovrà essere cercata per forza di cose in sé.
Rousseau indicò due forze che caratterizzano la natura umana: la passione cioè
la capacità di soffri-re e la compassione cioè la capacità di soffrire con gli
altri. La capacità di comunicare la propria sofferenza e di comprendere quella
degli altri attinge direttamente dalla sfera dei sentimenti, delle emozioni
ovvero dalla sublimazione dell'interiorità dell'uomo.
Il grado di empatia stabilisce e rafforza il legame naturale tra gli uomini.
Quando la sofferenza agisce si trasforma in rabbia, la compassione in
solidarietà. E la sofferenza, una volta trasformata in rabbia può scatenare
forze travolgenti. Invero, non è la compassione che si lancia nell'azione per
cambiare le condizioni del mondo al fine di alleviare le sofferenze umane "ma se
lo fa respinge i processi della legge e della politica e presta la sua voce agli
stessi uomini che sof-frono e che devono pretendere un'azione veloce e diretta
ossia l'azione per mezzo della violenza'' (Arendt).
Si pensi all'esordio della rivoluzione francese. L'azione iniziale dei
rivoluzionari parigini non si concentrò sui granai, la proprietà dei mezzi di
produzione o le lussuose dimore dei nobili ma fecero irruzione nel recinto del
carcere della città con il proposito di raderlo al suolo. La Bastiglia non era
solo il simbolo dell'oppressione ma era il luogo fisico, concreto, tangibile
dove nell'infinito tempo carcerario si consumava e riproduceva l'afflizione
degli esseri umani. Ad un certo punto le grosse mura del carcere non furono più
in grado di contenere le sofferenze del popolo francese. Ecco per-ché quando il
re Luigi XVI esclamo: "ma questa è una rivolta!'' il suo segretario gli rispose
"no Sire, è una rivoluzione''. Questa violenza, dicevamo, che esplode e
rapidamente raggiunge l'obiettivo fi-nale è l'unica che può essere qualificata
come autenticamente rivoluzionaria.
Che vengano dunque le manganellate, le torture, i fine-pena-mai, i CPT, gli
infortuni e le morti sul lavoro, sulle strade, tra le pareti domestiche della
psicotica quotidianità. Quando toccherà a noi spazzeremo via tutto ciò che causa
inutile sofferenza e ne cancelleremo il vile ricordo.
Mediterraneo
In una occasione mi trovavo allo stadio per assistere ad un torneo di calcio
quando la curva, in coro, incominciò ad intonare 1o slogan: "NOI NON SIAMO
POLlZIOTTI". Chiunque e in grado di co-gliere il significato e le implicazioni
che contiene questa frase. Noi non siamo poliziotti non ha sol-tanto un
significato negativo e cioé non vuol dire solamente noi non spiamo la vita della
gente, noi non commettiamo abusi e prevaricazioni forti della superiorità
numerica, noi non facciamo del so-spetto e della delazione le nostre regole di
vita, ma e anche un grido di delegittimazione dell'autorità costituita.
La ripresa della crisi del principio di autorità in fase di acutizzazione
conduce inevitabilmente al momento in cui la moltitudine, simultaneamente e
unanimamente, decide di non ubbidire più. II processo delegittimante restituisce
il potere originario all'individuo ceduto coattivamente al principe e lo mette
nella condizione di agire illimitatamente. Questa illimitatezza, però, non è
data dalla sin-gola potenza ma da quello spazio pubblico dove gli uomini si
riuniscono e si legano tra loro con promesse, accordi e impegni reciproci.
Quando si parla di rivoluzione qualsiasi argomento risulta insufficiente,
inadeguato. E' un concetto straordinariamente ampio, è un'ipotesi che non può
essere definita teoricamente una volta per tutte, refrattaria com’è alle rigide
regole della logica. Indeterminatezza, imprevedibilità, varianti scono-sciute,
potenza misteriosa e incontrollabile sono gli unici sostantivi applicabili alla
rivoluzione. No-nostante tutti gli sforzi per tradurre l'immaginazione in
prassi, non è mai possibile scongiurare il ri-schio di "inseguire un fantasma e
abbracciare una delusione" (Mumford Jones).
Realtà o delirio? Possibile o improbabile? Adesso o mai più?
La consapevolezza di tale ineffabile grandezza non liquida in assoluto la
questione. Numerosi sono i problemi teorici e pratici che reclamano soluzioni
convincenti. Anche se la passione e la compas-sione fossero in grado, esse sole,
di costituire il soggetto rivoluzionario questi non potrebbe agire senza aver
elaborato previamente un progetto compatibile con la fallibilità e la fragilità
umana e cioè privo di irreversibilità ma mutevole e perfettibile sotto il
costante impulso dei tempi e delle cir-costanze. E poi ancora il superamento
della rappresentanza, le modalità di partecipazione diretta al-la vita pubblica,
1'abolizione dello sfruttamento, l'applicazione di nuovi modi di produzione e
ripro-duzione della vita ed altra ancora.
Se ne può parlare adesso o sono temi da rimandare inevitabilmente ad un tempo e
uno spazio inde-finito? A mio modesto parere la parola deve essere restituita
alla collettività umana ricucita dagli strappi che la mantengono disgregata che
nel suo stare insieme, nel suo ininterrotto discutere, con-frontarsi,
sperimentare individua e riconosce i problemi e convoca tutti a risolverli.
La rivoluzione ha bisogno di consenso. Le faziosità, i particolarismi settari
del gruppo autoreferen-ziale sono utili solo ad allontanare ancora di più il
pericolo rivoluzionario.
Il mio invito rivolto a tutti indistintamente si limita ad una semplice, chiara
esortazione: incomin-ciamo a parlare di cosa vogliamo, come lo vogliamo e in che
modo pretendiamo ottenerlo.
Aprire una fase di chiarificazione estesa a tutte le soggettività individuali e
collettive antagoniste al-l'attuale stato di cose diventa necessaria se lo scopo
perseguito è quello di rilanciare la prassi rivolu-zionaria partendo dalla
fondazione di un nuovo inizio. Tra il punto di partenza e l'obiettivo finale si
distribuiscono in rapida successione obiettivi parziali che devono essere
raggiunti e superati. Nella capacità di segnalare i veri obiettivi, quelli
consustanziali al funzionamento del sistema, e di conver-tire ogni lotta in un
successo, risiede la forza e la possibilità di crescita del movimento in
divenire.
Bisogna individuare lo spazio in cui avviare questo auspicato processo di
chiarificazione ovvero stabilire il campo del confronto e della discussione.
Navigando tra i ricordi del compagno Catalano Luis Andres Edo formidabilmente
intrecciati nella raccolta di memorie: "La CNT en la encrucijada'' mi sono
imbattuto in una definizione che ha catturato poderosamente 1a mia attenzione.
Luis A. Edo racconta di come, in fuga dalla repressione franchista in Spagna,
riparò a Parigi dove incontrò il Mediterraneo. A cosa si riferisce? I superstiti
delle formazioni politiche e sindacali rivoluzionarie spagnole sconfitte nella
impari guerra contra il nazional-cattolicesimo di Francisco Franco sostenu-to
dai più temuti regimi totalitari tedesco e italiano si esiliarono in Francia con
il proposito di ri-comporre le forze e organizzare la resistenza antifranchista.
Gli esuli spagnoli diedero vita a numerose assemblee disseminate nelle maggiori
località francesi ovvero fondarono spazi di incontro e di discussione aperti a
tutti gli antifranchisti al fine di articola-re risposte alla gravosa domanda:
che fare? L'assemblearismo funzionò come metodo esclusivo di formazione di
militanti tanto sul piano teorico come su quello pratico ma non solo.
L'assemblea era sì il foro in cui le idee trovavano legittima formulazione e
compiutezza sottoposte alla implacabile critica del dibattito pubblico ma
fungeva anche da nucleo deliberativo che promuo-veva e invitava all'azione.
In altre parole i combattenti spagnoli esiliati scoprirono nell'assemblearismo
un energico strumento rivoluzionario che esprimeva la loro identità, il loro
essere e sentirsi rivoluzionari in qualsiasi parte del mondo; scoprirono il
Mediterraneo. Ma fu l'assemblea un fenomeno esclusivamente spagnolo contestuale
alle particolari condizioni politiche dell'epoca?
Senza sconfinare nell'indagine storica ho percorso a ritroso la memoria – questa
volta la mia – alla ricerca di similitudini anche ipotetiche nel mio vissuto e
ho ritrovato l'assemblea ovunque. Nelle scuole e nelle università occupate, nei
centri sociali, nelle lotte sindacali operaie, nelle prigioni, in Val Susa, a
Vicenza e nei comuni del napoletano sommersi dalla spazzatura. Ad ogni
incipiente processo di lotta l'assemblea si presenta fin dal principio come
naturale ambito di incontro, di di-scussione e di decisione.
Il profumo del Mediterraneo penetra irresistibilmente nei nostri corpi, nelle
nostre menti e si insinua intuitivamente nei nostri modi d'agire.
Rielaborare il concetto e la pratica dell'assemblea significa stabilire un filo
di continuità, lanciare una testa di ponte tra il passato e il presente
recuperando tutto ciò che di positivo ha prodotto il mo-vimento rivoluzionario
locale e internazionale.
L'assemblearismo contiene in sé il superamento della rappresentatività e
dell'autoritarismo. In un certo senso l'assemblea sarebbe l'elemento
fondamentale e costitutivo della nuova società, che la in-forma e la istruisce.
Per usare un linguaggio tipicamente giudiziario si può dire che interpreta la
funzione di mandante ed esecutore materiale del mondo che siamo riusciti ad
immaginare. Luis A. Edo propone il transito dalla demo-crazia (autorità del
popolo) alla demo-acrazia (popolo antiautori-tario) nel quale si identifica l'assemblearismo
scevro dalla pachidermica rigidezza delle strutture or-ganizzative che in quanto
tali contengono il germe dell'autoritarismo e che dovrebbe rappresentare,
invece, il libero fluire della vita, il movimento incostante e ondulatorio dei
percorsi di libertà e di liberazione.
Per I'abolizione dell'ergastolo
Per l'abolizione delle pene
Per l'abolizione delle galere
Finito di scrivere nel mese di gennaio dell'anno 2008 nel carcere "La Dozza" di
Bologna
Michele Pontolillo